La questione non è che ci sarebbe bisogno di condannare o abiurare la rapida creolizzazione / ibridizzazione dell’italiano. Perché ad alcuni potrebbe persino, legittimamente, piacere. Quello che è davvero stupefacente è come si possa sonnecchiare e far finta che non stia succedendo nulla (al limite della negligenza professionale) di fronte a un fenomeno di dimensioni titaniche.
Per esempio, verrebbe voglia di chiedere alla classe linguistica italiana da quanto tempo è che non danno uno sguardo alle inserzioni di lavoro in Italia o al modo di comunicare di una qualsiasi azienda italiana. Perché sono in atto due fenomeni dalla portata gigantesca, e non saranno né la solita e superficialissima reductio ad absurdum con le mani nelle orecchie del tipo «e che dobbiamo fare tradurre dire pellicola invece di film?», né gli iperbolici riferimenti al «ventennio» a far andar via la realtà.
Per primo, si noti la vera e propria abdicazione della lingua italiana dalle definizioni dei ruoli aziendali e mansioni. Parliamo di proporzioni assurde lungo una scala temporale rapidissima. Nel giro di vent’anni sono sempre di meno (e sempre più una sparuta minoranza) lavori e professioni definiti in italiano – attenzione – in TUTTI i settori, non soltanto l’informatica IT. E prima che si innesti il solito meccanismo di diniego, no, non ci riferiamo solo a multinazionali che operano in Italia. Succede a tutti i livelli, dall’ hairstylist (parrucchiere) al barman (barista, quest’ultimo paradossalmente in ascesa nel mondo anglosassone ), dal CEO (Direttore responsabile o Presidente) al accountant (ragioniere), e dal train manager (capotreno) all’editor (redattore), alla shop assistant (commessa), al rider (versione in inglese farlocco di fattorino/garzone), o al Press Office Manager (capo ufficio stampa), per non parlare dello pseudoinglese del Board (con tanto di «of Directors» sistematicamente troncato), ovvero il consiglio d’amministrazione, e dell’onnipresente HR invece di risorse umane. L’immagine qui sotto è presa da una agenzia italiana, per ruoli in Italia, in imprese italiane. Potete contare le parole in italiano su una mano.
Si deduce la presenza di un elemento paralinguistico. La lingua superiore, quella che agli italiani fa eccitare anche se non la capiscono, compie la funzione di nobilitare le professioni, di darle un tocco in più, perfettamente in linea con l’era del narcisismo con gli steroidi di cui facciamo parte. Resta la sensazione, vista da fuori (chi vi scrive non vive in Italia), che gli italiani si vergognino di chiamare le cose con il proprio nome, nella propria lingua, anche se stanno parlando tra loro stessi.
Tale anglocosmesi non si riferisce semplicemente al nome delle professioni. E qui veniamo al secondo punto: gli annunci o offerte di lavoro, sempre più saturate di (pseudo)anglicismi, in alcuni casi rasentando l’autoparodia.
Il lettore che abbia un po’ di dimestichezza con la rete sociale LinkedIn (o con qualsiasi sito o agenzia con offerte di lavoro), avrà visto come la lingua italiana stia fungendo sempre di più da «contenitore» per concetti chiave espressi inevitabilmente in (pseudo)inglese. E non si tratta affatto di tecnicismi. Termini perfettamente validi quali selezione, reclutamento, progettazione, quartier generale, rete, specialista, ingegnere, assistente, direttore, seguito, filiale, formazione, libropaga, dettaglio e centinaia d’altri, sono in fase di sostituzione, di rapidissima ritirata, lasciando il campo a un uragano di (con maiuscole spesso buttate lì a casaccio) talent acquisition, specialist, headquarters, engineer, retail, assistant, project manager, branch director, network, content creator, upskilling, engagement, payroll e così via.
Ora, come sempre non si può negare la portata globale del fenomeno. Negli stessi Paesi anglosassoni si nota sempre di più la correlazione interessantissima tra caduta libera delle condizioni di lavoro (con relativo aumento di precarietà) e simultaneo mutamento delle denominazioni di ruoli e settori professionali: un elemento, appunto, di «cosmesi» secondo il quale recruitment ora si dice Talent Acquisition, un semplice secretary diventa Assistant Director, un receptionist si converte in Office Manager, e vari schiavi o semitali assumono il ruolo altisonante di HRBP (Human Resources Business Partner), VP di qualcuno o qualcosa, per non parlare dei vari Visiting Professor, SDR, Sales Reps, Customer Service Assistant, e così via. Professioni da nomi pomposi accompagnati da una realtà molto più deludente (e sempre più precaria). In pratica, la normalizzazione di eufemismi professionali, spesso effettuata a colpi d’acronimo, e a cui tutti (imprese concorrenti e lavoratori) si adeguano rapidamente, terrorizzati dalla possibilità di apparire obsoleti, ovvero uncool – cosa che nel mondo anglosassone è considerata peggio del fuoco degli inferi, da veri e propri reietti umani.
Ciò che distingue l’Italia è che la corsa alla cosmesi e alla comunicazione ingannevole dentro il mondo aziendale sta avvenendo in un’altra lingua, in (pseudo)inglese, rendendo il distacco tra realtà e finzione ancora più sorprendente e surreale. Se il problema fosse solamente l’assenza di senso del ridicolo, non staremmo qui a perdere tempo. La sostanza è che quasi a nessuno gliene frega del fatto che ampie fasce della lingua italiana – e dunque della cultura italiana – si stanno beccando randellate così forti e continue da condannare centinaia di termini all’obsolescenza quasi immediata, escludendo nel contempo dalla comunicazione milioni di italiani.
L’immagine qui sotto mostra l’irruzione di intere locuzioni inglesi o pseudoinglesi nella comunicazione, un goffo minestrone non solamente dalle sfumature comiche o addirittura deliranti, ma spesso anche di difficile comprensione anche per persone con conoscenza dell’inglese madrelingua o bilingue. Alla faccia dell’inclusione. #Cosìmuoreunalingua
*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 17 anni.
Come si fa a parlare di arricchimento linguistico mentre si moltiplica il numero di termini italiani in disuso e l’intaccamento sintattico inizia a vedersi dappertutto? AUTORE: Peter Doubt*
Abbiamo già espresso alla nausea la nostra incredulità di fronte ai numerosi e titolatissimi linguisti, sociolinguisti, terminologi, e accademici italiani completamente insensibili (se va bene) o conniventi (se va male) nei confronti del cambio attualmente in atto nella lingua italiana. Secondo alcuni, 1) la valanga di (pseudo)anglismi consiste in un «arricchimento linguistico» dato che 2) molti di questi anglismi si utilizzerebbero come «sinonimi«, specie se visti dentro una varietà di contesti.
E già qui, con la storia dei «sinonimi», dovremmo fermarci un attimo. Sinonimi sono parole «di una lingua» che hanno un «significato fondamentalmente uguale» (Treccani). Nella stessa lingua, sottolinea Collins, sotto la definizione di synonym. Se dico «faccia», «volto» ne è un sinonimo. Face non lo è. È una traduzione, equivalente, o versione in inglese, né più né meno di cara in spagnolo, Gesicht in tedesco, o visage in francese. Se face inizia ad essere visto come un sinonimo in italiano, insieme a 10,000 altre parole di sapore anglo negli ambiti più vari, vuol dire che qualcosa sta avvenendo, per quanto si ripetano a memoria i «meme» delle leggi fallite fascionarcisiste di 90 anni fa per far finta di nulla, celare le proprie stesse vanità, o deflettere con strategie di puro spostamento psicologico.
Dunque diamo uno sguardo al paradosso dell’italiano che si starebbe «arricchendo» mentre sempre più termini scompaiono, entrano in disuso, o imboccano il viale del tramonto grazie ai loro nuovi «sinonimi».
Abbiamo già illustrato qui come l’irruzione di match e big match nel vocabolario italiano abbiano reso obsoleti nel giro di 10/15 anni i termini incontro e partitissima. Abbiamo spiegato, con numeri alla mano, i casi di termini angloidi (fare shopping, Business School, i farlocchi rider, question time, location) il cui effetto è stato quello di neutralizzare o schiacciare quelli che erano, direttamente, i suoi equivalenti diretti in italiano oppure, indirettamente, altri sinonimi o derivazioni italiane. Rimanendo sul tema delle partite, fino a pochi anni fa, il grande pubblico italiano avrebbe assorbito da stampa e televisioni termini quali incontro, contesa e duello. Magari, addirittura tenzóne. A chi vi scrive rimase impressa quella parola di sapore classico proprio quando la ascoltò, per la prima (e forse ultima) volta, da Bruno Pizzul durante una telecronaca calcistica a metà anni 80. Oggi, l’effetto cannibalizzante di match su «partita» è minimo, ma non lo è purtroppo sui vari sinonimi italiani ed elementi linguistici correlati. Diventa moribonda partita di cartello, entra in disuso partitissima, si sente sempre di meno incontro. Si arricchisce il creolo, s’impoverisce l’italiano.
Certo, gli esempi sportivi sarebbero dozzine. Le palestre del Bel Paese relegano la lingua italiana ormai a preposizioni e articoli. E, fino a pochi anni fa, highlights era quasi completamente sconosciuto. Si usavano espressioni quali fasi salienti, il meglio di, i momenti chiave. Guardate come si è invertita la tendenza. Negli ultimi due anni, fasi salienti è quasi morto, divorato appunto da highlights, che nel frattempo si è più che centuplicato, sul serio, in 20 anni. Diapositiva è un altro caso interessante. L’angloinvasato con gli occhi vitrei vi dirà che «è chiaro che diapositiva doveva sparire, perché si riferisce all’analogico», mentre slide è del secolo XXI, quindi rende meglio l’idea. Peccato però che proprio slide fosse la parola che si usasse in Gran Bretagna ai vecchi tempi per dire diapositive. Con l’arrivo del digitale, i Paesi anglosassoni non hanno ritenuto che bisognasse creare una parola nuova, e dunque hanno continuato a dire slide. Anche gli spagnoli hanno continuato ad usare diapositiva. Gli italiani, invece, hanno rapidamente buttato via la loro parola e hanno preso a piene mani quella anglo. Guardate i numeri dell’archivio elettronico di La Repubblica. Esempio più chiaro di così per descrivere una lingua malata non si può. .
Nel frattempo, l’onnipresente live si sta nutrendo sempre di più di diretta, dal vivo, e concerto. Tre contesti al prezzo di uno.
Ed è spettacolare vedere la prepotenza con la quale fake news, sconosciuto fino al 2010, abbia quasi completamente sostituito bufale (a proposito, ma l’inglese non era più comodo perché più breve?), mentre la polvere inizia lentamente a posarsi anche su menzogne, manipolazioni e disinformazioni, e la parola fake è ormai la prima scelta anche nel contesto di falso o contraffatto.
Chi è lo sfigato che dice ancora compere o andare a fare le compere? Si dice [fare] shopping, con la shopping list, magari per andare all’outlet, al discount e in cerca del low cost condito con sale (ma non nel senso del solido cristallino incolore) a destra e a sinistra. Occasioni, basso costo e sconti iniziano a mostrare i primi scricchiolii. Nel frattempo gli acuti linguisti italiani continuano a credere che il problema sia che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film?
Ancora più impressionante è il fatto che gli eventi ormai in Italia si debbano dire per forza in anglo. Giornata, con la maiuscola, non si dice quasi più. Qualche anno fa iniziò ad essere affiancata da Day, per poi esserne cannibalizzata, ed ecco oggi il dominio assoluto di Family Day, Pride Day, No Green Pass Day, CV Day, No Paura Day, Singles Day, Rivoluzione Day, Bi(-)Visibility Day, Sport Ability Day, il World Pasta Day (voluto dall’Unione Italiana Food, sia chiaro), addirittura il Provincia Day, qualsiasi cosa. A destra e a sinistra, anche in senso politico. Comincia persino a farsi strada Boxing Day per parlare del 26 Dicembre.
Come avrà fatto Gheno a perdersi non solo la cascata continua di [Nome dell’Evento] Day e la marea crescente degli Open Day (la versione 2.0 del moribondo «Giornata di porte aperte»), ma anche gli innumerevoli Week (Milano Fashion Week, Genova Smart Week, Bologna Design Week, South Italy Fashion Week, Milano Digital Week, Milan Games Week, sono centinaia) che, alla faccia delle strutture sintattiche, cancellano tutte le preposizioni articolate (della/del/dell’) che si sarebbero usate prima.
E se gli attenti linguisti volessero ribattere che «vabbè ma sono contesti specifici», dovrebbero farsi un giro tra gli ospedali italiani, perché anche lì Day and Week li troviamo alla grande e li troviamo di traverso alle norme sintattiche dell’italiano.
Lo stesso avviene sempre di più con i Festival: Bra Cheese Festival (ridicolo, per un anglofono, ed esempio di come la smania di parlare e scrivere così abbia multipli effetti collaterali), i vari [Nome della Città] Summer Festival, Nicasi Beer Festival, Pinewood Festival, Pigneto Film Festival, TodaysFestival, Ortigia Sound System Festival, Wood Sound Festival. Sono di tutti i tipi, e potremmo continuare fino a domani.
Gheno, e non solo lei, non lo notano, ma – sostituzione sistematica di vocaboli a parte – la stessa ibridazione sintattica continua imperterrita nel mondo dei premi e dei riconoscimenti. Un tempo in Italia esisteva il premio nazionale per il miglior maestro o professore dall’ingegnoso nome «Cuore d’Oro». Oggi c’è l’Italian Teacher Award, a cui si affiancano – sia chiaro, tutti al 100% in ambito NAZIONALE – Italian Tech Award, il Nation Award, l’Italia Sport Award, il Tuttonapoli Award, l’Urban Award. A proposito di quest’ultimo, chissà se leggendone il comunicato stampa del Comune di Genova, completo di bike-to-work e bike-to-school, Gheno (e non solo lei) direbbe che «non va ad intaccare le strutture sintattiche dell’italiano».
Però così va l’Italia, e chissà se i nostri amati linguisti si sono persi anche l’arrivo di must-have che, con la sua ingombranza lessicale e sintattica, sta dando ceffoni che la metà basta al sempre più desueto da non perdere. L’immagine qui sotto è di Poste Italiane, quelle che amano tanto la comunicazione cristallina da usare lo pseudo anglicismo reverse paperless e poi, tra tanti altri, postepay, delivery express e delivery globe, i quali hanno ufficialmente sostituito spedizione nella loro letteratura corporativa.
Gli «intaccamenti» sintattici sono ormai ovunque, e lo sono già da un bel po’. Chissà se Gheno si è accorta del suffisso anglo -free, ormai presente ovunque (sugar-free, covid-free, plastic-free, fat-free, ecc.).
Esempi ancora più assurdi li vediamo, sempre più numerosi, negli ospedali italiani, da Roma a Foggia, da Ravenna a Palermo, da Genova a Milano. Esempi di come il narcisismo linguistico prenda il sopravvento persino sulla semplice chiarezza e sul diritto alla comprensione del 100% dell’utenza pubblica- diritto sancito per legge in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Spagna. I cartelli con la parola senologia vengono smontati e interi reparti rinominati Breast Unit. E lo stesso avviene con Skin Cancer Unit, Stroke Unit, e con l’irruzione di – tra molti altri – hospice, screening, checkpoint, e triage (francesismo che è entrato attraverso la via anglo per mandare all’oblio accettazione).
L’angloinvasato di turno vi dirà che i reparti vengono ribattezzati in inglese proprio per aiutare gli stranieri, come no. E, dicendo così, fa finta di ignorare che la stragrande maggioranza dei recenti immigrati in Italia non sono anglofoni, per non parlare delle decine di milioni di italiani che non conoscono l’inglese (magari i più anziani). Un concetto di empatia molto peculiare.
Ma torniamo alla malattia linguistica in atto.
Anche quando si cerca di coniare un neologismo in italiano, si noti come la versione in inglese, seppure farlocco, vinca. Abbiamo cercato negli archivi de la Repubblica quante volte Certificato Verde, Certificazione Verde, Certificato Covid siano apparsi negli ultimi due anni. Poi abbiamo contato Green Pass (che non si usa nei Paesi anglosassoni, dove si dice Covid Certificate o Covid Passport). Ecco i risultati:
E che dire di set, nel senso di insieme, serie, gruppo, a seconda dei casi, che si è convertito, come kit, in una di quelle sostituzioni pigrissime che si mangiano tutte le sfumature, depauperando il linguaggio?
Oppure di empowerment, che da qualche hanno si infila dappertutto a scapito dello sfigatissimo emancipazione? Un recentissimo articolo pubblicato da entrambi La Stampa e La Repubblica, dal titolo «Dieci libri per l’empowerment (femminile, ma non solo) […]» fa particolarmente colpo. Da un lato, perché l’autrice citava il dizionario Garzanti per definire empowerment (“Processo di riconquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire”), operando una sostituzione pura mentre la traduzione ce l’aveva a portata di mano con emancipazione (e forse, ancora di più, affrancamento). Dall’altro, perché l’articolo snocciolava anglismi inutili nello stile purtroppo quasi istintivo del «giornalismo» italiano di oggi. Revenge porn, catcalling, victim blaming, fat-shaming, tutti recitati con quella casualità e quell’autocompiacimento che, grazie specialmente alla classe politica e giornalistica, stanno rendendo gli italiani sempre più incapaci di articolare concetti nella propria lingua. In altre parole, questa crescente dipendenza, quasi di tipo narcotico, che gli italiani stanno sviluppando verso gli anglicismi sembra minare la capacità di tessere, di sviluppare, di produrre argomenti senza, ricorrere ogni 10 secondi, per citare Antonio Zoppetti di Diciamolo in italiano, alla «stampella dell’inglese».
Guardate come l’irruzione di catcalling negli ultimi due anni sia coincisa con il declino di importunare e la scomparsa definitiva di pappagallismo. Un’altro è roadmap, che sembra aver soppiantato concetti come percorso e itinerario (in senso metaforico, cioè quando riferiti a progetti e obiettivi).
Nel nostro precedente articolo avevamo parlato della scomparsa quasi improvvisa di interrogazioni parlamentari a beneficio di question time, più o meno a partire dal 2010. Adesso guardate gli effetti di come, nel giro di un (1) anno, l’adozione a livello legislativo dell’americanismo caregiver a scapito del suo equivalente italiano (letteralmente indicato tra parentesi nella legge) abbia ufficializzato la secondarietà di badante, destinandolo all’oblio e decretando la fine dell’altro possibile sinonimo italiano, assistente familiare. Gli effetti sono già visibili. Ne prendano nota gli illusi de «la lingua la fanno i parlanti«, inspiegabilmente intorpiditi davanti all’ovvietà dell’immenso peso esercitato, a livello linguistico, delle istituzioni e degli enti pubblici.
Che poi sono le stesse istituzioni che, negli ultimi cinque anni, hanno ufficializzato la sostituzione della parola squadra a vantaggio di team per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi, ignari di quanto sia ridicolo davanti agli occhi del mondo un Paese non anglosassone che scimmiotta – in un ibrido sintattico inspiegabile e senza alcun motivo – una lingua non propria, come dei teneri copioni da quinta elementare. Signori e signore, l’Italia Olympic Team.
Fa male riconoscerlo, ma questo articolo potrebbe andare avanti all’infinito con esempi relativi a tutti gli ambiti. E non abbiamo neanche toccato il mondo del fashion & beauty, del tech, delle start up, delle celebrity, dei reality, dello showbiz e delle influencer, o il mondo del food. Non abbiamo toccato il mondo delle professioni, dove ormai anche commesso lascia spazio a Shop Assistant e sono tutti, con le maiuscole, Visual Merchandiser, Chief Sales Officer, Team Manager, Head of Talent Acquisition & Sales, Copywriter, Assistant Editor, Programme Manager, CEO. Quante parole ed espressioni ci sono che – se già ora relegate ai ricordi di un over 40 (intaccamento sintattico) – non hanno alcuna possibilità di sopravvivere tra quelli che sono gli adolescenti e i bambini italiani di oggi (vedi qui)?
Compilare una raccolta esaustiva dei tantissimi termini italiani sulla via del tramonto è impresa quasi impossibile. È una via sempre più affollata e la causa è sempre la stessa, l’anglorimbambimento delle istituzioni, dei media, e dei pubblicitari italiani del secolo XXI. Rimandiamo i nostri lettori alla rubrica PAROLE IN DECLINO a cura di Giacomo M. Valentini, che seppur non completa, rende benissimo l’idea.
E lascio a lui, Giacomo, la conclusione:
«Non c’è più la ricerca di sinonimi, di sfumature e di cultura. La lingua italiana di oggi è una lingua banalizzata, stereotipata, dove non c’è più bisogno di usare vocaboli più ricercati – in italiano – perché esiste sempre il ricorso all’angloamericano che tutto risolve, anche quando usato con significati diversi dalla lingua d’origine«.
*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.
«Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso». AUTORE: Giovanni Bruni
Per una serie di circostanze fortuite, mi sono imbattuto in due manifestazioni del pensiero sul linguaggio: una inconsapevole, l’altra ben meditata; perfettamente contrapposte e quindi l’una causa dell’altra.
Gli annunci di lavoro sono un interessante laboratorio linguistico. Un individuo, che spesso par non sapere nulla della posizione organizzativa di lavoro al fine di coprir la quale cerca candidati, ambisce a fornire un quadro suggestivo e attraente del ruolo cercato. Deve farlo in poche righe di testo e, a giudicare dal risultato, la chiarezza e la precisione non sembrano requisiti essenziali: si oscilla tra il comico e il grottesco. La vittima principale di questo sovrumano sforzo creativo è proprio il linguaggio. Ecco un esempio freschissimo, uno tra i tantissimi possibili:
Chi non vorrebbe essere ‘adibito all’hunting di clienti energivori’? Armato della propria insalata verbale schizofrenica, l’autore non fa prigionieri: inglesismi assurdi, tautologie topologiche, ostentazione di abbreviazioni e acronimi, aggettivi e verbi inesistenti o di derivazione informatica, punteggiatura lacunosa e perfino un sublime ‘e,’.
Potrebbe bastare, ma c’è una chicca finale: tra i motivi che inducono il solerte selezionatore (magari anche autore dell’annuncio) a cestinare immediatamente un curriculum vitae, qual è di gran lunga il principale?
Ovvero, per essere ancora più chiari: Lo immaginiamo così: armato di penna rossa, subissato da quelli che si ostina a chiamare curricula perché non sa che in italiano il plurale dei termini stranieri si rende sempre e solo usando il numero dell’articolo che li precede, il Nostro si fa carico del gravoso compito di impedire che qualcuno vada a far danno in azienda con la propria ortografia zoppicante o, peggio, con la trascuratezza di colui che non rilegge quanto ha scritto.
Se ne deve dedurre che chi pubblica certi annunci di lavoro li ha perfino riletti?
La degenerazione del linguaggio è un indicatore preciso. Lo è come le parole di Gianrico Carofiglio, che, precedute da quelle perfette di Primo Levi, la precisione personificata, rispecchiano il mio pensiero:
Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. (Primo Levi, Dello scrivere oscuro)
Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è un lusso da intellettuali o una questione accademica. È un dovere cruciale dell’etica civile. “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza”. Sono parole del filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali. Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso. L’antidoto è la scrittura civile, cioè quella limpida e democratica, rispettosa delle parole e delle idee. Scrivere bene, in ogni campo, ha un’attinenza diretta con la qualità del ragionamento e del pensiero. Implica chiarezza di idee da parte di chi scrive e produce in chi legge una percezione di onestà. (…) Ciascuno di noi dovrebbe prestare una cura disciplinata della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello (apparentemente) passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo. Anche perché solo parole che rispettino i concetti, le cose, i fatti possono rispettare la verità.