Anglicismi a manetta

Molti dei sopravvissuti alla tragedia del Titanic raccontavano che, mentre la nave si stava chiaramente inclinando e i segni dell’affondamento erano chiari a (quasi) tutti, c’era chi continuava a dire che non vi fosse bisogno di catastrofismi e che la situazione si sarebbe rimessa a posto.

C’è chi dice che il fenomeno dello tsunami anglicus (per citare il termine coniato da Tullio De Mauro e usato in un suo articolo del 2016) sia passeggero, perché «per vecchia esperienza […] moltissimi vocaboli sono transitori e scompaiono nell’arco di pochi mesi».

Eppure questo sentimento di ottimismo nello stile di Candide di Voltaire, o se preferite – chissà è più consono – alla SpongeBob (in spagnolo lo traducono Bob Esponja) non ha alcuna base logica o scientifica. Però nessuna. Da un lato «la vecchia esperienza», dall’altro – per fare un esempio tra tantissimi – i risultati spietati dell’analisi dei neologismi italiani registrati dal 2000 ad oggi (vedi il grafico qui sotto, fonte e dettagli sull’ottimo sito italofonia.info).


Guardiamo i fatti. Settimana dopo settimana, la nostra analisi degli anglicismi sulle edizioni digitali di quattro quotidiani europei (e forestierismi su un quotidiano britannico), tutti di prestigiosa storia, ampia tiratura e diffusione nazionale, continua a dare lo stesso risultato: gli (pseudo)anglicismi sul quotidiano italiano di nostra referenza sono di gran lunga, però di gran lunga, superiori in numero ai loro corrispettivi europei.

I dati della settimana 6 (leggi qui i dettagli) ci dicono, ancora una volta, che La Stampa ne contiene abbondantemente più del doppio di tutti gli altri (El País, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung e The Times) messi insieme. Lo stesso successe nel periodo Novembre-Dicembre quando furono la Repubblica, El Mundo, Le Monde, Welt e The Guardian i nostri metri di giudizio (vedi qui i risultati).

Ricordatevi che stiamo parlando di anglicismi puri, perché se contassimo le ibridazioni (stoppare, bannare) e gli anglicismi senza corrispettivi diretti o pratici (bar, podcast, punk, rugby, blog, tennis, internet), i risultati sarebbero ancora più spettacolari.

Ma c’è di più, al contrario di quello che direbbe qualche struzzo, sono nella stragrande maggioranza anglicismi ormai completamente radicati – e dunque ricorrenti – nella società italiana. Non solo molti vengono usati regolarmente, ma sono preferiti all’equivalente italiano (vedasi Green Pass vs Certificato Verde, newsletter vs bollettino, light vs leggero, weekend vs fine settimana, hybrid vs ibrido, ecc.). E non dovrebbe sorprendere, dato il bombardamento quotidiano non solo di giornali e riviste, ma anche di televisione, pubblicità, agenzie interinali, luoghi di lavoro, conferenze, università, eventi sportivi e tutto il resto. Persino dinnanzi alla pandemia, come ben sappiamo, gli italiani hanno reagito con una bella dose di (pseudo)anglicismi.

Per farvi un esempio BREVE ed INCOMPLETO, in questo mese di Gennaio 2022 la Stampa ci ha regalato termini come No Green Pass, Super Green Pass, fake news, show, hub, lady, stalker, Premier, No Vax, hashtag, lockdown, newsletter, top model, over (inserite età), light, flop, supermodel, spot, smart working, online, look, eyeliner, beauty, green, horror, tech, privacy, partner, skipass, sketch, zoom, nightclub, export, green jobs, baby gang, next generation, low cost, restyling, sponsor, style, sneakers, exit strategy, pressing, weekend e il nuovo prezzemolino-ogni-minestra, come diceva mia madre, kingmaker (riferendosi al prezzemolino, non a kingmaker).

Già sappiamo che il tema degli anglicismi in italiano provoca reazioni ai limiti del paranormale in chi minimizza (cioè difende) il fenomeno. Sono capaci di vomitare qualsiasi idiozia pur di dire che non è vero. Eppure nessuno può, in tutta onestà, dire che i termini appena descritti non formino ormai regolarmente parte della società italiana, in tutti gli ambiti.

L’aggravante è che, in linea con quello che si vede nei negozi, nelle pubblicità, sui luoghi di lavoro, nelle università, sono parole ed espressioni chiave, su cui si basa un intero concetto, articolo o storia, confermando l’incapacità sempre più endemica dell’italiano di riuscire a esprimere cose nuove senza ricorrere al riflesso compulsivo degli (pseudo)anglicismi.

C’è chi continua a mettersi le dita nelle orecchie e a scuotere la testa dicendosi che «non dobbiamo tenere conto dei giornalisti di quarta scelta». Un ragionamento assurdo. Dunque se la Repubblica e la Stampa sono giornalisti di quarta scelta, quali sarebbero i giornalisti di terza, seconda e prima scelta? E se fossero anche tutti davvero «giornalisti di quarta scelta», non rispecchierebbe forse il degrado linguistico e culturale raggiunto oggigiorno in Italia, oppure parliamo di extraterrestri che vivono su un altro pianeta? E se quelli italiani sono «di quarta scelta», quelli di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito che sono, tutti miracolosamente dei fuoriclasse linguistici?

Il punto è: perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo solo sporadicamente (con alcune variazioni, certamente) a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, a valanga, a iosa e in quantità sempre maggiore? Il lettore angloeccitato sarà ovviamente libero di aggrapparsi a qualsiasi baggianata per negare l’evidenza, ma a questa domanda bisogna rispondere se si è convinti che la lingua italiana non sia oggi letteralmente piagata e fortemente indebolita dal fenomeno dell’itanglese.


IMMAGINE: Raccolta *incompleta* di (pseudo)anglicismi su La Stampa, 17/01/2022.

In realtà, non solo il fenomeno è sempre più ben radicato, ma è in continua espansione. Sempre di più vediamo giochi di parole e persino titoli di rubriche completamente in inglese. Qualcuno ricorda le precedenti elezioni del Presidente della Repubblica Italiana in cui i vari quotidiani ricorrevano a pagliacciate pseudoinglesi quali Quirinal Game (la Stampa) e Quirinal Party (il Giornale)?

Ci sono intere espressioni trapiantate al 100% direttamente dalle agenzie o dai giornali anglosassoni, senza alcun riguardo per i milioni di potenziali lettori che non le conoscono e non le capiscono (vedi l’immagine con la raccolta delle gemme su La Stampa, 17/01/22). Spesso il risultato è un cortocircuito linguistico, specialmente quando tali frasi o espressioni si trovano in contrasto con le regole sintattiche dell’italiano (vedi immagine qui sotto).



E poi ci sono le ibridazioni a macchia d’olio. La regola pidgin del No+ qualsiasi cosa è ormai dilagante (addirittura «No Vax? No sci», nello stile di «Io Tarzan, tu Jane», su La Stampa). Green, per esempio, è in tutte le salse. Da solo, oppure accoppiato con blue, energy, jobs, e tutto il resto. Lo stesso dicasi per beauty, pet, look, baby e centinaia di altri. «Sportivo» diventa sempre di più sporty, uno dei tanti esempi di come le regole morfologiche dell’inglese si stiano diffondendo nella lingua italiana.

Chi si affretta ad afferrare il paraocchi più vicino dicendo che «cento anni fa arrivarono anche tanti francesismi» sa bene che, a parte il paragone numerico imbarazzante, i francesismi si limitavano alla sostituzione di singoli vocaboli, e molto raramente intaccavano morfologia e composti di vario genere.

Di fronte a questo degrado culturale e linguistico (le due cose vanno insieme), cosa resterà della lingua italiana tra vent’anni?

Creolizzazione e crollo qualitativo: perché l’italiano è già a rischio

«È un paradosso che proprio coloro che si affrettano a gridare al-lupo-al-lupo contro i rischi immaginari di autarchia linguistica credano che l’italiano goda di chissà quali doti superiori di immarcescibilità. Come un riflesso allo stesso tempo altezzoso e provinciale, come se l’italiano fosse superiore a tutte le lingue a rischio». Autore: Peter Doubt*


Esempio di «arricchimento linguistico», Italia, 2021.

Minimizzare i rischi di un fenomeno in corso, magari per non creare allarmismi, fa parte della natura umana. Eppure, come il famoso principio della rana bollita di Chomsky ci insegna, le conseguenze e i volumi di certi fenomeni si notano e si apprezzano solamente quando è troppo tardi. Durante, non ce ne accorgiamo.

Ed è dunque così che – di fronte all’attuale valanga senza precedenti di (pseudo)anglicismi nella lingua italiana – le legioni di simpatici linguisti dormiglioni d’Italia si affannano, con sorprendente passione, a ripetere che le preoccupazioni per l’italiano sono «prive di fondamento«, che dire il contrario è sinonimo di «catastrofismo«, che «il contatto si limita a strati del lessico superficiali«, che il fenomeno non influenza la sintassi, o che si tratta di un arricchimento linguistico. Oppure si divertono con il vecchio (e flebile) giochetto della reductio ad absurdum tipo che-dobbiamo-dire-panino-polpetta, «qual è il vantaggio di pellicola rispetto a film?«, e così via.

Ma, al di là delle beghe da social (redes sociales in spagnolo, soziale Medien in tedesco e réseaux sociaux in francese – guardate come l’italiano sia l’unico a usare una specie di angloide monco per rendere il concetto), è sufficiente osservare gli esempi concreti invece di rinchiudersi nelle torri d’avorio del conferenzierismo da Twitter. E gli esempi concreti di estinzione (o terapia intensiva) linguistica sono tantissimi. Alcuni, recentissimi.

Siamo andati a studiare il caso della Nigeria, ex colonia del Regno Unito. Eccovi un breve riassunto.
Vastissimo Paese africano, con oltre 200 milioni di persone, circa 250 gruppi etnici e centinaia di lingue autoctone, la Nigeria si trova oggi in una posizione linguisticamente molto difficile.

I britannici arrivarono nel secolo XIX e restarono al comando fino al 1960. In realtà, non tantissimo tempo, ufficialmente per 99 anni, periodo però sufficiente a disintegrare le lingue nigeriane più minoritarie ed erodere significativamente quelle più popolari (per esempio igbo, hausa e yoruba).


Campagna per la salvaguardia delle lingue nigeriane in pericolo, 2017.


È successo questo. Schiacciate dalla pressione dell’inglese, le lingue locali hanno dato luogo rapidamente a una fusione linguistica, un ibrido, un creolo (conosciuto ufficialmente come Nigerian Pidgin English, la cui denominazione ha mantenuto la parola pidgin anche successivamente al suo cristallizzarsi in creolo).
Parallelamente, l’inglese è diventata la lingua ufficiale, quella elitaria e delle istituzioni, la cui penetrazione sempre più forte ha fatto sì che moltissimi dei suoi vocaboli, espressioni e strutture si siano sovrapposti agli equivalenti autoctoni, spesso cannibalizzandoli completamente.
Oggi nel Paese africano si grida «Help! Nigerian languages are disappearing!» (Aiuto! Le lingue nigeriano stanno sparendo!), e si fanno accorati appelli per salvare le lingue locali, perché la tendenza indica nettamente che le nuove generazioni stanno perdendo contatto con tonnellate di vocaboli e strutture linguistiche autoctone.
Secondo l’UNESCO, le lingue nigeriane sono a rischio di estinzione. Nove sono già del tutto scomparse:

«Oggi, specialmente nelle case delle classi più alte, la norma è sempre di più quella per cui la prima lingua dei bambini è l’inglese, la lingua degli antichi coloni della Nigeria. Negli stati sudoccidentali – da Lagos a Ogun, da Oyo a Osun, da Ondo a Ekiti, nonché parti di Kwara e Kogi – dove la lingua nativa è lo Yoruba, gli indizi per la lingua madre sono di cattivo auspicio. Ancora peggiore è la moda di educare i propri figli in scuole private elementari e superiori dove non si insegna più nelle lingue nigeriane, ma in inglese, dunque condizionando implicitamente i propri figli a dare un valore superiore a una lingua straniera nei confronti della propria. […] In alcune scuole esclusive di Lagos e Ibadan, la maggioranza degli studenti non sa nemmeno salutare in Yoruba, giacché nelle scuole pubbliche e private non è permesso dalle regole interne comunicare in lingue descritte come ‘vernacolari'».

Secondo il Ministro della Cultura, Lai Mohammed, «l’80 per cento dei giovani nigeriani, specialmente coloro tra i 12 e i 18 anni d’età, faticano a esprimersi fluentemente nella propria lingua, oppure non la parlano affatto«. Chissà se anche questo gli angloinvasati italiani lo chiamerebbero «arricchimento».

L’esempio della Nigeria dovrebbe aiutare a darci una prospettiva su fenomeni italiani molto recenti. A parte la vanità e il tamarrismo elitista dilagante (vedi qui), quali altre conseguenze potremmo aspettarci da politiche quali l’obbligo dell’inglese per essere assunti nella Pubblica Amministrazione – dal 2017, in Italia? Oppure il Decreto Sostegni bis (dl 73-2021) secondo cui, per poter accedere al «Fondo italiano per la scienza», le richieste scritte, i progetti, e addirittura i colloqui orali, devono essere presentati in inglese pena l’irricevibilità della domanda (leggi qui i dettagli). Oppure sul fatto che sempre più atenei italiani impartiscono corsi al 100% nella lingua superiore. Per citare l’accademica statunitense Jane Tylus, nel suo saggio «Global English? Un esempio da Firenze» scritto per il libro «Fuori l’italiano dall’università?» a cura dell’Accademica della Crusca (Laterza, 2013): «perché impoverire il nostro linguaggio scientifico, perché impedirgli di crescere e di svilupparsi, e di acquisire autorevolezza, a beneficio di una lingua diversa, anch’essa impoverita dall’essere destinata alla mera comunicazione di dati tecnici in un circolo limitato di studiosi?«

Manifesto per la salvaguardia della lingua basca (euskera), 2018.

Come nota Salvatore Claudio Sgroi, riferendosi precisamente all’attuale andazzo dell’italiano «Se non adoperata nei contesti culturali alti, una lingua si impoverisce. E riducendosi via via tali occasioni d’uso, essa finisce con l’essere rimpiazzata dalla lingua più «forte», di una comunità culturalmente superiore«.

Del resto, «le conseguenze del contatto tra lingue di diverso status, quindi in equilibrio instabile tra di loro, possono essere diverse, se non opposte, ma potenzialmente conducono tutte ad un fenomeno di ‘obsolescenza linguistica’. La riduzione strutturale e funzionale rende debole l’idioma minoritario portandolo alla fine alla sua assimilazione all’interno della lingua standard (processo definibile come ‘dialettizzazione della lingua’), mentre il mantenimento di strutture arcaiche sottende l’’imbalsamazione’ della lingua, il suo uso in contesti stereotipati e quindi l’assenza di vitalità del sistema e nella creatività del parlante. La lingua diventa così obsoleta e il suo uso sempre meno funzionale alle nuove esigenze comunicative«. (Silvia Dal Negro, 2004, cit. da Deidda) [1]

Come scrive Claudio Marazzini, dire che è una lingua è a rischio non significa solamente che letteralmente rimangono zero parlanti di quella lingua. Ridacchiarci su, da parte di linguisti di professione, o fare finta che la lingua italiana sia immune dai rischi di pidginizzazione, creolizzazione, o semplicemente impoverimento esponenziale, è una grande irresponsabilità. Nessuno, nel secolo XXI, si sognerebbe mai di scrollare le spalle dicendo che «tanto-scompaiono-da-sempre» parlando di piante, alberi, animali, o di fronte a esempi di beni culturali a rischio. Perché quando ce ne si accorge, spesso è troppo tardi.

È un paradosso che proprio coloro che si affrettano a gridare al-lupo-al-lupo, ogni 5 minuti, contro i rischi immaginari (nel 2022) di un'»autarchia linguistica» credano che l’italiano goda di chissà quali doti superiori di immarcescibilità. Quasi come un riflesso allo stesso tempo altezzoso e provinciale. Come se l’italiano fosse qualcosa di superiore a tutte quelle lingue sull’orlo dell’estinzione, già estinte o qualitativamente a rischio (il già menzionato yoruba, ma anche il gaelico scozzese, il cornico, l’aranés, l’euskera, le lingue uto-azteche, il bretone, il gallurese, il platt deutsch, il ladino e infinite altre). Scommetteremmo che, verso di loro, i nostri cari linguisti mostrerebbero una maggiore attenzione e sensibilità.

12 lingue europee a rischio immediato secondo l’UNESCO, 2021.

[1] Sara Deidda, tesi di laurea, «La questione sarda. Aspetti sociolinguistici e di politica linguistica«, Alma Mater Studiorum, 2014/15.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

NON succede in tutte le lingue

Durante gli scorsi due mesi abbiamo effettuato un’analisi comparativa degli anglicismi puri presenti sulle prime pagine digitali di quattro quotidiani europei di simile tiratura e stile, più un quotidiano britannico per rilevarne eventuali forestierismi e italianismi puri.

La Parte 1 della nostra analisi ha fornito risultati allucinanti, onestamente molto peggiori delle nostre aspettative più pessimiste (vedi qui e anche qui per conoscere i dettagli). Il referente italiano si è rivelato così intriso di anglicismi da totalizzarne abbondantemento più del doppio dei suoi omologhi francesi, spagnoli e tedeschi messi insieme.

Per questa ragione, per la Parte 2 della nostra analisi, abbiamo cambiato i quotidiani sperando di registrare qualcosa di diverso. Questa volta ci siamo affidati a La Stampa (Italia), Le Figaro (Francia), El País (Spagna) e Süddeutsche Zeitung (Germania), affiancati da The Times (Regno Unito).

Di diverso abbiamo notato che: 1) al contrario dell’anglofilo El Mundo, El País (della cui grafica siamo innamorati) segue chiaramente una linea editoriale fedelissima alla lingua castellana e tende ad utilizzare davvero pochissimi anglicismi; 2) che le parti si invertono tra Le Monde, molto fedele al francese, e Le Figaro, non restio a pubblicare anglicismes; 3) che nonostante il Süddeutsche Zeitung rifletta comunque l’uso copioso di anglicismi nella Germania di oggi, non raggiunge i livelli di Welt; e 4) che l’attenzione speciale che The Times sembri dedicare ai temi irlandesi ha consentito la rilevazione di alcuni termini gaelici.

Per il resto, purtroppo, sul tema che più ci sta a cuore, vediamo che ancora una volta è il quotidiano italiano ad utilizzare infinitamente più anglicismi degli altri. La Stampa ne ha totalizzati 336 in una settimana contro i 276 di tutti gli altri messi insieme (includentdo The Times).

Anche se appena più moderati rispetto agli angloassatanati de la Repubblica, specialmente – per pura coincidenza – durante la giornata del 1 Gennaio, anche La Stampa ne usa a tonnellate, quasi sempre senza motivo, e spesso in maniera ridicola. Spiccano le rubriche – in italiano, sia chiaro – con i titoli da mercante di datteri quali «Quirinal Game«, «Vatican Insider» e «Italian Politics«, nonché la solita processione di empowerment, gender, no vax, revenge porn, fake news che sono diventati i pilastri del creolo linguistico degli ultimi anni. I dettagli si trovano qui.

L’analisi continuerà con cadenza bisettimanale fino a metà Febbraio.

Purtroppo, nel frattempo, i dati che abbiamo rilevato confermano la pochezza disarmante dei tanti, troppi, linguisti italiani di professione, secondo i quali «tutte-le-lingue-fanno-così«, «anche-gli-inglesi-dicono-pergola«, «vabbè-ma-solamente-l’area-lessicale«, «che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film«, «e-che-dobbiamo-fare-come-Mussolini«, e così via. E che, tra una scrollata di spalle e un tweet con la consistenza di una pozzanghera, continuano a liquidare questo fenomeno rapidissimo, gigantesco e di una mole senza precedenti, invece di riconoscerlo, guardarlo in faccia, studiarlo prioritariamente e dibattere cosa meglio si potrebbe fare a livello normativo.
Perché la morte dell’italiano sta avvenendo adesso, davanti a noi, e quando qualcuno si sveglierà – magari con una petizione nel 2050 nello stile di quello che si fa oggi con il gaelico, il basco, il bretone o i panda per salvarli dall’estinzione – sarà probabimente troppo tardi.

Così muore una lingua

Come si fa a parlare di arricchimento linguistico mentre si moltiplica il numero di termini italiani in disuso e l’intaccamento sintattico inizia a vedersi dappertutto? AUTORE: Peter Doubt*

Abbiamo già espresso alla nausea la nostra incredulità di fronte ai numerosi e titolatissimi linguisti, sociolinguisti, terminologi, e accademici italiani completamente insensibili (se va bene) o conniventi (se va male) nei confronti del cambio attualmente in atto nella lingua italiana.
Secondo alcuni, 1) la valanga di (pseudo)anglismi consiste in un «arricchimento linguistico» dato che 2) molti di questi anglismi si utilizzerebbero come «sinonimi«, specie se visti dentro una varietà di contesti.


E già qui, con la storia dei «sinonimi», dovremmo fermarci un attimo.
Sinonimi sono parole «di una lingua» che hanno un «significato fondamentalmente uguale» (Treccani). Nella stessa lingua, sottolinea Collins, sotto la definizione di synonym.
Se dico «faccia», «volto» ne è un sinonimo. Face non lo è. È una traduzione, equivalente, o versione in inglese, né più né meno di cara in spagnolo, Gesicht in tedesco, o visage in francese. Se face inizia ad essere visto come un sinonimo in italiano, insieme a 10,000 altre parole di sapore anglo negli ambiti più vari, vuol dire che qualcosa sta avvenendo, per quanto si ripetano a memoria i «meme» delle leggi fallite fascionarcisiste di 90 anni fa per far finta di nulla, celare le proprie stesse vanità, o deflettere con strategie di puro spostamento psicologico.

Dunque diamo uno sguardo al paradosso dell’italiano che si starebbe «arricchendo» mentre sempre più termini scompaiono, entrano in disuso, o imboccano il viale del tramonto grazie ai loro nuovi «sinonimi».

Abbiamo già illustrato qui come l’irruzione di match e big match nel vocabolario italiano abbiano reso obsoleti nel giro di 10/15 anni i termini incontro e partitissima. Abbiamo spiegato, con numeri alla mano, i casi di termini angloidi (fare shopping, Business School, i farlocchi rider, question time, location) il cui effetto è stato quello di neutralizzare o schiacciare quelli che erano, direttamente, i suoi equivalenti diretti in italiano oppure, indirettamente, altri sinonimi o derivazioni italiane.
Rimanendo sul tema delle partite, fino a pochi anni fa, il grande pubblico italiano avrebbe assorbito da stampa e televisioni termini quali incontro, contesa e duello. Magari, addirittura tenzóne. A chi vi scrive rimase impressa quella parola di sapore classico proprio quando la ascoltò, per la prima (e forse ultima) volta, da Bruno Pizzul durante una telecronaca calcistica a metà anni 80.
Oggi, l’effetto cannibalizzante di match su «partita» è minimo, ma non lo è purtroppo sui vari sinonimi italiani ed elementi linguistici correlati. Diventa moribonda partita di cartello, entra in disuso partitissima, si sente sempre di meno incontro. Si arricchisce il creolo, s’impoverisce l’italiano.

Certo, gli esempi sportivi sarebbero dozzine. Le palestre del Bel Paese relegano la lingua italiana ormai a preposizioni e articoli. E, fino a pochi anni fa, highlights era quasi completamente sconosciuto. Si usavano espressioni quali fasi salienti, il meglio di, i momenti chiave. Guardate come si è invertita la tendenza. Negli ultimi due anni, fasi salienti è quasi morto, divorato appunto da highlights, che nel frattempo si è più che centuplicato, sul serio, in 20 anni.

Diapositiva è un altro caso interessante. L’angloinvasato con gli occhi vitrei vi dirà che «è chiaro che diapositiva doveva sparire, perché si riferisce all’analogico», mentre slide è del secolo XXI, quindi rende meglio l’idea.
Peccato però che proprio slide fosse la parola che si usasse in Gran Bretagna ai vecchi tempi per dire diapositive. Con l’arrivo del digitale, i Paesi anglosassoni non hanno ritenuto che bisognasse creare una parola nuova, e dunque hanno continuato a dire slide. Anche gli spagnoli hanno continuato ad usare diapositiva. Gli italiani, invece, hanno rapidamente buttato via la loro parola e hanno preso a piene mani quella anglo. Guardate i numeri dell’archivio elettronico di La Repubblica. Esempio più chiaro di così per descrivere una lingua malata non si può.
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Nel frattempo, l’onnipresente live si sta nutrendo sempre di più di diretta, dal vivo, e concerto. Tre contesti al prezzo di uno.

Ed è spettacolare vedere la prepotenza con la quale fake news, sconosciuto fino al 2010, abbia quasi completamente sostituito bufale (a proposito, ma l’inglese non era più comodo perché più breve?), mentre la polvere inizia lentamente a posarsi anche su menzogne, manipolazioni e disinformazioni, e la parola fake è ormai la prima scelta anche nel contesto di falso o contraffatto.


Chi è lo sfigato che dice ancora compere o andare a fare le compere? Si dice [fare] shopping, con la shopping list, magari per andare all’outlet, al discount e in cerca del low cost condito con sale (ma non nel senso del solido cristallino incolore) a destra e a sinistra. Occasioni, basso costo e sconti iniziano a mostrare i primi scricchiolii. Nel frattempo gli acuti linguisti italiani continuano a credere che il problema sia che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film?

Ancora più impressionante è il fatto che gli eventi ormai in Italia si debbano dire per forza in anglo. Giornata, con la maiuscola, non si dice quasi più. Qualche anno fa iniziò ad essere affiancata da Day, per poi esserne cannibalizzata, ed ecco oggi il dominio assoluto di Family Day, Pride Day, No Green Pass Day, CV Day, No Paura Day, Singles Day, Rivoluzione Day, Bi(-)Visibility Day, Sport Ability Day, il World Pasta Day (voluto dall’Unione Italiana Food, sia chiaro), addirittura il Provincia Day, qualsiasi cosa. A destra e a sinistra, anche in senso politico. Comincia persino a farsi strada Boxing Day per parlare del 26 Dicembre.

Eppure, in un’intervista pubblicata lo scorso Marzo, la sociolinguista Vera Gheno ha messo in mostra livelli di diniego da medaglia d’oro sentenziando:

Come avrà fatto Gheno a perdersi non solo la cascata continua di [Nome dell’Evento] Day e la marea crescente degli Open Day (la versione 2.0 del moribondo «Giornata di porte aperte»), ma anche gli innumerevoli Week (Milano Fashion Week, Genova Smart Week, Bologna Design Week, South Italy Fashion Week, Milano Digital Week, Milan Games Week, sono centinaia) che, alla faccia delle strutture sintattiche, cancellano tutte le preposizioni articolate (della/del/dell’) che si sarebbero usate prima.



E se gli attenti linguisti volessero ribattere che «vabbè ma sono contesti specifici», dovrebbero farsi un giro tra gli ospedali italiani, perché anche lì Day and Week li troviamo alla grande e li troviamo di traverso alle norme sintattiche dell’italiano.



Lo stesso avviene sempre di più con i Festival: Bra Cheese Festival (ridicolo, per un anglofono, ed esempio di come la smania di parlare e scrivere così abbia multipli effetti collaterali), i vari [Nome della Città] Summer Festival, Nicasi Beer Festival, Pinewood Festival, Pigneto Film Festival, Todays Festival, Ortigia Sound System Festival, Wood Sound Festival. Sono di tutti i tipi, e potremmo continuare fino a domani.

Gheno, e non solo lei, non lo notano, ma – sostituzione sistematica di vocaboli a parte – la stessa ibridazione sintattica continua imperterrita nel mondo dei premi e dei riconoscimenti. Un tempo in Italia esisteva il premio nazionale per il miglior maestro o professore dall’ingegnoso nome «Cuore d’Oro». Oggi c’è l’Italian Teacher Award, a cui si affiancano – sia chiaro, tutti al 100% in ambito NAZIONALE – Italian Tech Award, il Nation Award, l’Italia Sport Award, il Tuttonapoli Award, l’Urban Award. A proposito di quest’ultimo, chissà se leggendone il comunicato stampa del Comune di Genova, completo di bike-to-work e bike-to-school, Gheno (e non solo lei) direbbe che «non va ad intaccare le strutture sintattiche dell’italiano».



Però così va l’Italia, e chissà se i nostri amati linguisti si sono persi anche l’arrivo di must-have che, con la sua ingombranza lessicale e sintattica, sta dando ceffoni che la metà basta al sempre più desueto da non perdere. L’immagine qui sotto è di Poste Italiane, quelle che amano tanto la comunicazione cristallina da usare lo pseudo anglicismo reverse paperless e poi, tra tanti altri, postepay, delivery express e delivery globe, i quali hanno ufficialmente sostituito spedizione nella loro letteratura corporativa.



Gli «intaccamenti» sintattici sono ormai ovunque, e lo sono già da un bel po’.
Chissà se Gheno si è accorta del suffisso anglo -free, ormai presente ovunque (sugar-free, covid-free, plastic-free, fat-free, ecc.).



Esempi ancora più assurdi li vediamo, sempre più numerosi, negli ospedali italiani, da Roma a Foggia, da Ravenna a Palermo, da Genova a Milano. Esempi di come il narcisismo linguistico prenda il sopravvento persino sulla semplice chiarezza e sul diritto alla comprensione del 100% dell’utenza pubblica- diritto sancito per legge in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Spagna. I cartelli con la parola senologia vengono smontati e interi reparti rinominati Breast Unit. E lo stesso avviene con Skin Cancer Unit, Stroke Unit, e con l’irruzione di – tra molti altri – hospice, screening, checkpoint, e triage (francesismo che è entrato attraverso la via anglo per mandare all’oblio accettazione).



L’angloinvasato di turno vi dirà che i reparti vengono ribattezzati in inglese proprio per aiutare gli stranieri, come no. E, dicendo così, fa finta di ignorare che la stragrande maggioranza dei recenti immigrati in Italia non sono anglofoni, per non parlare delle decine di milioni di italiani che non conoscono l’inglese (magari i più anziani). Un concetto di empatia molto peculiare.

Ma torniamo alla malattia linguistica in atto.

Anche quando si cerca di coniare un neologismo in italiano, si noti come la versione in inglese, seppure farlocco, vinca. Abbiamo cercato negli archivi de la Repubblica quante volte Certificato Verde, Certificazione Verde, Certificato Covid siano apparsi negli ultimi due anni. Poi abbiamo contato Green Pass (che non si usa nei Paesi anglosassoni, dove si dice Covid Certificate o Covid Passport). Ecco i risultati:



E che dire di set, nel senso di insieme, serie, gruppo, a seconda dei casi, che si è convertito, come kit, in una di quelle sostituzioni pigrissime che si mangiano tutte le sfumature, depauperando il linguaggio?

Oppure di empowerment, che da qualche hanno si infila dappertutto a scapito dello sfigatissimo emancipazione?


Un recentissimo articolo pubblicato da entrambi La Stampa e La Repubblica, dal titolo «Dieci libri per l’empowerment (femminile, ma non solo) […]» fa particolarmente colpo. Da un lato, perché l’autrice citava il dizionario Garzanti per definire empowerment (“Processo di riconquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire”), operando una sostituzione pura mentre la traduzione ce l’aveva a portata di mano con emancipazione (e forse, ancora di più, affrancamento). Dall’altro, perché l’articolo snocciolava anglismi inutili nello stile purtroppo quasi istintivo del «giornalismo» italiano di oggi. Revenge porn, catcalling, victim blaming, fat-shaming, tutti recitati con quella casualità e quell’autocompiacimento che, grazie specialmente alla classe politica e giornalistica, stanno rendendo gli italiani sempre più incapaci di articolare concetti nella propria lingua.
In altre parole, questa crescente dipendenza, quasi di tipo narcotico, che gli italiani stanno sviluppando verso gli anglicismi sembra minare la capacità di tessere, di sviluppare, di produrre argomenti senza, ricorrere ogni 10 secondi, per citare Antonio Zoppetti di Diciamolo in italiano, alla «stampella dell’inglese».

Guardate come l’irruzione di catcalling negli ultimi due anni sia coincisa con il declino di importunare e la scomparsa definitiva di pappagallismo.

Un’altro è roadmap, che sembra aver soppiantato concetti come percorso e itinerario (in senso metaforico, cioè quando riferiti a progetti e obiettivi).



Nel nostro precedente articolo avevamo parlato della scomparsa quasi improvvisa di interrogazioni parlamentari a beneficio di question time, più o meno a partire dal 2010.
Adesso guardate gli effetti di come, nel giro di un (1) anno, l’adozione a livello legislativo dell’americanismo caregiver a scapito del suo equivalente italiano (letteralmente indicato tra parentesi nella legge) abbia ufficializzato la secondarietà di badante, destinandolo all’oblio e decretando la fine dell’altro possibile sinonimo italiano, assistente familiare. Gli effetti sono già visibili. Ne prendano nota gli illusi de «la lingua la fanno i parlanti«, inspiegabilmente intorpiditi davanti all’ovvietà dell’immenso peso esercitato, a livello linguistico, delle istituzioni e degli enti pubblici.


Che poi sono le stesse istituzioni che, negli ultimi cinque anni, hanno ufficializzato la sostituzione della parola squadra a vantaggio di team per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi, ignari di quanto sia ridicolo davanti agli occhi del mondo un Paese non anglosassone che scimmiotta – in un ibrido sintattico inspiegabile e senza alcun motivo – una lingua non propria, come dei teneri copioni da quinta elementare. Signori e signore, l’Italia Olympic Team.




Fa male riconoscerlo, ma questo articolo potrebbe andare avanti all’infinito con esempi relativi a tutti gli ambiti. E non abbiamo neanche toccato il mondo del fashion & beauty, del tech, delle start up, delle celebrity, dei reality, dello showbiz e delle influencer, o il mondo del food. Non abbiamo toccato il mondo delle professioni, dove ormai anche commesso lascia spazio a Shop Assistant e sono tutti, con le maiuscole, Visual Merchandiser, Chief Sales Officer, Team Manager, Head of Talent Acquisition & Sales, Copywriter, Assistant Editor, Programme Manager, CEO.
Quante parole ed espressioni ci sono che – se già ora relegate ai ricordi di un over 40 (intaccamento sintattico) – non hanno alcuna possibilità di sopravvivere tra quelli che sono gli adolescenti e i bambini italiani di oggi (vedi qui)?



Compilare una raccolta esaustiva dei tantissimi termini italiani sulla via del tramonto è impresa quasi impossibile. È una via sempre più affollata e la causa è sempre la stessa, l’anglorimbambimento delle istituzioni, dei media, e dei pubblicitari italiani del secolo XXI. Rimandiamo i nostri lettori alla rubrica PAROLE IN DECLINO a cura di Giacomo M. Valentini, che seppur non completa, rende benissimo l’idea.

E lascio a lui, Giacomo, la conclusione:

«Non c’è più la ricerca di sinonimi, di sfumature e di cultura. La lingua italiana di oggi è una lingua banalizzata, stereotipata, dove non c’è più bisogno di usare vocaboli più ricercati – in italiano – perché esiste sempre il ricorso all’angloamericano che tutto risolve, anche quando usato con significati diversi dalla lingua d’origine«.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

Una crescita esponenziale

Nel giro di vent’anni, in alcuni casi anche meno, la frequenza degli anglicismi in Italia è aumentata in maniera impressionante. E c’è gente che lo nega. AUTORE: Peter Doubt*

L’uso di pseudoanglicismi nella lingua italiana sta crescendo esponenzialmente. Questo fatto continua ad essere negato, inspiegabilmente, da un numero considerevole di «amanti della lingua» italiani. Alcuni sono arrivati a dire addirittura che si tratta di un fenomeno passeggero.

Siamo dunque andati ad analizzare alcune parole consultando gli archivi elettronici dei tre quotidiani più venduti del Paese. Eccovi un brevissimo resoconto della tendenza in atto.
Abbiamo iniziato con la parola match, il cui uso è sestuplicato nel giro di trent’anni.

Ancora più interessante è il confronto tra l’ormai onnipresente big match e l’italianissimo, ma sempre più desueto, «partitissima«. Nel periodo 1984-2000 erano quasi alla pari. Con l’arrivo del nuovo millennio la tendenza è diventata chiarissima, con un cambio esponenziale. Nel 2000-2010, big match è apparso oltre il doppio delle volte di «partitissima». Nel 2010-2020, circa sette volte in più. Partitissima ha iniziato una parabola discendente, mentre big match si usa ormai con una frequenza TRENTA volte superiore agli anni 80 e 90. Nel biennio 2020-21, la parola è apparsa su Repubblica quasi quattro volte in più che nei sedici anni tra il 1984 e il 2000.

Ovviamente la tendenza è visibile anche negli altri quotidiani nazionali:

Restando in ambito calcistico, guardate come scorer, spesso accoppiato con top e praticamente sconosciuto in Italia fino al 2000, sia ora il termine preferito per indicare cannoniere.

Non potevamo poi non esaminare smart, dato che in Italia si usa più che nei Paesi anglosassoni. Dal 1984 al 2000, la parola è apparsa 338 volte su la Repubblica, molte dei quali per riferirsi a cognomi, come l’attrice Rebekah Smart, o all’automobile Smart. Dal 2000 al 2010 la frequenza è quasi decuplicata (3074 volte) per poi di nuovo quadruplicarsi (13675 risultati) tra il 2010 e il 2020. Solamente nell’ultimo biennio (2020-22) è già apparsa 7635 volte. Ormai c’è di tutto: smart city, smart building, smart living, smart washing, location smart, smart retail, sportello smart, smart factory, smart speaker, i cassonetti smart (!), le case smart e molti altri, addirittura la Genova Smart Week. C’è da scommettere che di questo passo tra poco persino la carta igienica smart sarà disponibile.

Passiamo all’ambito parlamentare, dove appare uno degli esempi più chiari di distruzione linguistica decretata dall’alto. L’utilizzo di Interrogazioni parlamentari è letteralmente crollato dal 2010 in poi, spinto fuori a gomitate dall’anglicismo dal contesto sbilenco conosciuto come question time.

Poi ci sono fattorino e garzone, entrambi ormai disintegrati da rider. Tra il 1984 e il 2010 i risultati degli archivi di Repubblica per rider si riferiscono quasi esclusivamente ad altri ambiti, specialmente il vecchio navigatore Tom Tom Rider, il film Easy Rider e il nome – scritto male – del videogioco Tomb Raider (appunto, non Tomb Rider come scriveva la Repubblica negli anni 90 e 2000). Il vero paragone inizia a partire dall’anno 2010. Da quella data in poi, rider emerge e fa piazza pulita. È ormai utilizzato il triplo di fattorino e garzone (quest’ultimo particolarmente moribondo) messi insieme.


Trasferiamoci in un altro ambito. Le compere, che ormai si chiamano shopping. Guardate questo:

Si noti come l’espressione «fare shopping» abbia completamente annichilito, negli ultimi 20 anni, gli equivalenti italiani «fare le compere» e «fare le spese» che infatti, a partire dal 2010 hanno iniziato un lieve declino. E dove lo fanno questo shopping, gli italiani? Nei negozi, certo, e nei centri commerciali, ma mentre botteghe, esercizi e grandi magazzini sono in stasi o in caduta libera, trionfano sempre di più store, outlet e mall, moltiplicatisi di quattro o cinque volte solamente rispetto al periodo 2000-2010.

E mentre vanno a fare shopping nei mall, magari utilizzando i gift voucher e facendosi aiutare dagli shop assistant, gli italiani comprano sempre più le brand. Osservate come, sebbene in buona salute, al contrario dei suoi sinonimi griffa o firma, la parola marca sia stata addirittura sorpassata da brand durante il decennio 2010-2020. In Italia, brand si usa ormai oltre 140 volte di più che nel periodo 1984-2000.

Tra il 1984 e il 2000 fine settimana e weekend si usavano praticamente alla pari. Dal nuovo millennio in poi, l’espressione anglo ha preso il volo e ora si usa il doppio che il vecchio fine settimana.

Ancora più deprimenti sono le centinaia di esempi in ambito accademico. Quello che vi mostriamo è il moribondo Economia e Commercio. Si usa ormai la metà che nel decennio 2000-2010 e il suo declino appare inesorabile, ovviamente a favore del sempre più trendy e cool Business School, e scusate la rima.

La direzione è identica se guardiamo ovazione, che rallenta sempre di più a vantaggio del nuovo arrivato standing oveiscion, che aumenta esponenzialmente e che si utilizza ormai il doppio dell’equivalente italiano.

Altra parola di cui gli italiani sembrano essersi innamorati è location, che in Italia si pronuncia locheiscion e che in inglese ha un significato molto circoscritto. In Italia, invece, tutto è una locheiscion. Guardate le cifre. Usato ormai 150 volte in più rispetto agli anni 80 e 90 e ormai tre volte in più rispetto al suo equivalente nella lingua sfigata.


E concludiamo con botteghino, che fino al 2000 si usava ancora il triplo dell’anglismo box office, mentre oggi appare in netta ritirata.

Insomma, per citare il conduttore di RaiNews Lorenzo Di Las Plassas, uno dei pochissimi giornalisti ad aver colto la magnitudine del problema, «non si è sviluppata la sensibilità per la quale se un anglicismo entra dalla porta, è una parola italiana a uscire dalla finestra. Non sono parole che si aggiungono, sono parole che si sostituiscono«.

Nel nostro prossimo articolo analizzeremo più approfonditamente la lista sempre più lunga di parole italiane in fila sul viale del tramonto.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete e vive in Spagna da quasi 15 anni.

L’itanglese visto dalla Spagna

«Si è arrivato a un punto in cui sembra che se il tuo discorso non è costellato di termini in inglese, non verrai considerato da nessuno». AUTORE: Ana Andreu Baquero*

Immagine: esempio di pubblicità in creolo, Italia, 2021.


Il mio primo contatto con la lingua italiana è stato più di trent’anni fa, ai tempi dell’università.  Avevo solo diciannove anni e stavo facendo i primi passi di un percorso che, con il tempo, mi avrebbe portato a quella che adesso è la mia professione: la traduzione. In quel momento l’oggetto  della mia laurea erano la lingua e la letteratura inglese e, anche se studiare l’italiano non faceva parte del mio piano di studi, ho deciso di impararlo lo stesso per un motivo molto semplice: la sua bellezza. Obbiettivamente, dal punto di vista linguistico non esistono lingue più belle di altre, ma io, come la maggior parte degli spagnoli, mi sentivo attratta da una lingua che  ricorda molto la nostra, ma che per la sua intonazione e musicalità percepiamo come più dolce e melodiosa. In fin dei conti, non per nulla viene considerata in tutto il mondo come la lingua dell’amore.

Comunque, l’italiano con cui ho avuto a che fare in quel periodo era basicamente accademico. Era la lingua dei libri di testo, della letteratura, non quella della quotidianità, che si sente per strada, nei bar, nelle conversazioni tra amici, e nemmeno quella dei mezzi di comunicazione. Era, per così dire, una versione un po’ irreale del italiano vero.

Le cose sono cambiate qualche anno dopo, quando ho sposato un italiano e mi sono trasferita nel “Bel Paese”.  Lì ho scoperto un fenomeno che mi ha colpita molto: la quantità esagerata di parole inglesi che la gente usava in quasi ogni discorso e contesto. Quello che per loro era normale, per me, come straniera, non aveva nessun senso. Continuamente sentivo dei termini come babysitter, metal detector o budget, che non solo stonavano col resto del discorso, ma che contravvenivano le elementari regole dell’ortografia e della pronuncia e, nonostante la maggior parte avesse un equivalente in italiano, non veniva mai usato da nessuno.

Questo succedeva veinticinque anni fa. Da allora, a mio parere, la situazione è degenerata. Gli anglicismi hanno completamente invaso la lingua di Dante. Si trovano dappertutto: nel mondo del lavoro, della política, dello sport, dello spettacolo e, chiaramente, in quello della tecnologia. Per non parlare dei nuovi ingressi dovuti alla pandemia che stiamo vivendo in questi ultimi due anni. Si è arrivato a un punto in cui sembra che se il tuo discorso non è costellato di termini in inglese, non verrai considerato da nessuno.

In molti diranno: “ma questo succede in tutte le lingue!” Sì e no. Non possiamo negare che oggigiorno gran parte delle lingue subiscono, in maggiore o minore misura, l’influenza dell’inglese; ed è anche vero che il fatto che distingue una lingua morta da una viva è che quest’ultima muta e si evolve in continuazione per molti motivi, tra cui l’interazione con altre lingue, ma le conseguenze di ciò possono essere sia positive che negative. Quando una lingua prende «in prestito» un termine che fino a quel momento non esisteva, e la adatta fonologica e morfologicamente, essa si arricchisce (per esempio, bistecca proviene dall’inglese beef steak e adesso è una parola «perfettamente» italiana). Se invece l’uso di questi prestiti diventa un «abuso» e si comincia a sostituire parole già esistenti per altre che sembrano più moderne o sofisticate per il fatto di appartenere a un’altra lingua e, in più, si mantiene la grafia e la pronuncia originali, essa s’impoverisce.

Se ammetiamo che la situazione è critica, e considero che in tanti sarebbero d’accordo, è arrivato il momento di chiedersi cosa si può fare per risolverla. Anche se non sembra facile, secondo me qua bisogna far entrare in gioco un fatto indiscutibile: se c’è un argomento su cui tutti gli studiosi sono d’accordo è che le lingue appartengono ai parlanti. Sono loro a decidere come vengono usate le parole, i cambiamenti grammaticali che si producono con il trascorrere del tempo e, soprattutto, che nuovi termini entrano nel vocabolario comune e quali vanno in disuso. Ed è proprio per questo motivo che è arrivato il momento in cui tutti quelli che amano l’italiano si prendano le loro responsabilità. Perchè anche se le lingue servono essenzialmente per comunicarsi, dobbiamo tenere presente che sono anche uno strumento per la costruzione del sapere, per formarsi dal punto di vista personale e professionale e, soprattutto, sono anche un’eredità della nostra famiglia, della nostra cultura, il veicolo attraverso il quale ci sono arrivate le prime espressioni d’amore per bocca dei nostri genitori, le filastrocche, le canzoni della nostra gioventù. Ed è per questo che dobbiamo considerare l’italiano un bene prezioso, come un gioiello che si tramanda da generazione in generazione e che, se non viene trattato con cura, finirà per deteriorarsi e sciuparsi.

E come possiamo prenderci cura di questo gioiello? Per cominciare, bisogna prendere atto della esistenza del problema. Spesso e volentieri accettiamo le cose come vengono e non ci soffermiamo a pensare che è arrivato il momento di intervenire. Forse per me è stato più facile vederlo perchè potevo paragonare la situazione con quella della mia madre lingua. Da lì in poi ognuno di noi deve sforzarsi per evitare gli anglicismi sia nelle nostre conversazioni informali come nello svolgimento della nostra attività professionale, e per ultimo, sempre che sia possibile, fare in modo che la realtà attuale della lingua italiana diventi più visibile, per esempio con le persone che ci circondano o attraverso le reti sociali. Forse sembrerà un obbietivo difficile da raggiungere, ma se ognuno mette il suo granello di sabbia, sono convinta che si può fare. D’altronde, siamo arrivati a questo punto perchè un gruppo sempre più numeroso di persone ha cominciato a fare lo stesso nell’altro senso.

*Ana Andreu Baquero, spagnola, è una scrittrice e traduttrice letteraria di inglese, tedesco e italiano. Tra le sue opere, «Lo que Robinson Crusoe le contó a Lolita» (2010).