
Hai notato qualcosa di strano nella lingua italiana degli ultimi anni? Sei perplesso circa il fatto che l’italiano sembri aver smesso di evolversi, di adattare e di creare neologismi propri, appassendosi sempre più rapidamente ed appiattendosi nello stile di un creolo confuso e spesso incomprensibile? Ti preoccupa l’attuale tendenza provincialpacchiana di infarcire – senza motivo – frasi con termini (pseudo)inglesi? Ti infastidisce vedere questo fenomeno, in tali proporzioni, unicamente in Italia (a parte, forse, le ex colonie angloparlanti)?
Non sei l’unica persona. E sono sempre di più coloro non sopportano l’idea di vedere uno dei patrimoni storici e culturali più importanti d’Italia, la lingua italiana, disintegrarsi dal vivo (anzi, live) davanti ai propri occhi.
Come se la facciata del Colosseo venisse restaurata nello stile dello Juventus Stadium (o come si chiama questa settimana) nel nome della modernità. Come se la Basilica di San Pietro venisse per metà ricostruita nello stile del Grattacielo Pirelli.
È vero, le lingue si evolvono, da sempre. Tutte le lingue.
Però le lingue muoiono pure, da sempre, e quando ce ne si accorge, è spesso troppo tardi.
Se va bene, si convertono in un creolo, come il patois giamaicano (dove, con qualche secolo di ritardo, è iniziata la battaglia per recuperare lo status di «lingua») o il chavacano delle Filippine. O magari in una specie di sublingua imbalsamata, come il gaelico nell’Éire, relegata agli anziani e ai paesini più sperduti, e protetta – in teoria – da una legge burocratica e tardiva, come un animale in via d’estinzione.
Guarda di nuovo l’immagine della portata de la Repubblica. Davvero ti va bene vedere la lingua italiana ridotta così?
