L’inglese lingua ufficiale. In Italia.

Diverse aziende hanno preso l’abitudine di stilare i contratti di lavoro dei propri dipendenti italiani, assunti per operare sul mercato italiano, esclusivamente in inglese.
Di Giorgio Cantoni, fondatore di Italofonia.info

Sulle pagine di questo sito, così come su Italofonia.info per il quale scrivo, o sul blog di persone che si interessano al tema dell’itanglese – come Antonio Zoppetti – si parla spesso dell’abuso di termini inglesi crudi in italiano, in particolare sui giornali e in TV, nella pubblicità, nella comunicazione pubblica e nel linguaggio aziendale. Una realtà sotto gli occhi di tutti, o perlomeno di chi la vuol vedere.

Ma forse non tutti sono consapevoli del fatto che nelle aziende italiane non sono solo gli anglicismi ad aver preso piede, ma è l’uso dello stesso inglese che sta progressivamente soppiantando l’italiano in situazioni e ambiti molto importanti. Farò alcuni esempi, tutti vissuti da me in prima persona o da persone a me vicine, con cui ho lavorato direttamente.

Se lavorate in Italia e utilizzate l’inglese nel vostro lavoro, questo probabilmente si traduce nel fare alcune telefonate o videochiamate in questa lingua, o usarla per scrivere e leggere testi. Momenti isolati all’interno di un ambiente dove invece si parla e ci si scambia informazioni in italiano. Ebbene sappiate che ci sono aziende dove il datore di lavoro obbliga il personale, per la maggioranza italiano, a comunicare sempre in inglese, in ufficio, durante l’orario di lavoro. Solo le pause sono escluse… così invece che fumare di nascosto nei bagni o alla finestra, qualcuno sfrutterà i minuti di pausa per fare una cosa ancora più proibita: parlare nella propria lingua!
Mi è capitato di sentire solo un caso di questo tipo, ma l’assurdità di imporre ai dipendenti una lingua di lavoro diversa dalla propria, in un contesto non così fortemente internazionale da poterlo giustificare, dovrebbe essere sufficiente a farci alzare il livello di attenzione.

Potrebbe anche capitare che dalla vostra conoscenza di questa lingua straniera possa dipendere la vostra stessa sicurezza. Infatti su alcuni luoghi di lavoro la maggior parte dei corsi sulla sicurezza vengono erogati in inglese, magari perché il materiale è prodotto in una sede centrale negli Stati Uniti o a Londra, e per l’azienda è più pratico non creare versioni in altre lingue. Il massimo che lo Stato italiano potrebbe richiedere loro è di farvi firmare un modulo in cui dichiarate di aver compreso tutti i contenuti somministrati in inglese e di non aver bisogno di una traduzione in lingua italiana. E vorrei vedere quale dipendente avrebbe il coraggio di non firmarlo, anche se non avesse capito nulla.

L’inglese però potrebbe mettersi sulla vostra strada ancora prima di essere assunti in un’azienda. Non perché la vostra competenza linguistica venga messa alla prova durante un colloquio, ma per… poter leggere il vostro contratto di lavoro!

Diverse aziende, spesso succursali italiane di multinazionali statunitensi, hanno preso l’abitudine di stilare i contratti di lavoro dei propri dipendenti italiani assunti per operare sul mercato italiano, esclusivamente in inglese. Naturalmente un inglese giuridico-legale, dalla cui comprensione dipendono però le vostre mansioni, le regole da rispettare, le clausole che comportano penali, l’inquadramento, la retribuzioni e altri aspetti cruciali. Ma nulla a quanto pare obbliga l’azienda a fornirvi una copia nella vostra lingua, anche se siete assunti nel vostro Paese e qui eserciterete i vostri compiti.

Questi tre esempi – ma altri se ne potrebbero fare – dipingono un quadro preoccupante: quello di una lingua straniera che travalica il suo uso veicolare per parlare di lavoro con persone che non conoscono l’italiano, assumendo il ruolo di una lingua di lavoro obbligatoria se non addirittura quelli di una lingua ufficiale in cui possono essere redatti contratti di assunzione che lo Stato e i sindacati riconoscono. Senza nessun rispetto per i lavoratori, che avrebbero il diritto a informazioni trasparenti, nella propria lingua madre, e a potersi esprimere come vogliono durante le ore di lavoro.

Tutto questo è figlio dell’assenza totale di una politica linguistica in Italia, a differenza di Paesi come la Svizzera, la Spagna o la Francia, luogo dove questi scenari sono esplicitamente vietati dalla famosa legge Toubon del 1994 che dà a tutti i cittadini un “diritto al francese”.

Si è da poco celebrata la Giornata internazionale della lingua madre, accompagnata a Venezia da un bell’evento dove si è discusso molto del terreno che l’inglese ruba alla lingua italiana, in casa propria, spesso per precise decisioni dello Stato italiano, paradossalmente uno dei principali avversari della nostra lingua oggi. Sul nostro portale abbiamo cercato di far comprendere le dimensioni di questo “attacco” con una linea temporale che mette in fila le principali decisioni contro l’italiano degli ultimi anni.

Dovremmo cogliere questi momenti per riflettere su ciò che stiamo facendo alla nostra lingua, accecati da una serie di luoghi comuni fatti di strane idee di apertura e internazionalità. Per chiederci se tutto questo sia giusto e rispettoso nei confronti di noi cittadini. Ma soprattutto per porci una semplice domanda: davvero ci conviene?

Lingua malata, cultura malata

Si conclude la seconda parte dell’analisi comparativa di anglicismi e forestierismi su cinque grandi quotidiani europei. Indovinate chi ha vinto?

IMMAGINE: Risultati della Fase 2 della nostra analisi comparativa.

Cambiando le testate il risultato resta uguale. Se, nella 1ª Parte (vedi qui) della nostra analisi comparativa sugli anglicismi e forestierismi presenti nei quotidiani europei, la Repubblica aveva massacrato i suoi equivalenti francesi, spagnoli, tedeschi e britannici, la 2ª Parte (vedi qui) ha fornito risultati molto simili.

Ricordiamo ai lettori – perché sembra che la differenza sfugga persino a Professori del mestiere – che stiamo parlando di anglicismi puri (e forestierismi puri nel caso del Times), e non adattati, altrimenti la differenza sarebbe stata ancora più stratosferica. Anglicismo puro (o «prestito integrale») è fast food, greenwashing, beauty, startupper, revenge porn. Adattamento (o «prestito integrato»), sono i vari pigiama, dopato, followare (in italiano), le futboliste (in francese), bloguero o penalti (in spagnolo), Stalkerin e Fußball (in tedesco). Per un inglese, sangria, primadonna e brasserie sono prestiti non adattati, integrali. Gallery e sonnet, per esempio, sono invece adattati.



Chiarito questo, ecco alcune importanti considerazioni.

1. La Stampa ha registrato 1371 anglicismi puri in quattro settimane. Per raggiungere tale numero non è addirittura neppure sufficiente aggregare gli anglicismi di Le Figaro, Süddeutsche Zeitung, El País più i forestierismi sul Times. È la seconda volta che succede. Fu così anche durante la 1ª Parte della nostra analisi.

2. Gli anglicismi su La Stampa riguardano tutti gli ambiti. Tutti. Nessuno escluso. Politica, medicina (specialmente con la pandemia in primo piano) cronaca, sport, bellezza, tecnologia, ambiente, gastronomia, turismo, motori, costumi, musica. Nella stragrande maggioranza dei casi sono anglicismi persistenti e sempre più radicati nella società italiana, dato che sono gli stessi che si vedono anche nei negozi, nei supermercati, in televisione, al lavoro, nelle agenzie interinali, sulle etichette, all’università, ecc.

3. Se da un lato si tratta di anglicismi persistenti, dall’altro sono quasi sempre evitabili e in alcuni casi (pseudo)anglicismi. Non è, in sé, colpa de La Stampa, la quale si limita a riflettere le tendenze delle istituzioni, degli altri media, e delle elite italiane. Gli esempi sono innumerevoli, ma basta notare come il famoso Green Pass italiano si dica Covid Zertifikat in Germania, Certificado Covid in Spagna, Pass Sanitaire in Francia e, attenzione, Covid Passport – non Green Pass – nel Regno Unito.
Come con «smart working«, «baby gang«, «droplet«, «social» e tanti altri, per descrivere fenomeni contemporanei la lingua italiana del secolo XXI sembra preferire a se stessa addirittura una pseudolingua monca, deformata o addirittura inesistente. È un sintomo di una malattia culturale.

4. Davvero ci sfugge perché si debba scrivere sold out invece di tutto esaurito, half time invece di primo tempo o intervallo, creator invece di creatore, beauty routine invece di routine (o abitudini) di bellezza, videogames invece di videogiochi, Italian Politics invece di Politica italiana, magazine invece di rivista, rubrica o rotocalco, top invece di una vasta gamma di equivalenti (dipendenti dal contesto), gender invece di genere, the greatest invece di il migliore, alert invece di allerta, trend invece di tendenza, storyteller invece di narratore ecc. Gli esempi sono centinaia. Il lettore stesso potrà consultarli qui.
Qualcuno dirà: che problema c’è?
Uno, immediato, consiste nei binomi empatia/elitismo ed inclusività/esclusività, giacché milioni di potenziali lettori non capiscono e rischiano di sentirsi alienati e in difetto.
Due, a medio (anzi, breve) termine, questa valanga di sostituzioni riguarda la salute, la qualità e il futuro della lingua italiana come bene culturale.
Se questo massacro linguistico avviene ogni giorno – OGNI GIORNO – su tutti i quotidiani, davvero è razionale non aspettarsi conseguenze? Basta guardare che fine stanno facendo, con la velocità della luce, termini come fattorino, garzone, badante, partitissima, montaggio, diapositiva, importunare, videoperatore, Economia & Commercio, dichiararsi, verde, marca, griffa, interrogazioni parlamentari, ecc. (vedi qui e qui per alcuni dettagli quantitativi).



5. Al di là della spettacolare differenza quantitativa di (pseudo)anglicismi, La Stampa (come La Repubblica nella 1ª parte del nostro studio) è l’unica a trapiantare ormai regolarmente intere locuzioni inglesi nelle frasi. Non parliamo soltanto dei titoli di rubriche in inglese, che sono ormai tantissimi (Italian Politics, Italian Tech, One Podcast, Green & Blue, Quirinal Game, Vatican Insider, ecc), ma comunque anche presenti altrove (anche Le Figaro usa Best Of per esempio, e Süddeutsche Zeitung Say no more e Going to Ibiza).
Stiamo invece parlando di interi pezzi lessicali (il concetto di «lexical chunks» coniato dal linguista Michel Lewis) continuamente visibili, trapiantati in frasi che diventano assolutamente incomprensibili per il lettore che non conosce l’inglese o non lo conosce a un livello avanzato. Si pensi a commuting fashion, heels dance, co-washing, on the go, Safer Internet Day, on demand, novel food, trail running, contact tracing, blue economy, tweet bombing, make-care, zoom fatigue e tanti altri. Persino un nativo britannico fatica spesso a interpetarli, fuori contesto. Siamo oltre le pure sostituzioni lessicali, siamo a interi concetti espressi in inglese, comportamento che non si riscontra – forse con qualche eccezione sporadica nel Süddeutsche Zeitung – negli altri quotidiani europei.
Si dà per scontato che il lettore le conosca. Pessima abitudine, perché troppo spesso non è così.



6. Il World Cancer Day non viene tradotto da La Stampa, al contrario dei corrispettivi europei, che lo traducono nella loro lingua, ma questo non ci sorprende perché da qualche anno qualsiasi evento – non importa se esclusivamente italiano o no – viene riportato in Italia in inglese. Per cui quando La Stampa parla di Election Day, Safer Internet Day, World Cancer Day o Fashion Week si trova perfettamente in sintonia con le dozzine di Bra Cheese Festival, Provincia Day, Coming Out Day, Bi-visibility Day, Family Day, No Paura Day, Student Achievement Award, o Italian Teacher Award.


7. Confermando che la malattia linguistica italiana sia giunta a un livello molto più profondo della mera sostituzione, registriamo la peculiarità de La Stampa nell’utilizzare anglicismi con una noncuranza che sarebbe logica soltanto se l’Italia fosse una ex-colonia anglofona. Qualcuno potrebbe sospettare che il redattore o giornalista in questione stia effettuando un esercizio di puro narcisismo linguistico. Si pensi ai vari rock and troll, top & flop, Gedi watch, Covid watch, total body, legal drama, control tower, cancer plan e altri. Non sembra esserci alcuna considerazione per le decine di milioni di lettori italiani che non hanno studiato l’inglese o non lo conoscono a un livello adeguato.

8. Si noti l’effetto morfologico e/o su sintagmi dove fur-free e covid-free sostituiscono sistematicamente «senza» o «privo di». C’è transgender, e c’è genderless, che viene impiegato in puro itanglese come un sostantivo mentre in inglese (in verità detto più accuratamente sarebbe gender neutral), dovrebbe fungere da aggettivo precedendo, per esempio, theory o politics.
I quotidiani italiani sembrano essere anche gli unici a giocare con sintagmi ibridi. Si pensi a Mattarella bus, miti beauty (però poi beauty routine), net zero 2050, team volley (però poi Italia Team), sintomo del fatto che, mentre francese, spagnolo e tedesco non sembrino (ancora?) intaccati dall’inglese oltre le semplici sostituzioni lessicali, l’italiano mostra sintomi molto più profondi, con i costituenti dei sintagmi che spesso appaiono e scompaiono a piacere barcamenandosi tra l’italiano e l’inglese.

9. Come il Guardian nella prima parte dello studio, anche il Times è il quotidiano che registra meno forestierismi puri, ovvero i prestiti «non adattati». Questa volta però, anche il quotidiano spagnolo di riferimento, El País, ha registrato pochissimi anglicismi. Interessante notare che sia El País, sia Le Figaro, proprio durante il periodo del nostro studio, abbiano rispettivamente pubblicato articoli sul fenomeno degli anglicismi nella propria lingua. Ancora una volta resta il sospetto che, in entrambi i Paesi, il livello di presa di coscienza dell’ecologia e tutela della propria lingua sia anni luce dallo sbandamento linguistico dell’Italia secolo XXI.

10. La stragrande maggioranza degli anglicismi usati da Le Figaro e, specialmente, Süddeutsche Zeitung resta confinata a titoli fissi di rubriche (live, weekend, magazine, Best Of, Going to Ibiza, newsletter, Homeoffice, Say no More) che vengono riciclati continuamente. È relativamente raro trovare intere storie o notizie imperniate su un anglicismo, o addirittura una intera locuzione in (pseudo)inglese, al contrario dei quotidiani italiani.


Il Decalogo dell’Angloinvasato*

Circola in questi giorni sulle reti sociali una raccolta di luoghi comuni, pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera a firma del linguista Giuseppe Antonelli. Si chiama «Decalogo dei pregiudizi / Decalogo alternativo» ed è la definizione perfetta dell’argomento fantoccio o fallacia dell’uomo di paglia. In altre parole, si prende l’argomento opposto, lo si esagera, lo si distorce, e se ne fa una caricatura grossolana con il fine di compensare la propria mancanza di argomenti. Io moderno, tu autarchico. Io cosmopolita, tu bigotto. Io flessibile, tu rigido. Io plurilingue, tu nostalgicopurista. È facilissimo. Non a caso, va molto di moda nei tempi «binari» in cui viviamo.

IMMAGINE: Decalogo pubblicato su La Lettura (Corriere della Sera), pagina 11, 06/02/2022.

Però se è per questo, una caricatura la possiamo fare anche noi. È semplice, è divertente, ed offre anche uno spaccato realistico del cervello itanglese dell’anno 2022 (che ora si dice Venti Ventidue, non che gli attenti ghenolinguisti de «l’italiano è intaccato solo a livello lessicale» lo abbiano notano). E dunque eccolo, il DECALOGO DELL’ANGLOINVASATO:


Una volta esplorata la forma mentis dell’angloinvasato italiano del secolo XXI, diamo dunque uno sguardo ai fantomatici dieci punti del linguista Giuseppe Antonelli.

1. «NON AVRAI ALTRA LINGUA AL DI FUORI DELLA TUA».
Una caricatura, ovviamente, di un infantilismo spaventoso, che non significa nulla e che viene convenientemente giustapposta a «più lingue sono meglio di una» per supporre che chi considera la lingua italiana un bene culturale sia un cavernicolo autarchico con deliri suprematisti. Chiaro che più lingue sono meglio di una. Parlarle apre la mente, apre finestre verso altre culture, offre altre prospettive, è divertente, è utile a livello professionale.
Peccato che questo non c’entri nulla con lo tsunami anglicus (cit. Tullio de Mauro) attuale, e che eluda brillantemente il tema del fenomeno tutto italiano della somma zero, ovvero l’incapacità degli italiani del secolo XXI di fomentare conoscenze di altre lingue senza autodistrurre la propria o indulgere in miscugli comici nello stile di Salvatore il Gobbo del «Nome della Rosa» di Umberto Eco.


FOTO: Salvatore il Gobbo nel film «Il Nome della Rosa», tratto dal libro omonimo di Umberto Eco.

2. «LA TUA LINGUA È MIGLIORE DELLE ALTRE».
E la mia macchina è più veloce della tua e io sono più alto di te.
Davvero deve essere questo il livello?

3. «LA LINGUA DI OGGI È PEGGIORE DI QUELLA DEL PASSATO».
Magari possiamo dire «worse«, usando anglocosmesi in puro stile itanglese per illuderci che non sia così?
Non è che la lingua sia peggiore. È che sta scomparendo. C’è sempre meno italiano nei concetti.
Come altro descrivere la crescente incapacità dell’italiano di descrivere fenomeni attuali senza ricorrere costantemente ad un’altra lingua o – in alcuni casi – a una pseudolingua? La difesa secondo cui «tutte le lingue sono alla deriva» ovviamente non scende nei dettagli, nonostante siano di una chiarezza disarmante.
Facciamo l’esempio dello spagnolo- una tra dozzine di lingue – che riesce ad aggiornarsi e, al contrario dell’italiano, descrive la pandemia con le proprie parole. Abbiamo confinamiento invece di lockdown, cuidador/a invece di car[e]giver, rastreo [de contactos] per contact tracing, Certificado Covid per Green Pass, autocovid invece di drive-in covid, centro invece di hub, foco invece di cluster, distancia de seguridad invece del farlocco droplet, teletrabajo invece del pseudoanglismo smart working, antivacunas invece del «pidginesco» no-vax, covid largo invece di long covid, refuerzo invece di booster, ecc. Come si può negare che la salute dell’italiano si stia deteriorando? Gli esempi sono centinaia di parole in declino, in Italia, senza alcun motivo. Motivo che invece esisterebbe se questo fenomeno avvenisse in modo più o meno uniforme tra tutte le grandi lingue europee. Perché gli spagnoli riescono a dire diapositiva anche per l’aggeggio digitale, mentre gli italiani hanno accantonato la propria parola per eccitarsi con slide? Perché tutti i fenomeni moderni, dalla teoria genderless al net zero, dai social ai reality e dall’upcycling all’ecommerce, gli italiani non riescono a esprimerli nella loro lingua come facevano quasi sempre prima?
Poi ci sono i fenomeni non moderni, che purtroppo esistono da tempo. Catcalling, stalking, revenge porn, bodyshaming, mobbing e tanti altri. Che sia inglese vero o presunto, l’italiano è sempre più assente.


IMMAGINE: Campagna promozionale del Ministero della Cultura d’Italia, 2022.

4. «OGNI INNOVAZIONE DELLA LINGUA È CORRUZIONE e IMMUTABILI SONO SOLO LE LINGUE MORTE».
Appunto. L’italiano ha smesso di innovarsi. Una lingua che si comporta sempre di più come nell’immagine qui sotto non si sta innovando, sta morendo.
Al netto di un numero fisiologico di prestiti, che esistono in tutte le lingue, una lingua si evolve quando è viva, adatta, crea, è dinamica, conia neologismi. Il 54% dei neologismi aggiunti all’italiano dal 2000 in poi sono (pseudo)anglicismi. Significa che per qualsiasi concetto nuovo, in qualsiasi ambito (non solo le innovazioni informatiche e tecnologiche) il riflesso compulsivo è ormai quello di scimmiottare, come scrive Claudio Marazzina, dall’inglese. Questa, per definizione, è una lingua immutabile e immutante. Il mondo va avanti e l’italiano è rimasto fermo al 1999.

5. «ONORA LA GRAMMATICA CHE TI HA INSEGNATO LA SCUOLA/ I MODELLI LINGUISTICI DEL PASSATO NON POSSONO DETTARE LA NORMA DEL PRESENTE»
Questa considerazione manicheistica non fa parte dell’ambito di questa Campagna. Però, di sfuggita, se è questa il criterio, non si fa prima ad abolirla, la grammatica? Anzi, dato che ci siamo, abogliamo la squola e purliamo tuttu the way ke wantiamo? Sicuramente il Professor Antonelli non voleva dire questo. Antipatiche le caricature, vero?

6. «DIFFIDA DI OGNI USO LINGUISTICO SPONTANEO»
Argomento uomo di paglia strafatto di steroidi anabolizzanti che neanche Ben Johnson alle Olimpiadi di Seul nel 1988.

7. «RICORDATI DI SANTIFICARE LE REGOLE»
Come 5 e 6 qui sopra.
Dato che ci siamo, avete notato – in perfetta linea con i tempi egomaniacali e del narcisismo nauseante in cui viviamo – che gli autori del caro decalogo non hanno neanche considerato per un secondo il rispetto per l’interlocutore? Tutto è basato sull’io. Il me. Io parlo e scrivo come voglio, e se l’interlocutore non capisce, per motivi anagrafici («boomer!«, però «abbasso lɜ discriminazionɜ!«), economici, accademici, o quello che sia, sono cazzi suoi.


IMMAGINE: Frascati, UK
Italia.

8. «NON PRATICARE NEOLOGISMI IMPURI/ CI SONO PAROLE CHE NASCONO E PAROLE CHE INVECCHIANO».
Certamente. Succede in tutte le lingue. In italiano però le parole che invecchiano, per la prima volta, vengono sistematicamente sostituite da termini (pseudo)inglesi. Gli esempi sono migliaia. Basta farsi un giro per i negozi, guardare la televisione, leggere giornali e riviste, andare alle Poste. Succede con le leggi (Jobs Act invece di riforma del lavoro o Legge [Nome del Proponente]), con le procedure parlamentari (question time invece di interrogazioni parlamentari), con i corsi universitari (Business School per Economia & Commercio), con le professioni (badante e caregiver, fattorino/garzone e rider, capotreno «killerato» – vedete che moderni che siamo- da train manager, ecc), con le Poste Italiane (spedizioni cannibalizzato da delivery, resi dall’inglese farlocco reverse paperless). Succede con i reparti ospedalieri (breast unit, stroke unit, day hospital, day surgery, skin cancer unit, ecc). Succede con la squadra olimpica che diventa il frankenstein sintattico di Italia Team. Succede con dichiararsi, sepolto da coming out. Succede che genere diventa sempre più gender. Succede con ambientalista, ecologico, verde, coperti da una lenzuolata di green che neanche le lucertole. Inizia ad avere effetti su morfologia e sintagmi, dall’incapacità di coniare un evento che non sia XYZ Day, XYZ Week, XYZ Award (in Italia) alla compulsione di attacare il suffisso -free ai sostantivi (plastic-free, covid-free, meat-free, ecc), al must-have in tutte le salse. Nelle proporzioni attuali, qualcosa del genere si è visto solamente nelle ex colonie britanniche.
Per farla breve, vediamo se l’angloinvasato capisce: il problema non sono i prestiti, non sono i neologismi, non sono gli adattamenti: il problema è non saper distinguere uno tsunami da una normale e salutare pioggerella.

9. «NON DESIDERARE PAROLE D’ALTRE LINGUE»
L’argomento fantoccio di nuovo. C’è desiderare parole d’altre lingue, e c’è questo:


10. «IL PURISMO FA MALE ALLA LINGUA»
Di quale «purismo» parliamo? Che significa «purismo»? Rabbrividire di fronte alle centinaia di anglicismi inutili presenti quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani? Aspettarsi che una legge del parlamento italiano sia espressa in lingua italiana è forse «purismo»?
Si potrebbe «ribaltare la tortilla«, come dicono gli spagnoli e parlare di una ossessione anglofila – quella sì – ai limiti del purismo, dato che in qualsiasi contesto, pubblico, privato, accademico, pubblicitario, mediatico, sportivo, medico, la scelta (pseudo)inglese prevale sistematicamente sull’italiano. Questo purismo anglofilo, questa ossessione con il voler apparire a tutti costi internescional, anche quando non ce n’è bisogno, fa male. Fa male alle lingue, plurale. Non offre alcun vantaggio. Lasciamo perdere la confusione e cattiva comprensione (sia per gli italiani che per i non italiani), la mancanza di trasparenza o il poco rispetto sia l’italiano che l’inglese, questa pseudolingua sta causando un crescente impoverimento lessicale e un avvizzimento dell’italiano. Un semplice sguardo alla pigrizia linguistica dei mezzi di comunicazione italiani odierni – da cui viene diffusa la stragrande maggioranza di questi (pseudo)anglicismi – dovrebbe essere sufficiente per aiutare un attento linguista a trarre conclusioni logiche, invece di giocare a fare il contemporaneo cool.
Ed infatti, muniti di cifre dure e pure basate sulla nostra analisi comparativa degli anglicismi sui maggiori quotidiani europei (guardate i risultati della settimana 7), concludiamo con la solita domanda:
Perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo molto di meno a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, e in quantità sempre maggiore?

Ci sarà mai un linguista che riuscirà a rispondere a questa domanda senza travisare?

IMMAGINE: «La lingua la fanno i parlanti»: il sito dell’INPS.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.