Pubblichiamo qui i risultati della seconda settimana dell’analisi comparativa di Campagna per salvare l’italiano. La sociolinguista Vera Gheno ha detto che «tutte le lingue usano i prestiti integrali«. Si è dimenticata di aggiungere che l’italiano lo fa esponenzialmente di più.
«Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso». AUTORE: Giovanni Bruni
Per una serie di circostanze fortuite, mi sono imbattuto in due manifestazioni del pensiero sul linguaggio: una inconsapevole, l’altra ben meditata; perfettamente contrapposte e quindi l’una causa dell’altra.
Gli annunci di lavoro sono un interessante laboratorio linguistico. Un individuo, che spesso par non sapere nulla della posizione organizzativa di lavoro al fine di coprir la quale cerca candidati, ambisce a fornire un quadro suggestivo e attraente del ruolo cercato. Deve farlo in poche righe di testo e, a giudicare dal risultato, la chiarezza e la precisione non sembrano requisiti essenziali: si oscilla tra il comico e il grottesco. La vittima principale di questo sovrumano sforzo creativo è proprio il linguaggio. Ecco un esempio freschissimo, uno tra i tantissimi possibili:
Chi non vorrebbe essere ‘adibito all’hunting di clienti energivori’? Armato della propria insalata verbale schizofrenica, l’autore non fa prigionieri: inglesismi assurdi, tautologie topologiche, ostentazione di abbreviazioni e acronimi, aggettivi e verbi inesistenti o di derivazione informatica, punteggiatura lacunosa e perfino un sublime ‘e,’.
Potrebbe bastare, ma c’è una chicca finale: tra i motivi che inducono il solerte selezionatore (magari anche autore dell’annuncio) a cestinare immediatamente un curriculum vitae, qual è di gran lunga il principale?
Ovvero, per essere ancora più chiari: Lo immaginiamo così: armato di penna rossa, subissato da quelli che si ostina a chiamare curricula perché non sa che in italiano il plurale dei termini stranieri si rende sempre e solo usando il numero dell’articolo che li precede, il Nostro si fa carico del gravoso compito di impedire che qualcuno vada a far danno in azienda con la propria ortografia zoppicante o, peggio, con la trascuratezza di colui che non rilegge quanto ha scritto.
Se ne deve dedurre che chi pubblica certi annunci di lavoro li ha perfino riletti?
La degenerazione del linguaggio è un indicatore preciso. Lo è come le parole di Gianrico Carofiglio, che, precedute da quelle perfette di Primo Levi, la precisione personificata, rispecchiano il mio pensiero:
Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. (Primo Levi, Dello scrivere oscuro)
Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è un lusso da intellettuali o una questione accademica. È un dovere cruciale dell’etica civile. “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza”. Sono parole del filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali. Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso. L’antidoto è la scrittura civile, cioè quella limpida e democratica, rispettosa delle parole e delle idee. Scrivere bene, in ogni campo, ha un’attinenza diretta con la qualità del ragionamento e del pensiero. Implica chiarezza di idee da parte di chi scrive e produce in chi legge una percezione di onestà. (…) Ciascuno di noi dovrebbe prestare una cura disciplinata della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello (apparentemente) passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo. Anche perché solo parole che rispettino i concetti, le cose, i fatti possono rispettare la verità.
«L’itanglese non lo usano per facilitare la comunicazione. Lo fanno o per vanità o per ignoranza, credendo di doversi adeguare. Questa è la differenza tra come usano l’inglese come seconda lingua altri Paesi e come viene usato in Italia».AUTORE: Lambie Barbara Matarrese
Il mio trasloco a Londra, nel 1973, era stato motivato da un forte desiderio di scoprire la Gran Bretagna e poter imparare una lingua che trovavo affascinante. Andare a Londra a quei tempi non era affatto di moda. Chi andava lo faceva per motivi di necessità, di lavoro o per famiglia. Io invece andavo per scoprire. Non ero soddisfatta degli studi che stavo facendo in Italia, quindo lasciai scuola e tutto prima degli esami di maturità e me ne andai. Dapprincipio pensando di stare sei mesi, ma una volta arrivata sapevo che non sarei tornata presto in Italia. E infatti non sono mai tornata.
Non avevo nostalgia. L’Italia era sempre lì e visitarla è sempre rimasto d’obbligo per l’arte, la bellezza, la lingua, e per la sua energia ed esperienze diverse. Per me nulla era pianificato, scoprivo le cose un po’ alla volta circa la decisione se rimanere o tornare. Dapprima ho abitato nel Surrey ma poi Londra è stata una scoperta enorme e me la sono vissuta pienamente per vent’anni. Successivamente mi sono spostata negli Stati Uniti e da dodici anni sono nuovamente a Londra.
A quei tempi non mi ponevo domande particolari sulle lingue. Non ero e non sono una linguista. Sono un’artista e vivevo entrambi le lingue come due espressioni diverse, molto diverse, ugualmente attraenti. Con l’Italiano potevo esprimere le cose in un modo, con l’inglese in un altro.
Eppure, la prima parola che ho sentito parecchi anni fa in Italia, e che mi colpì subito fu ‘location’, semplicemente perché era utilizzata in modo scorretto. Ad un certo punto ho incominciato a leggere giornali italiani online più regolarmente e, intorno al 2018, ho iniziato a vedere sempre più spesso termini inglesi inseriti nei testi. Più tardi ho notato che incominciavano ad aumentare e il fatto mi incuriosiva e infastidiva perché troppo spesso erano fuori luogo, scorretti o addirittura con un significato tutto ‘italiano’.
Ma è stato il 2020, l’anno della pandemia, senza ombra di dubbio, che ha scatenato un inferno per quanto riguarda l’uso sconsiderato di termini inglesi o pseudo-inglesi. E da lì ad oggi sembrano aumentare esponenzialmente. Eppure, io vengo da Venezia e sono sempre stata abituata a vedere insegne in inglese sin da bambina, quindi anche quando notavo all’inizio giornali che usavano qualche termine in più in inglese, a dir la verità non la percepivo come un’intrusione. Ma questo solo all’inizio. Poi mi sono velocemente resa conto che il fenomeno si stava allargando. Durante la pandemia, sono andata a Venezia e raccontavo ad alcuni amici di come avevo notato termini strani come smart-working, lockdown e altri, e di come venivano usati a caso e spesso senza senso. E proprio allora scoprivo che queste mie conoscenze, proprio loro, avevano assimilato passivamente termini tipo step, top, location ecc. Sono rimasta molto colpita dal fatto. Soprattutto perché queste persone non parlano affatto inglese. È passato più di un anno da quel viaggio e il fenomeno è aumentato a dismisura e quindi oggi, alla fine del 2021, trovo questo fenomeno una minaccia per la lingua italiana.
Mi infastidisce tantissimo vedere come tante persone che hanno influenza sugli altri, i giornali, gli uffici ed enti pubblici, insistano sempre di più a mescolare le due lingue. In effetti a me sapere che l’Italia è un paese dove si parlano due o più lingue straniere va benissimo, se così fosse!! Invece cosí non è. Quello che i giornali producono è un miscuglio orrendo e spesso, molto spesso, non capisco il significato di quello che scrivono, anche se parlo inglese. La domanda è: perché lo fanno? L’italiano è propenso a darsi arie. Questa è una generalizzazione molto azzardata, lo so. Spinti da un senso di inferiorità rispetto ad altre nazioni forse, e accompagnati da un’immaginaria intesa o amicizia verso gli americani, sembra che gli italiani cerchino sempre di farsi valere e di imitare coloro che sembrano possedere qualità invidiabili. In un certo senso non si vergognano di sbagliare nelle cose, si buttano. D’altro canto, per altre cose, quelle nate in Italia, hanno cura del dettaglio, della qualità, dell’eccellenza. Ne sono fieri. Godono di lunghe tradizioni e hanno acquisito ed ereditato abilità invidiabili. Ma per le cose ‘foreste’, le cose che non conoscono, gli italiani sono dei grandi imitatori. Vogliono fare come fanno gli altri, per non essere a meno. Aggiungo che le nuove generazioni quasi nate online, in una cultura globale paurosamente superficiale, sono più propense a divulgare il fritto misto linguistico. E questo – che piaccia o no – fa sempre parte della categoria gergo che ogni generazione ha adottato e successivamente abbandonato. Ma, con internet, la tendenza a credere a qualsiasi cosa, a copiare, ad imitare, a contagiarsi a vicenda di abitudini, una parola oggi, una domani, il giornale copia, un altro giornale ovviamente fa a gara, le parole entrano in TV, entrano negli uffici, nelle aziende, in attività di ogni genere. È una gara a tenersi al corrente e seguire le tendenze senza farsi tante domande. E così si dilaga un virus linguistico che dobbiamo tamponare…con un daily tampon!!!
Io oggi vivo sia a Londra che in Arizona e una cosa del genere lì sarebbe impensabile. La gente in Arizona, per esempio, non soffre di vanità in quel senso. Non capiscono il concetto del fare ‘bella figura’. Non c’è necessità di fare quello che stanno facendo in Italia. Sia qui che nel Regno Unito sono molto più pratici e quindi, se dovessero utilizzare un termine straniero per cose ufficiali, lo farebbero solamente per un’autentica praticità. In Italia le persone possono perfettamente comunicare tra di loro in italiano, non hanno bisogno di un’altra lingua per poterlo fare. L’itanglese non lo usano per facilitare la comunicazione. Lo fanno o per vanità o per ignoranza, credendo di doversi adeguare. Questa è la differenza tra come usano l’inglese come seconda lingua altri Paesi e come viene usato in Italia. E questo porta alla distruzione della lingua, perché il rischio è che le nuove generazioni finiscano per non parlare bene né una lingua né l’altra. Se qualcosa può cambiare, sarà attraverso nuove posizioni prese dai giornali, mezzi di comunicazioni di tutti i tipi e, ovviamente, dal governo. Le pecore non seguiranno più. Ma perché questo avvenga, serve una forte campagna di sensibilizzazione. Tantissime persone sono ignare del fatto che stanno contribuendo passivamente a questo sfortunato fenomeno. Basta farglielo notare. Con gentilezza. Con ironia. Con approcci adatti alla propria personalità. Ma si deve fare.
Nel «Nuovo vocabolario di base» del 2017 si registrava una letterale decuplicazione degli anglismi rispetto al 1980.
AUTORE: Moro
Molti collocano l’inizio dell’americanizzazione linguistica in Italia alla Liberazione: forse immaginano i carri armati statunitensi che entrano nelle città, in parata tra i cittadini festanti, e l’inizio di un proficuo scambio culturale tra alleati contro il nazifascismo. In realtà il 25 aprile 1945 è ricordato per l’insurrezione generale proclamata dal CLNAI, che occupò le principali città italiane del Nord Italia, facilitando le operazioni alleate, ma presto le forze dei vincitori si divisero sui due fronti della Guerra fredda: il Patto Atlantico (1949) e il Patto di Varsavia (1955) , lasciando come territori di scontro indiretto i paesi non allineati.
Gli aiuti economici forniti dal Piano Marshall (1948-1951) non avevano il solo scopo di aiutare i paesi del Vecchio Mondo a riprendersi dalla crisi postbellica, evitando di ripetere alcuni errori della Conferenza di Parigi, ma la diffusione del modello economico statunitense attraverso l’invio di consiglieri economici e la formazione di specialisti. Pur appartenendo al Patto Atlantico, la politica italiana era influenzata da una forte componente comunista e socialista, che limitò in parte l’influenza statunitense, almeno fino al termine degli «anni di piombo», addentro agli anni Ottanta. Con il crollo del Muro di Berlino (1989), la dissoluzione della Cortina di ferro e il collasso dell’Unione Sovietica (1991) si concluse la fase «bipolare» della politica mondiale, accompagnata da innovazioni tecnologiche che avrebbero inciso pesantemente sulla facies linguistica mondiale.
L’introduzione storica è fondamentale per fornire le premesse della trasformazione socio-culturale che abbiamo vissuto, e ancora stiamo vivendo, in questo primo quarto di secolo; non è comune, soprattutto per lo studente formatosi a partire dagli anni Novanta del Novecento, avere una visione d’insieme sulle conseguenze del «Secolo breve» (1914-1991), una conoscenza forse data per scontata dalle scuole, presupponendo sufficiente l’esperienza diretta.
Nel 1999 il Gradit (Grande dizionario italiano dell’uso) di De Mauro registrava l’1,6% di anglismi non adattati, salito al 2,3% nel 2007, su oltre 250.000 parole. Gli anglismi crudi aumentano al ritmo di centinaia di lemmi che non riferiscono più ai linguaggi specialistici ma entrano nell’uso comune: nel «Nuovo vocabolario di base» del 2017 si registrava una letterale decuplicazione degli anglismi rispetto al 1980. L’infiltrazione degli anglismi procede di pari passo con l’affermazione di un modello socioeconomico, veicolando un retroterra culturale fertile.
Intellettuali del rango di Umberto Eco e Pier Paolo Pasolini già negli anni ’60 e ’70 evidenziavano il ruolo dei media nella riforma del linguaggio e dei comportamenti degl’italiani: il primo aveva evidenziato nel ’63 un modello negativo in «Fenomenologia di Mike Bongiorno«; l’altro criticava nel ’73 l’uso di immagini religiose per fini commerciali in «Analisi linguistica di uno slogan
Effetto dei profondi cambiamenti dell’epoca furono l’avvicinamento dei partiti comunisti europei a posizioni riformiste, approdando in Italia al «Compromesso storico», e il rinnovamento politico in direzione di un bipartitismo all’americana dopo il ’94. Erano gli anni in cui la Olivetti produceva elaboratori domestici e personali per il mercato internazionale, prima di subire la concorrenza dei prodotti statunitensi e l’affermazione dei sistemi operativi Microsoft, più adatti alla rivoluzione del commercio elettronico. L’accesso agli anglismi e la loro adozione cruda avviene soprattutto attraverso la Rete, nei suoi usi di mercato; i motori di ricerca, il commercio elettronico e le piattaforme sociali non sono strumenti neutri ma servono, consapevolmente o meno, l’ideologia dominante. Come direbbe Antonio Gramsci, questi media comunicativi sono strumenti di egemonia culturale e non parlano l’inglese statunitense per caso. Rivolgersi alla scuola per cercare di cambiare lo status quo è inutile in questo momento storico, perché il servizio di formazione pubblico è bene avviato nel processo di omologazione; i principî di aziendalizzazione della conoscenza e della formazione, trasmessi sia dalla politica che dai centri di sapere tecnico-scientifico, sono già stati recepiti. La trasformazione in atto non serve una logica di arricchimento lessicale e di scambio culturale paritario, ma una vera e propria colonizzazione e assimilazione; la tutela della lingua nazionale coincide con la conservazione dell’indipendenza culturale e politica del popolo che ne fa uso, la sua capacità di esprimere idee frutto di un percorso storico irripetibile.
Questa è, in breve, la situazione ad oggi. Se nell’ultimo mezzo secolo siamo stati portati ad accettare passivamente la colonizzazione della lingua italiana, attraversando la nostra storia nazionale come spettatori di un sogno, è perché abbiamo la capacità di fare scelte diverse, anzitutto facendo pressione sugli organi politici. Prendere coscienza di ciò che stiamo subendo come comunità di parlanti è un primo passo da compiere; è fondamentale discuterne, studiare, argomentare, usando la lingua nazionale senza alcun sentimento d’inferiorità. Un secondo passo è decidere come agire di fronte alla situazione data, anche continuando a dare il proprio assenso a questo modello, purché in piena consapevolezza. Molti cittadini, forse stanchi di essere considerati semplicemente consumatori di prodotti e oggetto passivo di attività promozionali, o forse sentendosi a disagio di fronte a un cambiamento linguisitico poco fisiologico, iniziano a protestare e chiedere tutele specifiche per questo patrimonio culturale (https://attivisti.italofonia.info/proposte/legge-vivalitaliano-2021/#).
La consapevolezza e l’autosorveglianza del linguaggio sono strumenti di resistenza alla colonizzazione linguistica; non si tratta di conoscere e proporre alternative agli anglismi per semplice nostalgia di un passato idealizzato ma per poter scegliere ed essere soggetti attivi nella storia. La crescita culturale e la maturazione intellettuale non si possono trovare in una lingua unica per tutto il mondo, incapace di descrivere la varietà delle esperienze umane proprio perché purgata di particolarismi. In Italia esistono comunità cinesi che parlano mandarino (oltre un miliardo di parlanti), troviamo parecchi musulmani che usano l’arabo o indiani che usano l’hindi (entrambe oltre 300 milioni di parlanti).
Perché queste lingue non lasciano alcun segno nella lingua italiana? Non sono lingue privilegiate, appartengono a persone poste ai margini della società, nonostante le loro civiltà non manchino di storia e profondità; la lingua dell’amministrazione, la lingua della tecnica, la lingua dell’esercizio effettivo del potere è un’altra e solo a quella è permesso il passaggio nel vocabolario d’uso comune, è l’unica che dev’essere recepita. Vogliamo continuare a essere passivi?
Una delle giustificazioni più pigre e superficiali circa il crescente abuso di (pseudo) anglicismi nella lingua italiana consiste nel dire che «tutte le lingue fanno così» (Vera Gheno). Addirittura, facendo un po’ di confusione tra etimologia e prestiti integrali di uso attuale, il Professor Edoardo Scarpanti, autore di Elementi di linguistica generale e applicata, arriva a scrivere che la lingua inglese conterrebbe addirittura «oltre l’80% di lessico straniero«, per cui «quindi l’italiano è minacciato da uno zombi?». Ci sono poi coloro che minimizzano dicendo che «il contatto si limita a strati del lessico superficiali» e, coloro i quali, mostrando una disarmante mancanza di senso di proporzione, volume e tempi, liquidano il tutto scrivendo che «anche gli inglesi e gli americani dicono pasta e pizza, baldacchino***, maestro e chiaroscuro» (vedi qui).
Campagna per salvare l’italiano – Analisi comparativa di anglicismi su portate di giornali europei (6-12 Nov 2021).
Pare dunque che né il buon senso, né la semplice osservazione di quello che sta accadendo da 15 o 20 anni a questa parte, siano sufficienti. Ci sono persino linguisti di professione che sminuiscono la portata del preziosissimo lavoro di Antonio Zoppetti (autore di Diciamolo in italiano), che ha registrato la crescita esponenziale di anglicismi nei dizionari italiani durante gli ultimi decenni. Di solito spaccano il capello in quattro sul fatto che i neologismi in inglese puro assorbiti dall’italiano costituiscano il 50%, il 42% o il 25%, come se la tendenza non fosse comunque chiara anche a un infante.
E dunque, nel tentativo di svegliare i linguisti d’Italia da questo stupefacente binomio (o dovremmo dire mix) di torpore e dissonanza cognitiva, Campagna per salvare l’italiano ha deciso di optare per la prova più diretta, la più verificabile quotidianamente, giornalmente, adesso, dal vivo, anzi live, come ormai si dice nell’Italia dell’itanglese. Abbiamo preso quattro quotidiani di simile stile, contenuti e tiratura delle quattro grandi nazioni dell’ Europa dell’Ovest: la Repubblica (Italia), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna) e Welt (Germania). Abbiamo contato il numero di anglicismi presenti ogni giorno sulla loro portata (o Home Page, nell’Italia dell’itanglese). A questi abbiamo affiancato una quinta testata, The Guardian (Regno Unito) per poter registrare la presenza di italianismi presenti.
La tabella qui sopra mostra il risultato della prima settimana d’analisi. In una settimana, ci sono stati 644 anglicismi puri su la Repubblica contro 3 italianismi puri (e 1 solo francesismo) sul Guardian. È davvero surreale vedere linguisti di professione illudersi che le due cose possano esser messe sullo stesso piano. Gli italianismi nella lingua inglese esistono, e sono molti, ma sono a) quasi sempre confinati ad ambiti estremamente specifici (per esempio, musica classica o lirica, gastronomia italiana) b) sono arrivati e si sono insediati nella lingua inglese molto gradualmente, nel corso di secoli e secoli.
Alcune considerazioni sulla metodologia in uso:
1. La nostra rilevazione mantiene un approccio molto generoso verso la Repubblica. Non abbiamo contato anglicismi che consideriamo completamente radicati nella lingua italiana, ad esempio, sport, internet e tennis, parole che invece – per esempio – hanno un loro corrispettivo in spagnolo (ed infatti El Mundo si riferisce a deporte, la red e tenis).
2. Non includiamo anglicismi il cui corrispettivo nelle quattro lingue d’origine (italiano, francese, spagnolo, tedesco) è inesistente o completamente artificiale. Parole come podcast, rugby, apartheid e blog, per esempio, non fanno parte della rilevazione.
3. Le testate francesi e spagnoli (quelle tedesche in misura minore) hanno ancora l’abitudine di mettere gli anglicismi tra virgolette. Gli abbiamo contati ugualmente e inclusi nelle analisi, anche se – con il virgolettato – si potrebbe sostenere che in questa maniera non si tratti di prestiti integrali ma di referenza a termini nella lingua d’origine.
4. In qualsiasi caso NON abbiamo incluso nomi propri (esempio, Rolling Stones, Fridays For Future, Alec Baldwin) e titoli originali di film (per esempio Cry Macho), programmi TV (per esempio Squid Game), canzoni, eventi (WTA Finals, Champions League) e marchi registrati (iPhone, Apple, Facebook), ecc.
5. Se una stessa parola appare due volte nello stesso pezzo o titolo, viene computata solo una volta. Se riappare in un altro articolo, titolo o posizione diverse della testata, viene contata di nuovo. Questo ha penalizzato particolarmente il quotidiano tedesco Welt, che sembra riciclare continuamente didascalie con inglesismi (Live TV, Newssticker, Brand Story, ecc.).
6. Unità semantiche contenenti due o più parole, per esempio Italian Tech in la Repubblica, Brand Story in Welt o fiscal dumping in El Mundo, vengono rilevate come un solo elemento. Abbiamo invece rilevato separatamente, due parole autonome però usate insieme, per esempio Green & Blue in la Repubblica (dove abbiamo contato sia Green che Blue).
7. Non abbiamo incluso i prestiti integrati, con la «t». Per esempio, ciberdelincuencia, in spagnolo, o le wokisme in francese sono adattamenti. Non lo sono invece «cybercrimine» o «cultura woke«, che quindi sono stati rilevati.
8. Riguardo al Guardian, abbiamo registrato sia i prestiti integrali in italiano che nelle altre lingue. Per la cronaca, durante l’intera settimana, sono stati pochissimi: gli italianismi diva, sanità e camorra, e gli altri forestierismi biryani dall’hindi, junta e latino (nel senso etnico), dallo spagnolo, e banlieu dal francese.
***Provate a chiedere a un inglese o americano se conoscono baldacchino. Poi diteci come è andata.
Sull’autore: PETER DOUBT, Traduttore, interprete BA MA University of Birmingham (GB); DELTA The British Council, Berlino, Germania.