20 baggianate itanglesi demistificate una a una.
16/11/2021 AUTORE: Peter Doubt
I sostenitori dell’itanglese tendono spesso a contraddirsi. Non è inusuale che nella stessa frase neghino il fenomeno, o lo minimizzino, per poi però anche dire che è un’ottima cosa, bella, moderna, inevitabile, e «comune a tutte le altre lingue». Analizziamo una a una le gemme più tipiche alla fiera dell’anglomania.
1. L’evoluzione della lingua è semplicemente il progresso, la globalizzazione, l’adattarsi ai tempi moderni. Fosse per voi si parlerebbe ancora latino.
RISPOSTA: Certo che il progresso è inarrestabile ed è parte intrinseca dell’umanità. Ma non per questo lasciamo che le cose avvengano come se vivessimo in una giungla e senza un minimo d’attenzione. Non per questo buttiamo via con tanta disinvoltura il nostro patrimonio storico.
Immagina se un tale approccio così passivamente darwinista venisse applicato a qualsiasi altro ambito della vita e della natura.
Lo sosterresti anche se si parlasse di emissioni di anidride carbonica? Perché anche quelle sono frutto del progresso, e qualsiasi limite imposto a fabbriche, automobili e imprese sarebbe un’intrusione artificiale, un «bastone tra le ruote» e un’imposizione.
Lasceresti estinguere una tribù della Amazzonia senza batter ciglio «perchè tanto questo è sempre avvenuto»?
Restaureresti una chiesa dell’anno 1000 D.C. nello stile di un aeroporto, o il Colosseo nello stile dello Juventus Stadium, perché ciò sarebbe più efficiente, economico, pratico e infinitamente più facile da far coincidere con le norme anti-incendio e le regole di accessibilità contemporanee?
Saresti contento se un ecomostro prefabbricato di 20 piani venisse costruito sulla costa al posto di alcune case d’epoca semi abbandonate nel nome del progresso, della praticità e dell’apertura ai turisti? Liquideresti ogni obiezione sulla base che «se non fosse così vivremmo ancora nelle caverne»?
E sul tema linguistico, davvero non fa nulla se lingue come il gaelico, il gallese e il basco muoiono o perdono completamente la loro fisionomia «perché tanto le lingue muiono da sempre»?
E allora perchè per la lingua italiana sì?
2. Tutte le lingue hanno prestiti integrali.
RISPOSTA: Certo. Certissimo. Assolutamente sì.
E in tutti i Paesi europei nevica almeno qualche volta. Anche a Cipro. Anche in Sicilia. Anche Malta si imbiancò di neve nel 2015.
Ma non per questo una persona con un minimo di buon senso sosterrebbe seriamente che non è vero che in Lapponia faccia molto più freddo che a Cipro, in Sicilia, o a Malta.
Stesso dicasi se si comparano i prestiti integrali in uso nella lingua italiana – nell’anno 2021, non nel 1600 – con le maggiori lingue europee. Non c’è assolutamente paragone, e il liquidare il tutto dicendo che «tutte le lingue fanno così» è un fenomeno così inspiegabile da andare oltre l’analisi linguistica, rasentando quella psicologica. Siamo a tali livelli di dissonanza cognitiva che stupisce dover specificare certe cose.
3. Ma io sono stato in Inghilterra e lì dicono tiramisù, lasagna, pizza e soprano.
RISPOSTA. Di nuovo, il problema sono le proporzioni, i tempi, la rapidità.
Guarda lo studio condotto da Campagna per salvare l’italiano nel Novembre 2021. Comparando quotidianamente le portate (home page, se no siamo obsoleti) di 4 grandi quotidiani europei, quello italiano sommava 644 anglicismi (!) in una sola settimana, quello francese ne sommava 37, quello spagnolo 102, quello tedesco 233. Il Guardian britannico, anch’esso inserito nello studio per verificare il peso della filastrocca ricorrente secondo cui «anche gli inglesi dicono tiramisù«, forniva un totale di 6 forestierimi puri in tutta la settimana. Gli italianismi erano quattro e tre di essi si riferivano a un servizio su Napoli.
Forse vale la pena ripeterlo: 644 anglicismi nel campione italiano contro 4 italianismi in quello britannico, «però gli inglesi dicono tiramisù».
Durante lo studio, era chiaro ogni giorno che non vi fosse partita.
Al netto della sindrome da dissonanza cognitiva galoppante, questi dati possono fornire spunti di riflessione su vari livelli. Ed il più ovvio è che il volume di prestiti integrali dall’inglese usati attualmente e correntemente nella lingua italiana non sono paragonabili alla situazione di francese, spagnolo e, in minor misura, tedesco. Parliamo di una magnitudine completamente differente.
4. Gli anglicismi sono limitati ad ambiti settoriali.
RISPOSTA: E la testa non serve solo a dividere le orecchie.
Anche un non vedente e un non udente avranno notato che l’italiano dell’anno 2021 si appoggia sempre di più ad anglicismi puri in qualsiasi ambito. Ê dappertutto. Sembra quasi che ormai non si riesca più a infilare tre frasi di seguito senza qualcosa d’anglo.
Di nuovo, guardiamo i numeri rilevati nello studio comparativo dei giornali quotidiani.
Le centinaia di anglicismi rilevati su la Repubblica andavano da lifestyle a beauty, da green a recovery, da lockdown a longform, da beachwear a intelligence, da privacy a smart, da no-vax a green pass, da authority a climate change, da Italian tech a cartoons, da cultura woke a gender gap, da news a brand, da welfare a cashback, da hacker a pallets, e da girl band a pet therapy, da long covid a step.
Il mantra secondo cui «in Inghilterra dicono tiramisù» potrebbe al massimo valere nell’ambito gastronomico (ma, occhio, solamente se si parla di cibo italiano, che non è l’unico a godere di popolarità in Gran Bretagna – si pensi alla normalizzazione di termini come chef, gateaux, chorizo, paella, gambas, dorada, sangria, fois gras, balti, masala, pakora, wok e centinaia di altri).
Magari andrebbe bene anche in alcuni ambiti musicali con termini quali arpeggio, adagio e andante, soprano e opera.
Invece, in Italia, gli anglicismi puri e duri in italiano fioccano da tutte le parti. Economia, informatica, scienza, politica, università, medicina, musica, sport, spettacolo, moda, motori, architettura, ecologia, cinema. Tutto. Ormai persino la gastronomia è saturata di anglicismi (si pensi alle sempre più numerose referenze a food & wine, wine bar, happy hour, cupcakes, drink, streetfood, pulled pork, bakery, taste experience, sugar free e tutto il resto).
5. Chiaro che usiamo parole in inglese se si riferiscono a cose inventate negli Stati Uniti d’America.
RISPOSTA: Proprio qui, senza volerlo, l’anglomane riconosce implicitamente che l’italiano sia arrivato al capolinea.
Perché quando l’americano Thomas Edison inventò la lampadina nel 1879, gli italiani la tradussero. Non la chiamarono light bulb perché veniva da oltreoceano. Quando un altro statunitense, il signor Farnsworth II, inventò la televisione, gli italiani adattarono la parola senza pensarci due volte. E quando il tedesco Karl Benz inventó l’automobile, gli italiani la chiamarono, appunto, automobile, non Wagen. Nulla di straordinario. È quello che fa una lingua viva.
Questo non sta avvenendo più, sistematicamente.
È verissimo che l’avvento della cultura digitale e la valanga di concetti che hanno cambiato la vita durante gli ultimi 20/25 anni abbiano avuto origine negli Stati Uniti. Ma fa riflettere che tantissimi di questi non siano stati tradotti in italiano. Perché gli spagnoli dicono redes sociales, i francesi réseaux sociaux e gli italiani si aggrappano allo pseudoanglicismo social?
L’italiano ha smesso di tradurre e persino gli adattamenti nello stile «della prima ora», come formattare o scannerizzare, stanno iniziando a scemare.
Ma in ogni caso, facciamo pure che siamo d’accordo tranquillamente che per ragioni pratiche si accetti che l’ambito informatico, con i suoi tecnicismi, in italiano sia reso quasi esclusivamente in inglese. Va bene.
E tutto il resto? Il red carpet, i talk, gli squat, il recovery, il food & drink, il booster, il gender gap, l’Authority, il fiscal compact, il welfare, cringe, chat, call, beauty, eyeliner, highlights, streetfood, experience, empowerment, outfit, final, hiring, blazer, no mask, family day, pet store, shared mobility, longform, stepchild adoption, trekking, e-commerce, delivery, greenchic, upskill, tips, ecc.
Che c’entrano con la Silicon Valley? Perché l’Italia è l’unico Paese dove un governo escogita una legge chiamata – senza alcun motivo – Jobs Act, come se fosse una ex colonia britannica, e nessuno batte ciglio?
6. Ma il Jobs Act si chiamava così per distinguerlo dalle precedenti riforme sul lavoro!
RISPOSTA: E allora quando arriva la prossima riforma sul lavoro che nome le daranno per distinguerla, uno in russo? In cinese?
Per caso, hanno reso illegale la pratica fin’ora in uso di dare alla legge il nome del suo proponente? La legge Cossiga sull’emergenza terrorismo del 1980 la chiamarono forse Terrorism Act per distinguerla da altre emergenze?
7. L’italiano si sta arricchendo grazie agli anglicismi.
RISPOSTA: L’italiano non si sta arricchendo. Al contrario, si sta appassendo. Una lingua che smette di creare, adattare, tradurre è una lingua che non è affatto in buona salute. In altre parole, «oggi la nostra lingua appare come un dispositivo, pensiamo ad un cellulare, che non riceva più gli aggiornamenti; questo con il tempo sarà destinato ad essere abbandonato» (Francesco Ricciardi, 2020).
Basta guardare i numeri: il 50% dei neologismi del nuovo Millennio sono anglicismi puri (Antonio Zoppetti, 2019).
Il fenomeno linguistico sviluppatosi in Italia durante la pandemia del COVID-19 negli anni 2020 e 2021 è la prova più spettacolare. Lockdown, hub, caregiver, cluster, droplet, drive-in Covid, drive-through Covid, green pass, vaccine Manager, No Vax, No Mask, No Paura Day, booster, waning, long Covid, checkpoint temperature, il «Recovery«.
Sono tutti concetti, alcuni pseudoanglicismi da commedia, che che si sono imposti nel giro di 5 minuti sull’italiano.
Uno sguardo alla Spagna, e le parole sopra descritte erano – e rimangono – confinamiento, centro vacunal, distancia de seguridad, autocovid, certificado verde, director del plan de vacunación, antivacuna, antimascarillas, dosis de reuerzo, [inmunidad] menguante, Covid largo, control de temperatura, fondo de recuperación, ecc.
Mentre le parole tiramisù, lasagna, pizza si incorporarono al lessico inglese (ma anche tedesco, spagnolo e francese) senza sostituire nulla (nel caso specifico, furono piatti importati, che non avevano un equivalente locale), la valanga di green, news, brand, lockdown, team, red carpet, editing, outfit, ready to eat e make-up tende a rimpiazzare equivalenti italiani perfettamente validi rendendoli uno ad uno sempre più obsoleti.
8. Ma era già successo così nei secoli passati con i francesismi.
RISPOSTA: Sul serio?
Se sei nel mezzo di un uragano, ti fa sentire meglio negare l’evidenza dicendo che «anche ieri ha piovigginato»?
Certo, c’era una volta in cui entrarono bidet, manicure, brioche e molti altri, ma il paragone è assurdo.
Gli adolescenti italiani del 19º secolo non condivano le loro conversazioni con l’equivalente francese di bro, cool, fail, cringe, hater, influencer e IMHO. I governi di Cavour e Giolitti non battezzavano leggi e provvedimenti e interi ministeri in francese come si fa oggi con i vari Jobs Act, Cashback, Ministero del Welfare, navigator, road map e governance. Le Poste italiane non chiamavano le loro spedizioni livraison o sputacchiavano equivalenti gallici di reverse paperless.
E, a proposito, quando il primo tronco ferroviario venne inaugurato il 3 ottobre 1839 dal re Ferdinando II di Borbone, le persone non ci si affrettava a dire le chef de train, come oggi con train manager invece di capotreno. E i convegni e dibattiti pubblici, venivano forse propagandati chiamandoli discours come si fa oggi con gli onnipresenti talk? Davvero la supeficialità del mondo contemporaneo ha raggiunto livelli tali che linguisti di professione possano con nonchalance (avete visto che sto facendo?) mettere sullo stesso piano i francesismi puri (attenzione, non parliamo di adattamenti) dei secoli XIX e XX con l’anglomania a 360 gradi degli ultimi 20 anni? Insomma, non perdiamo tempo.
9. È una moda passeggera.
RISPOSTA: La cui proporzione sta aumentando esponenzialmente. Per cui è come concludere che il Titanic si raddrizzerà perché sta affondando sempre di più. Per ogni pseudoanglicismo che cade in disuso (e magari alcuni ce ne sono anche, come footing, che comunque è stato rimpiazzato da jogging, per cui lasciamo perdere), ne entrano centinaia a valanga ogni anno.
E non solo. La cosa più preoccupante è che siamo già ben oltre lo tsunami di sostituzioni di singoli vocaboli che si notava a cavallo del nuovo millennio. Iniziano a notarsi sempre di più anglicismi (o pseudo tali) radicati a livello sintattico, o per citare il linguista Michael Lewis, in autentici «pezzi lessicali». Si pensi ai vari pseudo anglicismi nello stile di no gender, no vax, no mask. Si pensi alle sempre più numerose locuzioni nello stile di back to school, ready to eat, smart working, stepchild adoption, we are hiring, gender gap, family day, pet therapy, car sharing, baby gang, beachwear, mindful eating, bodyshaming, body positive, persino no green pass day. Sono ceffoni continui a preposizioni, articoli e strutture tipiche della lingua italiana.
In italiano ormai non si dice quasi più «essere contro qualcuno» o «contrario a qualcosa». Si dice «No» seguito dalla parola anglo.
Non si dice più «Giornatà della quellochesia». È di rigore usare la parola inglese seguita da «Day«.
Non si dice più senza qualcosa, senza zucchero, senza Covid. Prendi una locuzione aggettivizzata in stile anglo, come sugar-free e come no, l’italiano si è arricchito.
Insomma, se di moda passeggera si tratta, lo è solamente nel senso che sta diventando la normalità assoluta e non un semplice andazzo nello stile del gergo dei paninari degli anni Ottanta.
10. La lingua la fanno i parlanti. Se si parla così è perché così vuole la gente. Non puoi obbligare nessuno a fare altrimenti.
RISPOSTA (A): Spesso chi dice così è un fermo sostenitore di Riforme Linguistiche Per Decreto, anche se completamente artificiali. Si pensi alla questione dei generi, neutri e asterischi che, da qualche tempo, taluni (vedi qui) desiderano inserire nel sistema educativo e nell’uso corrente. Per cui sembra incredibile che le imposizioni linguistiche possano andar bene per una cosa, però non per un’altra.
RISPOSTA (B): Come si fa a dire che la lingua la fanno i parlanti quando la stragrande maggioranza degli pseudoanglicismi in Italia sono arrivati dall’alto, attraverso l’azione dei politici, enti pubblici e dei mezzi di comunicazione?
Davvero i successivi governi italiani hanno chiamato il Jobs Act, la stepchild adoption, il Cashback e il Cashless perché così si parlava nelle strade italiane? Davvero c’era clamore pubblico perché gli ospedali italiani iniziassero a dire day hospital, week surgery, breast cancer unit e screening? Manifestazioni popolari affinché Trenitalia ribattezzasse il capotreno train manager?
Qui non stiamo parlando del gergo adolescenziale semi spontaneo su TikTok e dei giochi multiplayer. Stiamo parlando del fatto che la stragrande maggioranza della valanga di anglicismi arrivati in Italia negli ultimi anni sono di un elitismo esasperante.
Quando vediamo le pubblicità traboccanti di anglicismi e le news e i titoli dei giornali italiani sempre più simili a un creolo nello stile del patois giamaicano o il pidgin africano, è chiaro che più che qualcosa filtra nel linguaggio comune. Ma dall’alto verso il basso, non il contrario, perché chi li ha escogitati sono pubblicitari, editori, redattori, giornalisti, consigli d’amministrazione (scusate, i Board – perché in itanglese of Directors viene sistematicamente troncato) e guru assortiti del narcisismo comunicativo.
Quando vedi le cosiddette influencer (a proposito, i francesi riescono a dire «l’influenceuse«) inzuppare con anglicismi i loro follower (a proposito, gli spagnoli riescono a dire «seguidores«), non è forse il termine stesso a spiegare che la direzione del fenomeno è dall’alto verso il basso e non il contrario?
Quando si vedono le Poste Italiane, Trenitalia o l’INPS infarcire le loro campagne e comunicazioni con anglicismi che confondono milioni di utenti, quando leggiamo sempre più titoli professionali imbevuti di narcisismo tra un Chief Executive Officer e un Talent & Learning Manager per consentire a chi comanda di giocare a sentirsi un executive di Sex & The City – quando vediamo tutto questo – è semplicemente assurdo dire che la lingua la fanno i parlanti.
11. Sì vabbè, però l’inglese è più breve e più comodo
RISPOSTA: Tra i tanti poteri soprannaturali che i devoti anglomani attribuiscono all’inglese ci sarebbe questa vera o presunta brevità. Anche quello è un argomento che fa acqua da tutte le parti e viene spesso sfoderato per nascondere impulsi narcisisti e il voler fare i fighi – senza rendersi conto del senso del ridicolo.
Sul punto. Innanzitutto, davvero uno parla misurando i nanosecondi di ogni parola? Qualcuno ci spiega come si fa? La misuri prima di parlare o sul momento? Usi un cronometro o conti nella testa?
E davvero misunderstanding è più rapido di malinteso? Babysitter di tata?
Qual è il nostro obiettivo, parlare nello stile di un telegramma?
In secondo luogo, chiaro che l’inglese è più breve se gli italiani troncano arbitrariamente le parole. La Spending Review, se togli Review e lasci Spending, come fanno gli anglomaniaci, per un nativo angloparlante non significa più nulla. Anzi, significa proprio il contrario del significato originale. Lo stesso vale per la Champions (League), il basket (ball), il Recovery (Fund), il Board (of Directors) e così via.
Poi ci sono le creazioni, quelle da zimbelli totali, come droplet, che sebbene in inglese esista e significhi gocciolina, da solo non esprime assolutamente l’intero concetto di «distanza di sicurezza» inspiegabilmente conferito dagli eccitabili itanglesi. Ed infatti in inglese quello si chiama social distancing o physical distance.
Insomma, chiaro che qualcosa è più breve se te la inventi, o la deformi, e poi le attribuisci facoltà illusorie.
Sulla presuntà comodità. Di nuovo, l’elitisimo qui è nauseante, dato che per decine di milioni di italiani dire drive through covid durante la pandemia, oppure upskilling, insight, waning ed employer branding non dev’essere esattamente una filastrocca.
Cosa ci sia di comodo per un utente che non ha studiato inglese, e che ha bisogno di tutta la chiarezza e l’empatia di questo mondo, nel trovarsi di fronte una lettera del Day Hospital Breast Unit di un ospedale italiano, suppongo rimarrà un mistero.
Un esempo tra mille è la confusione nella quale cadde il Presidente del Veneto Zaia quando si incasinò, nel 2020, tra la parola caregiver e l’immaginario cargiver. Da vergognarsi, altro che comodità.
12. Il termine inglese è più preciso e/o ha uno spettro semantico più ampio
RISPOSTA: Anche questo non è vero.
La verità è che la tendenza degli anglomani itanglesi è proprio quella di nascondersi dietro a termini realmente vaghi perché spesso usati male, in maniera incompleta e fuori contesto (si pensi al tenerissimo Question Time, che da una ventina d’anni a questa parte ha completamente sostituito «interrogazioni parlamentari»). Un qualsiasi italiano che non abbia una competenza eccezionale in inglese, troverà inevitabilmente un neologismo anglo come qualcosa dai confini semantici molto elastici. Che è esattamente quello che accade, ragione per la quale gli italiani spesso conferiscono significati surreali a parole inglesi, distruggendo due lingue al prezzo di una, ma eccitandosi da sudare le mani.
Di esempi ne esistono a decine e sono sintomi di ignoranza e provincialismo puri.
Uno è caregiver (già citato poco fa sul tema della sua improvvisa mutazione comica in cargiver).
Secondo molti anglomani, caregiver sarebbe molto più appropriato di «badante» perché più preciso e dunque necesario a spiegarne il concetto ai fini legislativi e contributivi. Lo è nella testa degli italiani, perché anche in inglese – se non specifichi con un aggettivo se si tratta di family or professional – la parola in questione da sola non specifica proprio nulla. Lo stesso in spagnolo, dove cuidador è accompagnato da profesional o familiar.
Il recentissimo waning, circa i vaccini, non aggiunge neanche un millimetro in più dell’equivalente italiano, affievolimento. È usato esclusivamente, per citare l’attore Giorgio Comaschi, «per fare gli sboroni«.
«Smart working» poi è delirante. L’anglomane medio si intruglia in disquisizioni secondo le quali, se dici “lavoro da casa”, e magari non è da “casa”, la cosa è imprecisa e non sia mai. “Smart working” invece significherebbe “in/da remoto”, “a distanza”, senza specificare se da casa, dal sottoscala o dal parco, per cui è bellissimo. La domanda che sorge spontanea è dunque: perché allora non dite “lavoro in/da remoto” o “a distanza”? La risposta non te la danno, perché sanno, dentro, che è un comportamento da provincialotto con pretese internescional, che pur di fare il figo, preferisce inventarsi di sana pianta un termine pseudoinglese ridicolo piuttosto che parlare in italiano. In Italia si è arrivati a questo livello.
Per chi ancora non lo sapesse, “smart working” non esiste in inglese, è un’invenzione totale, è itanglese puro, per cui siamo ancora una volta nell’ambito psicológico piuttosto che linguistico.
In ogni caso, si noti che questa devozione per la presunta «precisione semantica» è inversamente proporzionale alla dovuta cura verso la chiarezza di comunicazione, giacché milioni di italiani – e non italiani – non capiscono o sono proni a fraintendere lo pseudoinglese.
13. Badante è brutto, evoca cose brutte, tristi e vecchie. Per questo meglio caregiver.
RISPOSTA: Allora smettiamo di dire merda e chiamiamola shit, crap e poo, così ci illudiamo che profuma meglio.
14. I prestiti dall’inglese avvengono perché noi dall’inglese prendiamo i concetti. Politically correct è un termine che in italiano non esiste.
RISPOSTA: Ah sì? Non si può rendere in italiano?
Cioè quindi le traduzioni che esistono dai tempi della Bibbia che cosa erano?
A che livelli riesce ad arrivare il complesso d’inferiorità culturale degli italiani?
Perché questa logica potrebbe andar bene per internet o software, ma applicata al 99% degli (pseudo)anglicismi oggi in voga in Italia, è veramente pazzesca. Dunque, secondo tali sociolinguisti, non esisterebbe il concetto di richiamo della vaccinazione (booster), l’affievolimento della stessa (waning), il tappeto rosso (red carpet), il dietro le quinte (backstage) il direttore (manager), il capotreno (train manager), le notizie (news), il trucco (make up), la moda (fescion), cibi e vini (food & wine) e tutto il resto. Persino i bidoni della spazzatura a Mantova ora si chiamano «city bin«. Dove la buttavano prima l’immondizia i mantovani?
L’unico risultato è che sempre più termini italiani si incamminano sul viale del tramonto. Sempre di meno ormai si sentono: dichiararsi (coming out), marca (brand), verde (green), squadra (team), accettazione (check in), montaggio (editing), cineoperatore (filmmaker), gruppo (band), le compere (shopping), animale domestico (pet), fasi salienti (highlights), dal vivo (live), ecc.
15. L’inglese è la lingua franca. È bene che gli italiani usino tante parole inglesi così finalmente imparano.
RISPOSTA: Viva le lingue, tutte, ma non gli intrugli pacchiani, confusi e provinciali. Le lingue si parlano quante più possibili, e il meglio possibile, ma le lingue si parlano una alla volta. Non si mischiano. Gli svedesi sono notoriamente campioni mondiali dell’inglese. Guardate i loro giornali. Comparateli con le prime pagine in creolo di Repubblica, Huff Post Italia, il Foglio, la Stampa. Gli anglicismi sono quasi inesistenti.
E mostri linguistici itangloidi come la pagliacciata del daily tampon, del drive-in covid, del droplet, del Recovery e lo smart working ti renderanno incomprensibile non solo a milioni di italiani, ma anche – facendo una figura da zimbelli – ad un pubblico internazionale (guarda qui).
16. La difesa della lingua è un sintomo di autarchia e di fascismo.
RISPOSTA: Quindi la Francia, la Spagna, la Germania, la Catalonia, i Paesi Baschi, l’Irlanda, il Canada, il Galles dove esistono politiche (di spettro e di tipo diverso, ovviamente) di difesa della lingua sono tutti Paesi fascisti, autarchici e cattivi.
Seriamente, non si dovrebbe banalizzare la distruzione e il dolore che ha portato il fascismo nella storia mischiandolo con situazioni con cui nulla ha a che vedere.
Difendere una parte integrale della storia, della cultura, e del proprio patrimonio, la lingua appunto, non ha nulla a che vedere con il fascismo. Gli italiani hanno manifestato e protestato a tutti i livelli, nel passato recente, per preservare le proprie mozzarelle, il prosecco e la pizza, tra tante altre cose. Nessuno si sognerebbe di associare tali proteste al fascismo. Si difende, appunto, l’importanza di patrimoni storici nazionali.
Iniziare a parlare e a scrivere in creolo, come se l’Italia fosse una ex colonia come il Bangladesh, la Nigeria o Belize, non è la nostra idea di antifascismo, sinceramente, né è il permettere con totale ignavia che milioni di utenti di servizi pubblici, di ospedali, delle poste, dell’INPS, delle telecomunicazioni, restino tagliati fuori da una comunicazione chiara e semplice, che o vengano addirittura confusi o fatti sentire in difetto.
Ancora meno antifascista è l’avallare che contratti di lavoro in Italia, con clausule tecniche e informazioni fondamentali per la tutela dei lavoratori, vengano sempre di più firmati – come sta avvenendo – in una lingua che non tutti conoscono alla perfezione.
E per finire, che alle già presenti disuguaglianze si aggiunga quella attraverso la quale famiglie abbienti e con i mezzi necessari consentano ai loro figli di ottenere una buona padronanza dell’inglese, aumentando il divario (anzi, il gap) con chi non se lo possa permettere, non sa tanto di progressista. La battaglia per una comunicazione chiara e trasparente dovrebbe essere appoggiata da tutti, destra, sinistra, centro, nord, sud, est e ovest. Altro che fascismo.
17. «Lasciateci parlare come cazzo ci pare» (vedi qui)
RISPOSTA: Questa, diffusa dallo scrittore Andrea Donaera, che ne fa una questione di figata anagrafica (anche se per lui fuori tempo massimo) tra sghignazzate disdegnose verso i boomer e una strizzata d’occhio ai Millenial e alla Gen-Z, è davvero, come si dice, «terra terra», anzi trash, così giochiamo a fare i fighetti tristi di mezz’età anche noi.
Lasciamo da parte la patetica contraddizione del fatto che, come sottolineato dallo scrittore Walter Siti, «è curioso che i sostenitori della libertà di scrivere e parlare siano così rigidi nel condannare certe parole» (in referenza all’ossessione sempre più frequente dello stesso Donaera verso la presenza di generi nella lingua italiana).
Lasciamo perdere il chiedersi di cosa si lamenti Donaera, dato gli italiani sono arrivati a coniare orrori linguistici quali «daily tampon» e «school shooting» senza senso del ridicolo, per cui più «cazzo ci pare» di così non si può.
Il punto è questa ossessione specchio dell’epoca narcisa per l’io, il me, il cazzo che ci pare. Tutti gli altri? Non ce ne frega nulla.
Anzi, le persone di una certa età? Liquidiamole con un dispregiativo boomer. Che ce ne frega del loro diritto a capire, nel Paese dove hanno pagato le tasse da una vita, le informazioni più semplici senza dover camminare con il dizionario italiano-inglese-itanglese in mano? Eppure, per chi non ha avuto la fortuna di avere il viaggio/studio a Brighton o la scuola di lingue pagata da mammà e papà, spesso l’inglese è una lingua aliena allo stesso livello di quanto siano il polacco o l’ungherese per il 99,999% dei cittadini italiani. Empatia, questa sconosciuta.
18. Una lingua franca è la migliore soluzione alle barriere tra i popoli.
RISPOSTA: Sicuro che è quella la ragione per la quale ormai anche l’Aeroporto di Torino è diventato Turin Airport? E sicuro che i miscugli alla smart working e no paura day abbattono barriere? Vorresti vedere la faccia di uno statunitense quando gli dici che in Italia School Shooting è patrocinato dal Ministero dell’Istruzione? O che ti devi fare un daily tampon? Davvero è questa la maniera di farsi capire con gente di altre lingue e culture? E, senso del ridicolo a parte (o mancanza dello stesso), davvero persone così apparentemente sensibili alle «barriere» non si rendono conto di quanto l’omogeneità linguistica sia strettamente collegata all’omogeneità culturale? Proprio loro?
19. L’italiano sopravviverà a tutto.
RISPOSTA: Probabilmente, ma sarà ridotto a un creolo stile ex-colonia o, nella migliore delle ipotesi, a un vernacolo utile per chiedere se il sugo è pronto e se la nonna si è ripresa dalla bronchite. Nel 2019, il Sole 24 Ore pubblicò un articolo secondo cui il numero dei corsi la cui didattica è interamente nella lingua di Albione era arrivato a quota 440 in 55 atenei in rispetto ai 351 del 2018/19 e ai 339 del 2017/18. Il punto di partenza fu un caso quasi isolato nel 2012, quello del Politecnico di Milano, la cui decisione di optare per l’inglese fece tanto scalpore da attirare l’attenzione della stampa internazionale (vedi foto sotto).
Di questo passo, nel giro di una generazione o due, gli italiani non sapranno esprimere nulla che sia più tecnico, accademico e scientifico nella loro lingua nativa, altro che «l’italiano si sta arricchendo».
20. Bisogna attirare un pubblico internazionale.
RISPOSTA: Peccato che 9 volte su 10 l’itanglese usato sia per descrizioni di eventi, concorsi, festival e convegni (i talk, sai com’è) tutti tra italiani, per un pubblico italiano, dove chi parla (gli speaker, sai com’è) è italiano. Magari in un paesino dell’entroterra marchigiano, o della Calabria. E in ogni caso, anche se non fosse, allora perché i miscugli? Non è che uno straniero capisca di più se vede un manifesto con una spruzzata di parole pseudo inglesi. E dove sta scritto che anche nel caso in cui partecipino uno, due, quattro stranieri (i quali non necessariamente parlano inglese o lo parlano bene) bisogna alienare i 96, 97, 98 presenti italiani su 100? È una logica assurdamente servile e provinciale.
Siamo sicuri che pubblicando manifesti con «Visit Sicily«, invece di «Visita la Sicilia» si guadagnino turisti? E che il «Festival della Birra di Cisternino» avrà successo solo se lo chiami «Cisternino Beer Festival«? Davvero la comitiva di tedeschi non partecipa a un concorso fotografico romano se non lo pubblicizzi con un manifesto che è metà in italiano e metà in inglese sbilenco? Sicuro che se fai il capo magazziniere a Cenate Sopra e non scrivi che sei il Warehouse Managing Director mentre spedisci un messaggio al baker di Lallio l’impresa chiude?
Nel frattempo, sono sempre di più i turisti stranieri, o gli stranieri amanti dell’Italia, che si chiedono con tristezza perchè sempre meno insegne, cartelli, informazioni, pubblicità figurino in italiano. «Che peccato, una lingua così bella…Che triste vedere tutto uniformato in inglese». Se solo gli italiani cogliessero il valore commerciale della lingua italiana.
Concludo con un pensiero. Per quanto sia anneddotico, c’è una cosa che mi disse anni fa un mio ex direttore (manager, sai com’è) in Gran Bretagna: «A me piacciono molto i vini italiani, ma se vedo l’etichetta in inglese non li compro. È tutta l’esperienza che conta, il sapore, ma anche la parte visuale. Se decido di comprarlo deve sapere d’autentico in tutto».
Mi restò impresso nella memoria.