
Molti dei sopravvissuti alla tragedia del Titanic raccontavano che, mentre la nave si stava chiaramente inclinando e i segni dell’affondamento erano chiari a (quasi) tutti, c’era chi continuava a dire che non vi fosse bisogno di catastrofismi e che la situazione si sarebbe rimessa a posto.
C’è chi dice che il fenomeno dello tsunami anglicus (per citare il termine coniato da Tullio De Mauro e usato in un suo articolo del 2016) sia passeggero, perché «per vecchia esperienza […] moltissimi vocaboli sono transitori e scompaiono nell’arco di pochi mesi».
Eppure questo sentimento di ottimismo nello stile di Candide di Voltaire, o se preferite – chissà è più consono – alla SpongeBob (in spagnolo lo traducono Bob Esponja) non ha alcuna base logica o scientifica. Però nessuna. Da un lato «la vecchia esperienza», dall’altro – per fare un esempio tra tantissimi – i risultati spietati dell’analisi dei neologismi italiani registrati dal 2000 ad oggi (vedi il grafico qui sotto, fonte e dettagli sull’ottimo sito italofonia.info).
Guardiamo i fatti. Settimana dopo settimana, la nostra analisi degli anglicismi sulle edizioni digitali di quattro quotidiani europei (e forestierismi su un quotidiano britannico), tutti di prestigiosa storia, ampia tiratura e diffusione nazionale, continua a dare lo stesso risultato: gli (pseudo)anglicismi sul quotidiano italiano di nostra referenza sono di gran lunga, però di gran lunga, superiori in numero ai loro corrispettivi europei.
I dati della settimana 6 (leggi qui i dettagli) ci dicono, ancora una volta, che La Stampa ne contiene abbondantemente più del doppio di tutti gli altri (El País, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung e The Times) messi insieme. Lo stesso successe nel periodo Novembre-Dicembre quando furono la Repubblica, El Mundo, Le Monde, Welt e The Guardian i nostri metri di giudizio (vedi qui i risultati).
Ricordatevi che stiamo parlando di anglicismi puri, perché se contassimo le ibridazioni (stoppare, bannare) e gli anglicismi senza corrispettivi diretti o pratici (bar, podcast, punk, rugby, blog, tennis, internet), i risultati sarebbero ancora più spettacolari.
Ma c’è di più, al contrario di quello che direbbe qualche struzzo, sono nella stragrande maggioranza anglicismi ormai completamente radicati – e dunque ricorrenti – nella società italiana. Non solo molti vengono usati regolarmente, ma sono preferiti all’equivalente italiano (vedasi Green Pass vs Certificato Verde, newsletter vs bollettino, light vs leggero, weekend vs fine settimana, hybrid vs ibrido, ecc.). E non dovrebbe sorprendere, dato il bombardamento quotidiano non solo di giornali e riviste, ma anche di televisione, pubblicità, agenzie interinali, luoghi di lavoro, conferenze, università, eventi sportivi e tutto il resto. Persino dinnanzi alla pandemia, come ben sappiamo, gli italiani hanno reagito con una bella dose di (pseudo)anglicismi.
Per farvi un esempio BREVE ed INCOMPLETO, in questo mese di Gennaio 2022 la Stampa ci ha regalato termini come No Green Pass, Super Green Pass, fake news, show, hub, lady, stalker, Premier, No Vax, hashtag, lockdown, newsletter, top model, over (inserite età), light, flop, supermodel, spot, smart working, online, look, eyeliner, beauty, green, horror, tech, privacy, partner, skipass, sketch, zoom, nightclub, export, green jobs, baby gang, next generation, low cost, restyling, sponsor, style, sneakers, exit strategy, pressing, weekend e il nuovo prezzemolino-ogni-minestra, come diceva mia madre, kingmaker (riferendosi al prezzemolino, non a kingmaker).
Già sappiamo che il tema degli anglicismi in italiano provoca reazioni ai limiti del paranormale in chi minimizza (cioè difende) il fenomeno. Sono capaci di vomitare qualsiasi idiozia pur di dire che non è vero. Eppure nessuno può, in tutta onestà, dire che i termini appena descritti non formino ormai regolarmente parte della società italiana, in tutti gli ambiti.
L’aggravante è che, in linea con quello che si vede nei negozi, nelle pubblicità, sui luoghi di lavoro, nelle università, sono parole ed espressioni chiave, su cui si basa un intero concetto, articolo o storia, confermando l’incapacità sempre più endemica dell’italiano di riuscire a esprimere cose nuove senza ricorrere al riflesso compulsivo degli (pseudo)anglicismi.
C’è chi continua a mettersi le dita nelle orecchie e a scuotere la testa dicendosi che «non dobbiamo tenere conto dei giornalisti di quarta scelta». Un ragionamento assurdo. Dunque se la Repubblica e la Stampa sono giornalisti di quarta scelta, quali sarebbero i giornalisti di terza, seconda e prima scelta? E se fossero anche tutti davvero «giornalisti di quarta scelta», non rispecchierebbe forse il degrado linguistico e culturale raggiunto oggigiorno in Italia, oppure parliamo di extraterrestri che vivono su un altro pianeta? E se quelli italiani sono «di quarta scelta», quelli di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito che sono, tutti miracolosamente dei fuoriclasse linguistici?
Il punto è: perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo solo sporadicamente (con alcune variazioni, certamente) a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, a valanga, a iosa e in quantità sempre maggiore? Il lettore angloeccitato sarà ovviamente libero di aggrapparsi a qualsiasi baggianata per negare l’evidenza, ma a questa domanda bisogna rispondere se si è convinti che la lingua italiana non sia oggi letteralmente piagata e fortemente indebolita dal fenomeno dell’itanglese.
IMMAGINE: Raccolta *incompleta* di (pseudo)anglicismi su La Stampa, 17/01/2022.
In realtà, non solo il fenomeno è sempre più ben radicato, ma è in continua espansione. Sempre di più vediamo giochi di parole e persino titoli di rubriche completamente in inglese. Qualcuno ricorda le precedenti elezioni del Presidente della Repubblica Italiana in cui i vari quotidiani ricorrevano a pagliacciate pseudoinglesi quali Quirinal Game (la Stampa) e Quirinal Party (il Giornale)?
Ci sono intere espressioni trapiantate al 100% direttamente dalle agenzie o dai giornali anglosassoni, senza alcun riguardo per i milioni di potenziali lettori che non le conoscono e non le capiscono (vedi l’immagine con la raccolta delle gemme su La Stampa, 17/01/22). Spesso il risultato è un cortocircuito linguistico, specialmente quando tali frasi o espressioni si trovano in contrasto con le regole sintattiche dell’italiano (vedi immagine qui sotto).
E poi ci sono le ibridazioni a macchia d’olio. La regola pidgin del No+ qualsiasi cosa è ormai dilagante (addirittura «No Vax? No sci», nello stile di «Io Tarzan, tu Jane», su La Stampa). Green, per esempio, è in tutte le salse. Da solo, oppure accoppiato con blue, energy, jobs, e tutto il resto. Lo stesso dicasi per beauty, pet, look, baby e centinaia di altri. «Sportivo» diventa sempre di più sporty, uno dei tanti esempi di come le regole morfologiche dell’inglese si stiano diffondendo nella lingua italiana.
Chi si affretta ad afferrare il paraocchi più vicino dicendo che «cento anni fa arrivarono anche tanti francesismi» sa bene che, a parte il paragone numerico imbarazzante, i francesismi si limitavano alla sostituzione di singoli vocaboli, e molto raramente intaccavano morfologia e composti di vario genere.
Di fronte a questo degrado culturale e linguistico (le due cose vanno insieme), cosa resterà della lingua italiana tra vent’anni?