Mi pare un buon esempio anche per comprendere come l’attuale interferenza dell’inglese sia sempre meno interpretabile attraverso le categorie in voga tra i linguisti legate al “prestito” lessicale adattato e non adattato e addirittura di lusso e necessità… Forse etichettano come un “calco” questo vezzo, che però non è lessicale, bensì strutturale, visto che il cambiamento è avvenuto nel 2020, ma vedo che si protrae anno dopo anno (o forse sono solo tanti calchi uno per ogni anno a venire?)
Prima o poi voglio scrivere una riflessione sull’interferenza linguistica sui numeri, che magari i linguisti seri (una volta si chiamavano glottologi) che non approvano espressioni come “anglicismi crudi” (a proposito di serietà: la usa anche Luca Serianni) interpretano come prestiti adattati (chissà se screenshottare è per loro un semiadattato o un adattato; lo chiamano anglicismo produttivo? Per me è un itanglismo che parte da radici prolifiche).
Penso al punto che sostituisce la virgola nelle statistiche in tv dove il tal partito si attesa al 3.5 invece di 3,5, interferenza figlia dell’invenzione del “computer” che è stato pensato da chi parla inglese e che si ritrova anche in alcune calcolatrici mal tradotte, ma soprattutto si propaga attraverso l’inglese globale degli studi scientifici e statistici…
Penso all’insensatezza di una parola-concetto come teenager.
Che cosa accomuna da noi un tredicenne a un diciannovenne? Nulla, a parte l’essere giovanissimi. Il primo va alle medie e l’ultimo all’università, non sono adolescenti, non si frequentano dal punto di vista sociale, non sono una categoria se non nella lingua inglese dove teen distingue il suffisso dei numeri da 13 a 19. Eppure sui giornali spopola. Come se questa categoria facesse parte della nostra lingua e cultura. Ma del resto questi “prestiti”, che sono concettuali, sono quelli che usiamo ormai per identificarci come generazione. Una volta c’erano i sessantottini, per esempio, che facevano riferimento ai nostri vissuti, oggi le generazioni si scandiscono e identificano con concetti d’oltreoceano, e dopo i figli del boom economico, il baby boom che oggi ha prodotto il dispregiativo boomer, le nuove generazioni si chiamano Millennial(s) e tutta un’altra serie di etichette veicolate attraverso lettere come X, Y o Z seguite da generation, che non appartengono alla nostra cultura né alla nostra lingua.
A quando entrerà in uso tra i tubisti-tronisti che si chiamano youtuber il vezzo di fare il gesto del tre non con il pollice, ma con anulare-indice-medio all’inglese? Credo sia solo questione di tempo, e si entra nel “prestito gestuale” – forse, per seguire le categorie dei linguisti – come il mimare le virgolette con le mani e dare il 5. Nulla di male, per carità, ma tutto ciò è l’indice (a proposito di dita) di un’interferenza che va ben oltre lingua: riguarda il pensare e il senso di appartenenza, che sono cose che esulano dalla linguistica, e che un linguista mediocre non è in grado né di spiegare, né (spesso) di vedere.
Una riflessione eccellente, anche se un po’ triste, sulla crescente voglia della società italiana di uniformarsi in tutto e per tutto al mondo anglosassone. Io uso spesso il cancelletto (almohadilla, hashtag) #vogliadiesserecolonia. E, hai ragione, tra poco gli italiani arriveranno a contare con le dita all’anglosassone.
Perché sembra proprio che sia così, su tutti i livelli.
Mi ha fatto riflettere la tua referenza ai «sessantottini», caro Antonio, concetto italiano, e magari francese e tedesco, certamente europeo occidentale e NON anglosassone, per indicare più che altro un’appartenenza anagrafica. Cosa che ora si fa esclusivamente con concetti d’oltreoceano e che tra l’altro – questa cosa delle generazioni – sembra una vera e propria ossessione e l’ennesima maniera di cercare divisioni artificiali tra la gente.
Leggo articoli sulla stampa britannica OSSESSIONATI con questa cretinata di Gen Z, Gen X, Millenials, «Cheugy» e Boomers, come se parlassero di specie biologiche radicalmente differenti a seconda dell’anno di nascita.
Ma torno al punto. Io all’università, in Inghilterra, scelsi un esame optativo chiamato «Southern European Politics», Politica dell’Europa Meridionale. Fu molti anni fa, però mi permise di scoprire una varietà di concetti e parole create e coniate specificamente in Italia (così come in Spagna, Grecia e Portogallo). E, per inciso, che sfida per studenti e docenti britannici cercarle di renderle in inglese! Che bello parlare di Paesi e di peculiarità culturali, storiche e linguistiche!
Strategia della tensione, opposti estremismi, compromesso storico, solidarietà nazionale, pentapartito, picconatore, sinistra/destra extraparlamentare, e tante altre cose – spesso concetti non piacevoli – che ora non ricordo più, ma che erano tutti «Fatti in Italia», quando l’italiano era una lingua viva e vibrante.
Una cosa impensabile oggi, dove tutto, TUTTO, è uno scimmiottamento di concetti statunitensi, alla stregua di una colonia culturale di 4º livello. Non lo vedo assolutamente nella stessa misura in Spagna, dove vivo da molti anni, e dove continuo con piacere a vedere concetti iberici e/o ispanici creati, coniati e sviluppati senza voglia di scimmiottare.
Concludo con questo: vale la pena dire che anche in Gran Bretagna, dove ufficialmente 2022 si dovrebbe dire «two thousand (and) twenty-two», 2022 viene detto all’americana da metà del Paese.
Mi pare un buon esempio anche per comprendere come l’attuale interferenza dell’inglese sia sempre meno interpretabile attraverso le categorie in voga tra i linguisti legate al “prestito” lessicale adattato e non adattato e addirittura di lusso e necessità… Forse etichettano come un “calco” questo vezzo, che però non è lessicale, bensì strutturale, visto che il cambiamento è avvenuto nel 2020, ma vedo che si protrae anno dopo anno (o forse sono solo tanti calchi uno per ogni anno a venire?)
Prima o poi voglio scrivere una riflessione sull’interferenza linguistica sui numeri, che magari i linguisti seri (una volta si chiamavano glottologi) che non approvano espressioni come “anglicismi crudi” (a proposito di serietà: la usa anche Luca Serianni) interpretano come prestiti adattati (chissà se screenshottare è per loro un semiadattato o un adattato; lo chiamano anglicismo produttivo? Per me è un itanglismo che parte da radici prolifiche).
Penso al punto che sostituisce la virgola nelle statistiche in tv dove il tal partito si attesa al 3.5 invece di 3,5, interferenza figlia dell’invenzione del “computer” che è stato pensato da chi parla inglese e che si ritrova anche in alcune calcolatrici mal tradotte, ma soprattutto si propaga attraverso l’inglese globale degli studi scientifici e statistici…
Penso all’insensatezza di una parola-concetto come teenager.
Che cosa accomuna da noi un tredicenne a un diciannovenne? Nulla, a parte l’essere giovanissimi. Il primo va alle medie e l’ultimo all’università, non sono adolescenti, non si frequentano dal punto di vista sociale, non sono una categoria se non nella lingua inglese dove teen distingue il suffisso dei numeri da 13 a 19. Eppure sui giornali spopola. Come se questa categoria facesse parte della nostra lingua e cultura. Ma del resto questi “prestiti”, che sono concettuali, sono quelli che usiamo ormai per identificarci come generazione. Una volta c’erano i sessantottini, per esempio, che facevano riferimento ai nostri vissuti, oggi le generazioni si scandiscono e identificano con concetti d’oltreoceano, e dopo i figli del boom economico, il baby boom che oggi ha prodotto il dispregiativo boomer, le nuove generazioni si chiamano Millennial(s) e tutta un’altra serie di etichette veicolate attraverso lettere come X, Y o Z seguite da generation, che non appartengono alla nostra cultura né alla nostra lingua.
A quando entrerà in uso tra i tubisti-tronisti che si chiamano youtuber il vezzo di fare il gesto del tre non con il pollice, ma con anulare-indice-medio all’inglese? Credo sia solo questione di tempo, e si entra nel “prestito gestuale” – forse, per seguire le categorie dei linguisti – come il mimare le virgolette con le mani e dare il 5. Nulla di male, per carità, ma tutto ciò è l’indice (a proposito di dita) di un’interferenza che va ben oltre lingua: riguarda il pensare e il senso di appartenenza, che sono cose che esulano dalla linguistica, e che un linguista mediocre non è in grado né di spiegare, né (spesso) di vedere.
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Una riflessione eccellente, anche se un po’ triste, sulla crescente voglia della società italiana di uniformarsi in tutto e per tutto al mondo anglosassone. Io uso spesso il cancelletto (almohadilla, hashtag) #vogliadiesserecolonia. E, hai ragione, tra poco gli italiani arriveranno a contare con le dita all’anglosassone.
Perché sembra proprio che sia così, su tutti i livelli.
Mi ha fatto riflettere la tua referenza ai «sessantottini», caro Antonio, concetto italiano, e magari francese e tedesco, certamente europeo occidentale e NON anglosassone, per indicare più che altro un’appartenenza anagrafica. Cosa che ora si fa esclusivamente con concetti d’oltreoceano e che tra l’altro – questa cosa delle generazioni – sembra una vera e propria ossessione e l’ennesima maniera di cercare divisioni artificiali tra la gente.
Leggo articoli sulla stampa britannica OSSESSIONATI con questa cretinata di Gen Z, Gen X, Millenials, «Cheugy» e Boomers, come se parlassero di specie biologiche radicalmente differenti a seconda dell’anno di nascita.
Ma torno al punto. Io all’università, in Inghilterra, scelsi un esame optativo chiamato «Southern European Politics», Politica dell’Europa Meridionale. Fu molti anni fa, però mi permise di scoprire una varietà di concetti e parole create e coniate specificamente in Italia (così come in Spagna, Grecia e Portogallo). E, per inciso, che sfida per studenti e docenti britannici cercarle di renderle in inglese! Che bello parlare di Paesi e di peculiarità culturali, storiche e linguistiche!
Strategia della tensione, opposti estremismi, compromesso storico, solidarietà nazionale, pentapartito, picconatore, sinistra/destra extraparlamentare, e tante altre cose – spesso concetti non piacevoli – che ora non ricordo più, ma che erano tutti «Fatti in Italia», quando l’italiano era una lingua viva e vibrante.
Una cosa impensabile oggi, dove tutto, TUTTO, è uno scimmiottamento di concetti statunitensi, alla stregua di una colonia culturale di 4º livello. Non lo vedo assolutamente nella stessa misura in Spagna, dove vivo da molti anni, e dove continuo con piacere a vedere concetti iberici e/o ispanici creati, coniati e sviluppati senza voglia di scimmiottare.
Concludo con questo: vale la pena dire che anche in Gran Bretagna, dove ufficialmente 2022 si dovrebbe dire «two thousand (and) twenty-two», 2022 viene detto all’americana da metà del Paese.
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