11 supercazzole itanglesi

La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita

Recentemente un membro della Campagna per Salvare l’italiano faceva notare che «La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita». Eccovene alcune:

1) Sí, ma la parola italiana è cacofonica, in inglese suona meglio.
Questo l’ha detto un angloinvasato giustificando l’uso sempre più smodato (nonché escludente e discriminatorio) di cartelli per denominare certi reparti ospedalieri come STROKE UNIT o BREAST UNIT.
Cioé, avete capito. Cacofonico sarebbe utilizzare parole come «senologia» o «reparto» e non stroke, breast o unit, che tra l’altro milioni di italiani non saprebbero pronunciare o riconoscere per bene.
Senza contare la pochezza mentale, narcisismo ed egocentrismo di chi, dall’alto [presunto] del suo giocare a fare l’internescional fornisce patenti di cacofonia a parole italiane perfettamente usate ed utilizzabili.

2) Sí, ma standing ovation non è proprio lo stesso di ovazione
Perfetto esempio del non-è-proprismo tipicamente italiota, per citare Antonio Zoppetti.
Quando vogliono loro gli angloinvasati alla precisione scientifica ci tengono. Poi però magari parlano di «droplet», a cazzo.

3) Sí, ma è chiaro che ci sono tante parole inglesi, le invenzioni, il digitale e la tecnologia, no?
Ebbè, chiaro. E allora non facciamo prima ad abolirle le traduzioni?
Del resto, se così fosse, invece di dire lampadina gli italiani direbbero lightbulb. Invece di automobile, motorwagen (dal tedesco Carl Benz). E così via con antibiotics, le réfrigérateur, fregasuelos, telephone, wagonways e microwave.
Eppure no, perché quando quelle invenzioni ebbero luogo, la lingua italiana era ancora viva, elastica, capace di adattare, riadattare ed evolversi. Al contrario di oggi, rattrappita, che non adatta e non si evolve, ma scopiazza, sostituisce e prende in prestito, anche se male.

4) Sí, ma fanno tutti così, anche negli altri Paesi
No, non è vero. Dirlo è, se va bene, da ignoranti con scarsa capacità d’osservazione e, se va male, intellettualmente disonesto. A parte il semplice visitare e vivere fuori dall’Italia, ci sono TONNELLATE di esempi che indicano il contrario, e lo indicano alla grande. Guardate la nostra analisi comparativa dei quotidiani europei, ma anche questo, questo, e – più recentemente, il trattamento riservato alla lingua italiana, unica ad essere sostituita in copertina tra le edizioni europee del libro di Harry Windsor. L’abuso di [pseudo]inglese nell’Italia di oggi è solamente secondo alle ex-colonie britanniche. Se dovete farlo, almeno non fate finta che non sia vero, altrimenti sono solo supercazzole.

5) Sì, ma in Spagna traducono perché è un retaggio di Franco
Questa è del poveraccio che crede di fare il colto con il riferimento politico/storico, senza sapere di essere ignorante come una scarpa. La dittatura di Franco mise in piedi politiche discriminatorie linguistiche verso le altre lingue del territorio spagnolo (basco e catalano, per esempio). Non c’era alcuna restrizione verso i forestierismi e lingue esterne ai confini spagnoli. Il fatto che gli spagnoli non facciano figure da tamarri credendo d’essere fighi con smart working e recovery vari non c’entra assolutamente un belin con il franchismo. Leggete, informatevi, non fate gli emancipati da reti sociali (social), che se no sono solo supercazzole.

6) Sì, ma le lingue non si possono controllare artificialmente
Chi lo dice è spesso un sostenitore convinto dell’abolizione forzata, magari per decreto, dei generi grammaticali, che si tratti di asterischi, scevà (/ə/) o altri artifici. O si strappa i capelli sull’uso volontario della parola Presidente o Presidentessa.

7) Sì, ma questo è fascismo. E infatti è quello che fece Mussolini durante il Ventennio fascista
No. Politiche linguistiche con spettro diverso di salvaguardia esistono oggi in quasi tutti i Paesi europei.
In genere si tende a citare la Francia e la famosa Legge Toubon, ma ci sono politiche linguistiche vigenti in Paesi perfettamente democratici come Irlanda, Croazia, Finlandia, Spagna, Portogallo, Galles, Austria, Belgio, e molti altri. Tra trasparenza, protezionismo, e garanzie per usuari e consumatori, leggi sulle lingue nazionali esistono ovunque.
Non le ha inventate Mussolini, così come non inventò lui acquedotti e bonificazioni di paludi.
Il buon senso, l’inclusione e la trasparenza non vanno tirate nel cesso con la scusa di interpretazioni sbilenche di leggi sbilenche (dunque doppio sbilenco) di 100 anni fa.
Oh, e dato che ci siamo, qualcuno ha mai conosciuto un vegetariano che ha smesso di esserlo perché lo era anche Adolf Hitler?
Per la cronaca, in Portogallo si susseguono da anni governi socialcomunisti. Ci sono leggi molto specifiche non solamente sulla promozione della lingua portoghese, ma anche sull’obbligatorietà di utilizzare il portoghese da parte di istituzioni educative e media (con persino quote di programmi in lingua nazionale), nonché di tradurre etichette commerciali e pubblicità.
Anche la Spagna ha un governo socialcomunista. Dal 2013 esiste la «Ley de Transparencia» che obbliga tutti gli enti pubblici o a partecipazione pubblica, dalla Famiglia Reale al più piccolo dei municipi, a comunicare in spagnolo (o catalano, basco e gallego).

8) Sì, dov’è il problema, ormai l’inglese lo capiscono tutti.
Allerta: davanti a te c’è un narcisista professionista con pochissimo tatto verso gli altri.
Siccome lui o lei parla o capisce l’inglese, allora automaticamente non ci si deve ponere il problema.
Ci sono dei poveracci che dicono che il titolo Spare, del libro del Principe Harry (anzi Prince Harry, nell’edizione italiana) sia comprensibile a tutti. Ma bisogna essere davvero dei caproni egocentrici per credere che 60 milioni di italiani colgano il significato di Spare e che lo sappiano pronunciare.
Senza contare, attenzione (!), che l’itanglese con cui vengono presi a schiaffi milioni di italiani affinché alcuni politici, giornalisti, *menager*, pubblicitari e inserzionisti di LinkedIn possano soddisfare i loro bisogni onanistico-narcisisti, ha ben poco a che vedere con la conoscenza dell’inglese. E infatti molto spesso d’inglese non capiscono un autentico cazzo.

9) Sì, ma sono solo i vecchi che non conoscono l’inglese. È una minoranza. Non è che bisogna a tutti i costi accomodare gli anziani.

A parte il darwinismo spietato ed aberrante di gente che poi però magari strilla «DISCRIMINAZIONE!» appena c’è un filo di vento (immaginatevi la stessa mentalità discriminatoria con le persone su sedie a rotelle, o con la minoranza LGBT+. Sbagliato, vero?), questa è anche una visione elitista, classista e privilegiata da far vomitare.
Non sono solo gli anziani ad avere generalmente scarsa conoscenza dell’inglese, ci sono milioni di italiani che per ragioni socio economiche non hanno potuto studiarlo o lo hanno fatto in maniera limitata.
Non è che siccome mamma e papà si posson permetterti di farti fare la vacanza studio a Brighton o il corso privato o le ripetizioni d’inglese il pomeriggio, allora se lo possono permettere tutti. Moltissimi – moltissimi – non hanno i mezzi.

10) Sì, vabbè, ma che ci vuole. Ormai l’inglese lo impari andando su YouTube.
Sì, come no. Di nuovo, l’ignoranza. La bellezza di una lingua e di una cultura relegata a una cosa usa-e-getta da rigurgutare a pezzettini sulle reti sociali (i «social«). E questo è il cuore del problema dell’anglomania itanglese: l’abisso che esiste tra il far finta di sapere una lingua giocando a fare i fintomoderni per nascondere insicurezze e narcisismo, e il conoscerla veramente, con gusto, con coscienza, e parlandola quando ce n’è bisogno e con l’interlocutore adeguato.

11) Sì, ma comunque non è una priorità.
Questo è l’ultimo rifugio di chi a) sa di non avere argomenti o b) sa di avere torto. Quali sono le priorità? Chi le stabilisce? Non è che se uno è a favore di trasparenza, inclusione linguistica, e rispetto per utenti e interlocutori non possa occuparsi anche di altri temi più o meno pressanti, no? Del resto la filastrocca del non-è-una-priorità la si sente su tutto: dalla legalizzazione dei matrimoni dello stesso sesso alla proibizione degli stessi, dal nucleare sì al nucleare no, dal salario minimo al salario massimo, dai ai giochi della gioventù no ai giochi della gioventù sì, dalle nazionalizzazioni alle privatizzazioni. Tutto non è una priorità quando non si è d’accordo.

NON succede in tutte le lingue

Durante gli scorsi due mesi abbiamo effettuato un’analisi comparativa degli anglicismi puri presenti sulle prime pagine digitali di quattro quotidiani europei di simile tiratura e stile, più un quotidiano britannico per rilevarne eventuali forestierismi e italianismi puri.

La Parte 1 della nostra analisi ha fornito risultati allucinanti, onestamente molto peggiori delle nostre aspettative più pessimiste (vedi qui e anche qui per conoscere i dettagli). Il referente italiano si è rivelato così intriso di anglicismi da totalizzarne abbondantemento più del doppio dei suoi omologhi francesi, spagnoli e tedeschi messi insieme.

Per questa ragione, per la Parte 2 della nostra analisi, abbiamo cambiato i quotidiani sperando di registrare qualcosa di diverso. Questa volta ci siamo affidati a La Stampa (Italia), Le Figaro (Francia), El País (Spagna) e Süddeutsche Zeitung (Germania), affiancati da The Times (Regno Unito).

Di diverso abbiamo notato che: 1) al contrario dell’anglofilo El Mundo, El País (della cui grafica siamo innamorati) segue chiaramente una linea editoriale fedelissima alla lingua castellana e tende ad utilizzare davvero pochissimi anglicismi; 2) che le parti si invertono tra Le Monde, molto fedele al francese, e Le Figaro, non restio a pubblicare anglicismes; 3) che nonostante il Süddeutsche Zeitung rifletta comunque l’uso copioso di anglicismi nella Germania di oggi, non raggiunge i livelli di Welt; e 4) che l’attenzione speciale che The Times sembri dedicare ai temi irlandesi ha consentito la rilevazione di alcuni termini gaelici.

Per il resto, purtroppo, sul tema che più ci sta a cuore, vediamo che ancora una volta è il quotidiano italiano ad utilizzare infinitamente più anglicismi degli altri. La Stampa ne ha totalizzati 336 in una settimana contro i 276 di tutti gli altri messi insieme (includentdo The Times).

Anche se appena più moderati rispetto agli angloassatanati de la Repubblica, specialmente – per pura coincidenza – durante la giornata del 1 Gennaio, anche La Stampa ne usa a tonnellate, quasi sempre senza motivo, e spesso in maniera ridicola. Spiccano le rubriche – in italiano, sia chiaro – con i titoli da mercante di datteri quali «Quirinal Game«, «Vatican Insider» e «Italian Politics«, nonché la solita processione di empowerment, gender, no vax, revenge porn, fake news che sono diventati i pilastri del creolo linguistico degli ultimi anni. I dettagli si trovano qui.

L’analisi continuerà con cadenza bisettimanale fino a metà Febbraio.

Purtroppo, nel frattempo, i dati che abbiamo rilevato confermano la pochezza disarmante dei tanti, troppi, linguisti italiani di professione, secondo i quali «tutte-le-lingue-fanno-così«, «anche-gli-inglesi-dicono-pergola«, «vabbè-ma-solamente-l’area-lessicale«, «che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film«, «e-che-dobbiamo-fare-come-Mussolini«, e così via. E che, tra una scrollata di spalle e un tweet con la consistenza di una pozzanghera, continuano a liquidare questo fenomeno rapidissimo, gigantesco e di una mole senza precedenti, invece di riconoscerlo, guardarlo in faccia, studiarlo prioritariamente e dibattere cosa meglio si potrebbe fare a livello normativo.
Perché la morte dell’italiano sta avvenendo adesso, davanti a noi, e quando qualcuno si sveglierà – magari con una petizione nel 2050 nello stile di quello che si fa oggi con il gaelico, il basco, il bretone o i panda per salvarli dall’estinzione – sarà probabimente troppo tardi.

Così muore una lingua

Come si fa a parlare di arricchimento linguistico mentre si moltiplica il numero di termini italiani in disuso e l’intaccamento sintattico inizia a vedersi dappertutto? AUTORE: Peter Doubt*

Abbiamo già espresso alla nausea la nostra incredulità di fronte ai numerosi e titolatissimi linguisti, sociolinguisti, terminologi, e accademici italiani completamente insensibili (se va bene) o conniventi (se va male) nei confronti del cambio attualmente in atto nella lingua italiana.
Secondo alcuni, 1) la valanga di (pseudo)anglismi consiste in un «arricchimento linguistico» dato che 2) molti di questi anglismi si utilizzerebbero come «sinonimi«, specie se visti dentro una varietà di contesti.


E già qui, con la storia dei «sinonimi», dovremmo fermarci un attimo.
Sinonimi sono parole «di una lingua» che hanno un «significato fondamentalmente uguale» (Treccani). Nella stessa lingua, sottolinea Collins, sotto la definizione di synonym.
Se dico «faccia», «volto» ne è un sinonimo. Face non lo è. È una traduzione, equivalente, o versione in inglese, né più né meno di cara in spagnolo, Gesicht in tedesco, o visage in francese. Se face inizia ad essere visto come un sinonimo in italiano, insieme a 10,000 altre parole di sapore anglo negli ambiti più vari, vuol dire che qualcosa sta avvenendo, per quanto si ripetano a memoria i «meme» delle leggi fallite fascionarcisiste di 90 anni fa per far finta di nulla, celare le proprie stesse vanità, o deflettere con strategie di puro spostamento psicologico.

Dunque diamo uno sguardo al paradosso dell’italiano che si starebbe «arricchendo» mentre sempre più termini scompaiono, entrano in disuso, o imboccano il viale del tramonto grazie ai loro nuovi «sinonimi».

Abbiamo già illustrato qui come l’irruzione di match e big match nel vocabolario italiano abbiano reso obsoleti nel giro di 10/15 anni i termini incontro e partitissima. Abbiamo spiegato, con numeri alla mano, i casi di termini angloidi (fare shopping, Business School, i farlocchi rider, question time, location) il cui effetto è stato quello di neutralizzare o schiacciare quelli che erano, direttamente, i suoi equivalenti diretti in italiano oppure, indirettamente, altri sinonimi o derivazioni italiane.
Rimanendo sul tema delle partite, fino a pochi anni fa, il grande pubblico italiano avrebbe assorbito da stampa e televisioni termini quali incontro, contesa e duello. Magari, addirittura tenzóne. A chi vi scrive rimase impressa quella parola di sapore classico proprio quando la ascoltò, per la prima (e forse ultima) volta, da Bruno Pizzul durante una telecronaca calcistica a metà anni 80.
Oggi, l’effetto cannibalizzante di match su «partita» è minimo, ma non lo è purtroppo sui vari sinonimi italiani ed elementi linguistici correlati. Diventa moribonda partita di cartello, entra in disuso partitissima, si sente sempre di meno incontro. Si arricchisce il creolo, s’impoverisce l’italiano.

Certo, gli esempi sportivi sarebbero dozzine. Le palestre del Bel Paese relegano la lingua italiana ormai a preposizioni e articoli. E, fino a pochi anni fa, highlights era quasi completamente sconosciuto. Si usavano espressioni quali fasi salienti, il meglio di, i momenti chiave. Guardate come si è invertita la tendenza. Negli ultimi due anni, fasi salienti è quasi morto, divorato appunto da highlights, che nel frattempo si è più che centuplicato, sul serio, in 20 anni.

Diapositiva è un altro caso interessante. L’angloinvasato con gli occhi vitrei vi dirà che «è chiaro che diapositiva doveva sparire, perché si riferisce all’analogico», mentre slide è del secolo XXI, quindi rende meglio l’idea.
Peccato però che proprio slide fosse la parola che si usasse in Gran Bretagna ai vecchi tempi per dire diapositive. Con l’arrivo del digitale, i Paesi anglosassoni non hanno ritenuto che bisognasse creare una parola nuova, e dunque hanno continuato a dire slide. Anche gli spagnoli hanno continuato ad usare diapositiva. Gli italiani, invece, hanno rapidamente buttato via la loro parola e hanno preso a piene mani quella anglo. Guardate i numeri dell’archivio elettronico di La Repubblica. Esempio più chiaro di così per descrivere una lingua malata non si può.
.



Nel frattempo, l’onnipresente live si sta nutrendo sempre di più di diretta, dal vivo, e concerto. Tre contesti al prezzo di uno.

Ed è spettacolare vedere la prepotenza con la quale fake news, sconosciuto fino al 2010, abbia quasi completamente sostituito bufale (a proposito, ma l’inglese non era più comodo perché più breve?), mentre la polvere inizia lentamente a posarsi anche su menzogne, manipolazioni e disinformazioni, e la parola fake è ormai la prima scelta anche nel contesto di falso o contraffatto.


Chi è lo sfigato che dice ancora compere o andare a fare le compere? Si dice [fare] shopping, con la shopping list, magari per andare all’outlet, al discount e in cerca del low cost condito con sale (ma non nel senso del solido cristallino incolore) a destra e a sinistra. Occasioni, basso costo e sconti iniziano a mostrare i primi scricchiolii. Nel frattempo gli acuti linguisti italiani continuano a credere che il problema sia che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film?

Ancora più impressionante è il fatto che gli eventi ormai in Italia si debbano dire per forza in anglo. Giornata, con la maiuscola, non si dice quasi più. Qualche anno fa iniziò ad essere affiancata da Day, per poi esserne cannibalizzata, ed ecco oggi il dominio assoluto di Family Day, Pride Day, No Green Pass Day, CV Day, No Paura Day, Singles Day, Rivoluzione Day, Bi(-)Visibility Day, Sport Ability Day, il World Pasta Day (voluto dall’Unione Italiana Food, sia chiaro), addirittura il Provincia Day, qualsiasi cosa. A destra e a sinistra, anche in senso politico. Comincia persino a farsi strada Boxing Day per parlare del 26 Dicembre.

Eppure, in un’intervista pubblicata lo scorso Marzo, la sociolinguista Vera Gheno ha messo in mostra livelli di diniego da medaglia d’oro sentenziando:

Come avrà fatto Gheno a perdersi non solo la cascata continua di [Nome dell’Evento] Day e la marea crescente degli Open Day (la versione 2.0 del moribondo «Giornata di porte aperte»), ma anche gli innumerevoli Week (Milano Fashion Week, Genova Smart Week, Bologna Design Week, South Italy Fashion Week, Milano Digital Week, Milan Games Week, sono centinaia) che, alla faccia delle strutture sintattiche, cancellano tutte le preposizioni articolate (della/del/dell’) che si sarebbero usate prima.



E se gli attenti linguisti volessero ribattere che «vabbè ma sono contesti specifici», dovrebbero farsi un giro tra gli ospedali italiani, perché anche lì Day and Week li troviamo alla grande e li troviamo di traverso alle norme sintattiche dell’italiano.



Lo stesso avviene sempre di più con i Festival: Bra Cheese Festival (ridicolo, per un anglofono, ed esempio di come la smania di parlare e scrivere così abbia multipli effetti collaterali), i vari [Nome della Città] Summer Festival, Nicasi Beer Festival, Pinewood Festival, Pigneto Film Festival, Todays Festival, Ortigia Sound System Festival, Wood Sound Festival. Sono di tutti i tipi, e potremmo continuare fino a domani.

Gheno, e non solo lei, non lo notano, ma – sostituzione sistematica di vocaboli a parte – la stessa ibridazione sintattica continua imperterrita nel mondo dei premi e dei riconoscimenti. Un tempo in Italia esisteva il premio nazionale per il miglior maestro o professore dall’ingegnoso nome «Cuore d’Oro». Oggi c’è l’Italian Teacher Award, a cui si affiancano – sia chiaro, tutti al 100% in ambito NAZIONALE – Italian Tech Award, il Nation Award, l’Italia Sport Award, il Tuttonapoli Award, l’Urban Award. A proposito di quest’ultimo, chissà se leggendone il comunicato stampa del Comune di Genova, completo di bike-to-work e bike-to-school, Gheno (e non solo lei) direbbe che «non va ad intaccare le strutture sintattiche dell’italiano».



Però così va l’Italia, e chissà se i nostri amati linguisti si sono persi anche l’arrivo di must-have che, con la sua ingombranza lessicale e sintattica, sta dando ceffoni che la metà basta al sempre più desueto da non perdere. L’immagine qui sotto è di Poste Italiane, quelle che amano tanto la comunicazione cristallina da usare lo pseudo anglicismo reverse paperless e poi, tra tanti altri, postepay, delivery express e delivery globe, i quali hanno ufficialmente sostituito spedizione nella loro letteratura corporativa.



Gli «intaccamenti» sintattici sono ormai ovunque, e lo sono già da un bel po’.
Chissà se Gheno si è accorta del suffisso anglo -free, ormai presente ovunque (sugar-free, covid-free, plastic-free, fat-free, ecc.).



Esempi ancora più assurdi li vediamo, sempre più numerosi, negli ospedali italiani, da Roma a Foggia, da Ravenna a Palermo, da Genova a Milano. Esempi di come il narcisismo linguistico prenda il sopravvento persino sulla semplice chiarezza e sul diritto alla comprensione del 100% dell’utenza pubblica- diritto sancito per legge in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Spagna. I cartelli con la parola senologia vengono smontati e interi reparti rinominati Breast Unit. E lo stesso avviene con Skin Cancer Unit, Stroke Unit, e con l’irruzione di – tra molti altri – hospice, screening, checkpoint, e triage (francesismo che è entrato attraverso la via anglo per mandare all’oblio accettazione).



L’angloinvasato di turno vi dirà che i reparti vengono ribattezzati in inglese proprio per aiutare gli stranieri, come no. E, dicendo così, fa finta di ignorare che la stragrande maggioranza dei recenti immigrati in Italia non sono anglofoni, per non parlare delle decine di milioni di italiani che non conoscono l’inglese (magari i più anziani). Un concetto di empatia molto peculiare.

Ma torniamo alla malattia linguistica in atto.

Anche quando si cerca di coniare un neologismo in italiano, si noti come la versione in inglese, seppure farlocco, vinca. Abbiamo cercato negli archivi de la Repubblica quante volte Certificato Verde, Certificazione Verde, Certificato Covid siano apparsi negli ultimi due anni. Poi abbiamo contato Green Pass (che non si usa nei Paesi anglosassoni, dove si dice Covid Certificate o Covid Passport). Ecco i risultati:



E che dire di set, nel senso di insieme, serie, gruppo, a seconda dei casi, che si è convertito, come kit, in una di quelle sostituzioni pigrissime che si mangiano tutte le sfumature, depauperando il linguaggio?

Oppure di empowerment, che da qualche hanno si infila dappertutto a scapito dello sfigatissimo emancipazione?


Un recentissimo articolo pubblicato da entrambi La Stampa e La Repubblica, dal titolo «Dieci libri per l’empowerment (femminile, ma non solo) […]» fa particolarmente colpo. Da un lato, perché l’autrice citava il dizionario Garzanti per definire empowerment (“Processo di riconquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire”), operando una sostituzione pura mentre la traduzione ce l’aveva a portata di mano con emancipazione (e forse, ancora di più, affrancamento). Dall’altro, perché l’articolo snocciolava anglismi inutili nello stile purtroppo quasi istintivo del «giornalismo» italiano di oggi. Revenge porn, catcalling, victim blaming, fat-shaming, tutti recitati con quella casualità e quell’autocompiacimento che, grazie specialmente alla classe politica e giornalistica, stanno rendendo gli italiani sempre più incapaci di articolare concetti nella propria lingua.
In altre parole, questa crescente dipendenza, quasi di tipo narcotico, che gli italiani stanno sviluppando verso gli anglicismi sembra minare la capacità di tessere, di sviluppare, di produrre argomenti senza, ricorrere ogni 10 secondi, per citare Antonio Zoppetti di Diciamolo in italiano, alla «stampella dell’inglese».

Guardate come l’irruzione di catcalling negli ultimi due anni sia coincisa con il declino di importunare e la scomparsa definitiva di pappagallismo.

Un’altro è roadmap, che sembra aver soppiantato concetti come percorso e itinerario (in senso metaforico, cioè quando riferiti a progetti e obiettivi).



Nel nostro precedente articolo avevamo parlato della scomparsa quasi improvvisa di interrogazioni parlamentari a beneficio di question time, più o meno a partire dal 2010.
Adesso guardate gli effetti di come, nel giro di un (1) anno, l’adozione a livello legislativo dell’americanismo caregiver a scapito del suo equivalente italiano (letteralmente indicato tra parentesi nella legge) abbia ufficializzato la secondarietà di badante, destinandolo all’oblio e decretando la fine dell’altro possibile sinonimo italiano, assistente familiare. Gli effetti sono già visibili. Ne prendano nota gli illusi de «la lingua la fanno i parlanti«, inspiegabilmente intorpiditi davanti all’ovvietà dell’immenso peso esercitato, a livello linguistico, delle istituzioni e degli enti pubblici.


Che poi sono le stesse istituzioni che, negli ultimi cinque anni, hanno ufficializzato la sostituzione della parola squadra a vantaggio di team per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi, ignari di quanto sia ridicolo davanti agli occhi del mondo un Paese non anglosassone che scimmiotta – in un ibrido sintattico inspiegabile e senza alcun motivo – una lingua non propria, come dei teneri copioni da quinta elementare. Signori e signore, l’Italia Olympic Team.




Fa male riconoscerlo, ma questo articolo potrebbe andare avanti all’infinito con esempi relativi a tutti gli ambiti. E non abbiamo neanche toccato il mondo del fashion & beauty, del tech, delle start up, delle celebrity, dei reality, dello showbiz e delle influencer, o il mondo del food. Non abbiamo toccato il mondo delle professioni, dove ormai anche commesso lascia spazio a Shop Assistant e sono tutti, con le maiuscole, Visual Merchandiser, Chief Sales Officer, Team Manager, Head of Talent Acquisition & Sales, Copywriter, Assistant Editor, Programme Manager, CEO.
Quante parole ed espressioni ci sono che – se già ora relegate ai ricordi di un over 40 (intaccamento sintattico) – non hanno alcuna possibilità di sopravvivere tra quelli che sono gli adolescenti e i bambini italiani di oggi (vedi qui)?



Compilare una raccolta esaustiva dei tantissimi termini italiani sulla via del tramonto è impresa quasi impossibile. È una via sempre più affollata e la causa è sempre la stessa, l’anglorimbambimento delle istituzioni, dei media, e dei pubblicitari italiani del secolo XXI. Rimandiamo i nostri lettori alla rubrica PAROLE IN DECLINO a cura di Giacomo M. Valentini, che seppur non completa, rende benissimo l’idea.

E lascio a lui, Giacomo, la conclusione:

«Non c’è più la ricerca di sinonimi, di sfumature e di cultura. La lingua italiana di oggi è una lingua banalizzata, stereotipata, dove non c’è più bisogno di usare vocaboli più ricercati – in italiano – perché esiste sempre il ricorso all’angloamericano che tutto risolve, anche quando usato con significati diversi dalla lingua d’origine«.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

Dissonanza cognitiva

«Se un cinquantenne italiano fatica a ricordare le parole usate fino all’anno 2000, figuriamoci cosa direbbe un quindicenne?«. In risposta alla terminologa Licia Corbolante. AUTORE: Peter Doubt

Uno dei tantissimi limiti delle reti sociali (i «social«), e Twitter in particolare, è il fatto che concetti complessi ed importanti vengano ridotti a scambi di battute in stile «ping pong» condensate in un massimo di 280 caratteri. Facilissimo, se ci si limita a citazioni tronche o a negare l’evidenza. Un po’ più complicato quando c’è da parlare di fatti, analisi e osservazioni empiriche.
Rispondo qui, dunque, ad alcune frasi pubblicate su Twitter dalla terminologa Licia Corbolante, autrice del blog Terminologia, che ringrazio sentitamente per gli spunti involontariamente offerti.

Partiamo dall’inizio. Questo sito sta conducendo un’analisi comparativa degli anglicismi puri contenuti nelle prime pagine di: la Repubblica (Italia), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna) e Welt (Germania) oltre ai forestierimi e italianismi puri in The Guardian (Regno Unito).
In questo momento la ricerca si trova nel pieno della quarta settimana, ed è un fatto statistico che la Repubblica vinca ogni giorno (con differenza, cioè stile massacro alla Manchester United-Roma, se perdonate l’analogia calcistica) per volume di anglicismi puri presenti. Fin’ora abbiamo registrato un rango che va da un minimo di 69 a un massimo di 133 ANGLICISMI PURI AL GIORNO – solamente sulla prima pagina di la Repubblica. I dettagli e le note sulla metodologia si trovano qui.

Ieri abbiamo condiviso su Twitter questa raccolta o collage di alcuni (enfasi sulla parola alcuni) degli anglicismi puri presenti sulla prima pagina di la Repubblica di ieri (21/12/2021), dove in totale ne figuravano 90 – novanta. Novanta in un giorno e solo sulla prima pagina, signori e signore.


La nostra pubblicazione su Twitter parlava anche, con tanto affetto, dei «linguisti dormiglioni», ovvero gli ottimi linguisti (o cosiddetti amanti della lingua italiana) che, quando vogliono loro, notano sottigliezze di una pedanteria che la metà basta, ma che sono di una superficialità disarmante – per non dire ciechi – di fronte uno dei fenomeni più giganteschi ed anche affascinanti, linguisticamente parlando, da molti secoli a questa parte. Parliamo cioè della rapidissima evoluzione/involuzione/creolizzazione/ meticciazione/arricchimento/indebolimento (chiamatelo come volete, secondo i vostri punti di vista) della lingua italiana, i cui anglicismi (molti dei quali pseudo tali) traboccano sempre di più in telegiornali, riviste, quotidiani, pubblicità, agenzie interinali, università, scuole, conferenze, iniziative, proteste, reti sociali, negozi, cartelli, alle Poste, su Trenitalia, all’INPS, in parlamento, nelle leggi e atti del governo e dei partiti. Ci sono ormai interi quartieri battezzati in inglese (vedasi Milano con North Loreto e UpTown), linee della metropolitana, addirittura i bidoni della spazzatura. Però, per loro, è tutto un «vabbè», un «ma allora?», minimizzando e distorcendo, tra un benaltrismo e un «non-è-proprismo» (per usare un termine coniato da Antonio Zoppetti), in cui il dito lo vedono sempre – però sempre – ma la luna resta inspiegabilmente e permanentemente invisibile.

E torniamo, dunque, a Licia Corbolante. Che nel «dormitorio linguistico» a cui abbiamo accennato è in buona compagnia, su questo non ci sono dubbi, ma che sonnecchia anche quando l’evidenza la guarda in faccia con le luci giganti al neon con la parola EVIDENZA che lampeggia nello stile di Elvis Presley a Las Vegas.

Di fronte all’immagine con la raccolta di alcuni (pseudo)anglicismi de la Repubblica di cui sopra, la meticolosa Corbolante non trova di meglio che scrivere:



Convincere persone come Licia Corbolante che la piega presa dall’italiano non sia la migliore possibile ricorda un po’ le conversazioni con quei terrapiattisti che, quando si parla dei Covid19, di fronte a qualsiasi evidenza, negano e tergiversano. Insomma, non c’è niente da fare. Però noi ci proviamo comunque:

1- Come funziona la logica di Corbolante? Cioè gli anglicismi non contano se sono ormai «in uso da tempo» nella lingua italiana, però anche se non lo sono, perché lei dice che «è molto improbabile che entrino mai nel lessico comune«. Quindi, se «in uso da tempo» non contano, e se «non in uso da tempo» (o «occasionalismi«, come li chiama lei) non contano nemmeno. Insomma non c’è scampo, anche perché se dovessero «entrare in uso«, Corbolante li liquiderebbe come anglicismi «affermati» e dunque cosa buona e giusta. Se, cari lettori, vi siete persi lungo questo paragrafo, non è colpa vostra. È colpa di una fallacia logica grande quanto un cratere vulcanico. Un po’ come i negazionisti del Covid. Se non te lo prendi non esiste, se te lo prendi è solamente un’influenza, se muori è una messa in scena, e al diavolo chi esagera.

2- Come fa poi Corbolante a sapere che «è molto improbabile che entrino mai nel lessico comune» non è dato saperlo, ma lei lo afferma comunque. Chiaro e tondo, spacciando per fatto dato e acquisito quella che è un’opinione completamente personale.
Tu lei fai vedere dati analitici, contati uno a uno, ogni giorno, che fanno uscire gli occhi da fuori? E lei ti risponde che no, che tanto «non entreranno nel lessico comune«. Magari come le migliaia di brand, green, retail, news, top, step, cringe, caregiver, lockdown, booster, green, briefing, recovery, board, cluster, pet food, gender gap, no vax/no mask, [nome dell’evento] Day, e potremmo continuare fino a dopodomani.

3- Che dire poi della fantomatica terza categoria identificata da Licia Corbolante, quella dei triti «anglicismi settoriali«? Tremendo, per la superficialità con cui viene detto, perché è impossibile che una prestigiosa terminologa non noti che gli anglicismi sono presenti a valanga in TUTTI i settori in Italia, e non solo «moda e bellezza«. Moda e bellezza, sentenzia lei, chiudendo gli occhi davanti a gemme linguistiche che persino chi non vive in Italia (come chi vi scrive) nota quotidianamente in articoli, risorse, scritti, pubblicità, siti, giornali e reti sociali dell’Italia del 2021. Tornando al nostro piccolo collage de la Repubblica, a Corbolante sono sfuggiti: empowerment, Italian Tech, green, retailer, form, week, parole usate a manetta, in Italia, e che poco hanno a che fare con moda e bellezza.
Viene il sospetto che, anche se invece di 90 gli anglicismi fossero stati 290, Corbolante avrebbe scrollato le spalle dicendo che sono «affermati«, oppure «non affermati«, oppure «solamente moda e bellezza«. O magari solamente il calcio, o solamente il turismo, o solamente la pandemia, o solamente la pubblicitá, o solamente l’informatica. Insomma, solamente.
Perché non c’è settore in Italia che non pullili di (pseudo)anglicismi. Sembra assurdo doverlo ricordare a una terminologa, eppure dalla pandemia (lockdown, caregiver, cluster, vaccination manager, no vax, ecc), all’università (le Business School, le Faculty e le Masterclass non si contano, più migliaia di altri); dalla gastronomia (food & beverage, delivery, catering, sugar-free, meat-free, ecc) allo sport (basta guardare le telecronache in creolo di calcio, Formula Uno o MotoGP); dalla politica (l’Italia è l’unico Paese non anglosassone in cui le leggi iniziano ad avere nomi in inglese, vedasi Jobs Act, step-child adoption e Family Act) alle Poste Italiane (l’aberrante reverse paperless, delivery express e altre amenità); da Trenitalia (con i suoi train crew, train manager e magazine) all’INPS (con la sua inclusivissima campagna 4-Week for inclusion); dal MIUR (con l’agghiacciante School Shooting) alla tecnologia (qualsiasi cosa); da premi (Italian Tech Award e Italian Teacher Award) a progetti benefici (Riding the Blue, Shared Wood); dai pet (una volta erano animali domestici) a eventi annuali (Milano Design Week, Torino Fashion Week, We Love Pesaro, Nincasi Beer festival); dalle agenzie di lavoro, anzi i recruiter (basta guardare qui), agli ospedali italiani (Day Hospital Breast Unit, Week Surgery, Skin Cancer Unit, Stroke management, hospice, screening, checkpoint temperatura).
Insomma Corbolante, non perdiamo altro tempo facendo finta di negare l’innegabile e ribaltiamo le cose: dato che ne sei così sicura, l’onere è il tuo. Dimmi tu: in quali settori non vengono usati anglicismi a valanga in Italia?

4- C’è poi una frase di Corbolante, quella secondo cui «i media spesso ricorrono agli anglicismi come sinonimo«, che meraviglia particolarmente.
Davvero si deve spiegare a una terminologa che, se sono di un’altra lingua, di «sinonimi» non si tratta? Si possono chiamare traduzioni, magari equivalenti, e – dissonanza cognitiva permettendo – sostituzioni, ma se davvero fungono da sinonimi come tale, la domanda che sorge spontanea è: che razza di lingua in buona salute, viva, è una in cui nel giro di 15 o 20 anni una valanga, migliaia, di forestierismi – tutti della stessa provenienza – vengono usati a mo’ di «sinonimi»? Non è proprio questo il punto? Perché non usare sinonimi in italiano invece di questo incessante mix di tamarrismo linguistico?
«Questi anglicismi raramente spodestano le parole«, sentenzia Corbolante, perentoriamente. Non cogliendo che le parole non scompaiono dalla sera alla mattina, ma che vengono rese obsolete poco a poco, come sta avvenendo – se tenete gli occhi aperti – un frammento alla volta, una gocciolina alla volta (o dovremmo dire droplet), costantemente, con tantissimi esempi che hanno imboccato il viale del tramonto. Corbolante dirà che non è vero, e lo dirà perentoriamente, ma marca o griffa diventano sempre di più brand. Dichiararsi è ormai quasi sempre «[fare] coming out«. La Squadra Olimpica è diventata nel 2016 «Italia Team«. E poi verde, notizie, montaggio, video operatore, direttore, bagarino, Giornata (con la maiuscola, nel senso di Day, come Family Day), fattorino, a domicilio, da asporto, bellezza, badante, calcio d’angolo, fasi salienti, tata, fuseau, economia & commercio, botteghino, modulo, chiamata, senologia, schermata, concorso, autoscatto, ambientazione, tappeto rosso, stato sociale, cartoni animati (vedi, Corbolante, quanti settori? Altro che «moda e bellezza«!), potremmo stare fino a domani mattina a fare esempi di parole che – certo – non sono state proibite per decreto ma che, da 10 o 20 anni a questa parte, vengono usate sempre di meno. Molto di meno.
Sulla pagina Facebook di Campagna per salvare l’italiano, e dunque tra gente abbastanza attenta (nel bene e nel male) al tema in questione, ho perso il conto delle dozzine di volte in cui tra di noi si discute per curiosità come «si sarebbe detto una volta» e vai con fiumi di domande riguardanti screening, smart working, coming out, fact checking, filmmaker, lockdown, shortlist, leggings, upcycling, copywriter, hate speech, flat tax, skyline, hub, extra time (nel calcio), skills, soft power, mindset, location, crowdfunding, feedback e centinaia di altre parole, appunto, che poco a poco hanno spinto verso l’obsolescenza l’equivalente italiano. Da persona con cittadinanza straniera resto allibito di fronte al fatto che centinaia di italiani faticano a ricordarsi di parole usate normalmente anche fino all’anno 2000! Il cui corollario è semplicissimo. Se un cinquantenne fatica a ricordarlo, cosa sarà capace di dire un quindicenne? A volte l’effetto di sostituzione avviene abbastanza rapidamente, altre più lentamente, altre (molto poche) magari per nulla. Ma dire categoricamente che «‘questi‘ (quali?) anglicismi raramente spodestano le parole», è come dire che «Milano è brutta«, è una frase soggettiva e semplicistica che lascia il tempo che trova.
Il punto, Corbolante, e non fare finta di non capire, è: a) la rapidità eccezionale; b) la penetrazione in assolutamente TUTTI gli ambiti; c) l’univocità della provenienza (sono anglicismi o pseudo tali al 99,99%) e d) il volume senza precedenti con la quale tutto questo sta avvenendo.
Ora, come ho rilevato in passato, è legittimo che a qualcuno questo piaccia. Ma fare finta di niente, minimizzare e «buttarla in caciara» con benaltrismi all’amatriciana è sinceramente incomprensibile.

5- Corbolante ammonisce: «se si osserva con un minimo di attenzione«, ma lei stessa riserva zero attenzione a un fenomeno ancora più preoccupante, nonché endemico, al punto tale da essere rilevabile persino nel piccolissimo collage della prima pagina di la Repubblica. Parliamo cioè dell’inglese che si afferma ben oltre i singoli vocaboli e le sostituzioni. Nell’italiano dell’anno 2021 appaiono sempre di più pezzi lessicali in inglese, i famosi «lexical chunks» del linguista Michael Lewis. Le «15 minute cities«, la «Venezia Cocktail Week» e l’assurdo «coffee table book» della prima pagina di Repubblica eludono miracolosamente l’attenzione e la curiosità della terminologa. Probabilmente distratta da tanto minimizzare, le sfugge che questo fenomeno si riscontra ormai continuamente, si pensi a «back to school«, «plug-in hybrid«, «ready to drink«, «call per start-up green«, «selfie no make up«, «body positive«, «employer brand management«, «delivery pick up point«, «pet therapy«, «no green pass day«, «car sharing«, «revenge dress«, «we are hiring«, «drive through Covid«, «full time result«, «stop and go«, «reverse paperless«, «chief executive officer«, «back to nature«, ma anche ai continui «Stand by Robinson«, «Italian Tech Awards«, «The Great Leap Backwards» e «How to» de la Repubblica, «Andrea’s Version» sul Foglio e «Inside Over» de il Giornale. Sono ormai centinaia i concetti che vanno ben oltre singoli vocaboli e sempre di più si mettono di traverso alla sintassi dell’italiano. A Corbolante, terminologa, questo non sembra interessare.

6- Concludiamo con l’affermazione di Corbolante più palesemente non vera:

«So che nessun linguista ritiene che l’italiano sia in pericolo«, dice Corbolante.

Però purtroppo si sbaglia di grosso. Perché, come dice Antonio Zoppetti, autore di Diciamolo in italiano:

«non è vero. Preoccupato dell’italiano minacciato dall’inglese era Arrigo Castellani, autore del Morbus Anglicus degli anni ’80. A dargli contro fu Tullio De Mauro, che ha però cambiato idea nel 2016 (lo ha fatto nella prefazione del libro di Gabriele Valle, altro “non linguista” preoccupato per l’itanglese) e ha detto che in quella controversia oggi bisogna dire di più: siamo in presenza di uno tsunami anglicus. Anche il suo allievo Luca Serianni gli dava contro, ma nel 2015 si è dichiarato preoccupato e ha cambiato idea.

A essere preoccupati per l’inglese che sostituisce l’italiano e lo contamina sono personaggi del calibro di Francesco Sabatini, ex presidente della Crusca, e l’attuale presidente Claudio Marazzini che hanno pubblicamente fatto innumerevoli dichiarazioni in proposito, oltre ad avere dato vita al Gruppo Incipit, che avrebbe poco senso senza una percezione di pericolo. Ci sono poi dichiarazioni di non linguisti molto significative, da quelle di Andrea Camilleri e di Maria Luisa Villa, scienziata e corrispondente della Crusca, che spiega come l’italiano sia stato mutilato e reso inadatto alla trasmissione del sapere scientifico. Ecco cosa scrive Giorgio Casacchia, eminente sinologo e professore universitario: “si è praticamente interrotta la produzione di neologismi, un’infinità di termini non hanno una voce italiana (ingenerando l’improssione, o la consapevolezza, che non è all’altezza della contemporaneità), si preleva semplicemente il termine inglese, e s’aggiungono a quelli che sono esclusi solo perché l’inglese è percepito più efficace, elegante, uno status symbol (ecco, per esempio…).

A proposito dei linguisti che un tempo non erano preoccupati ma ora si stanno svegliando, Valeria Della Valle ha definito «un elemento molto preoccupante a nostro modo di vedere», il fatto che:

Tra il 2008 e il 2018, sui giornali italiani sono più che raddoppiati, rispetto al decennio precedente, i neologismi inglesi: nel nostro modo di parlare sono apparse 15 nuove parole composte da ‘food’ e solo 2 da ‘cibo’; hanno fatto il loro ingresso 17 termini con ‘gender’ contro 13 con ‘genere’, stessa cosa per ‘smart’, che ha la meglio sulla sua traduzione italiana, ‘intelligente’. Sul totale dei neologismi italiani, i termini inglesi sono schizzati dal 10 al 20,11 percento [rispetto all’aggiornamento del 2006]«.

Concludiamo, cara Corbolante, con un piccolo regalo natalizio: una schermata (o screenshot, se vogliamo, anzi VOLESSIMO, utilizzare un «sinonimo») con 14 professioni/mansioni (i «credits«) su 19 in inglese, per un prodotto italiano, fatto da italiani, in Italia, per un pubblico di italiani, per un mercato esclusivamente italiano. Tu intanto continua pure a dire che «bisogna evitare esagerazioni e catastrofismi«.



«Prescrittivisti» contro «descrittivisti»: una terminologia equivoca?

«Nessun biologo viene deriso e considerato uno stupido se propone di salvare le specie in pericolo, oltre a studiarle; nessun sociologo viene definito “aberrante” se propone misure per rendere più equa e giusta la società in cui viviamo. Nella linguistica invece assistiamo a un ostracismo collettivo»
AUTORE: Giulio Mainardi*

Circa il modo d’approcciarsi ai fenomeni linguistici e al loro studio, oggi s’individuano solitamente due possibilità principali, che vanno sotto i nomi di prescrittivismo e descrittivismo.

Benché questi due termini siano d’uso comune nell’àmbito della linguistica, quasi nessun dizionario li registra nell’accezione di nostro interesse. Tuttavia, visto che il significato con cui sono usati è piuttosto chiaro, possiamo provare a darne noi una descrizione generale.

Con prescrittivismo si indica la posizione di chi intende prescrivere un uso linguistico: il fatto di riconoscere certe forme linguistiche come corrette e altre come sbagliate, e in base a questo definire una norma e dare indicazioni perché le altre persone seguano l’uso individuato come corretto. Un esempio di prescrittivismo potrebbe essere una frase di questo tipo: «In italiano è sbagliato scrivere un’amico con l’apostrofo: si scrive un amico, con lo spazio e senz’apostrofo».

Con descrittivismo, invece, si indica la posizione di chi intende descrivere l’uso linguistico: analizzarlo e cercare di darne una spiegazione scientifica, in modo neutrale, senza prendere una posizione su ciò che è “corretto” o no. Il descrittivista ritiene infatti che il concetto di correttezza, nelle lingue, abbia un valore solo relativo, perché ciò che in un certo tempo è considerato giusto può essere considerato sbagliato in un altro (e viceversa); assume un atteggiamento distaccato e non vuole influenzare l’uso dei parlanti dando indicazioni in un senso o nell’altro: vuole lasciare la lingua a quella che considera evoluzione spontanea, senza cercare di modificarla. Un esempio di descrittivismo potrebbe essere una frase di questo tipo: «Nell’italiano odierno, la scrittura un’amico sarebbe considerata sbagliata dalla grande maggioranza dei parlanti; è comunque un tipo di scrittura relativamente frequente, specie nello scritto affrettato (anche delle persone colte) o presso chi ha scarse competenze ortografiche».

Nella discussione linguistica in Italia, oggi, questa posizione descrittivista è dominante, potremmo quasi dire egemonica. La parola prescrittivista è spesso usata con una connotazione negativa, piuttosto generica, per bollare chi si allontana da tale posizione dominante o prova anche solo a considerarla in modo critico, nel merito oltre la sua vasta diffusione e accettazione. Il vero linguista —si dice— può essere solo descrittivista; chi è prescrittivista non è più uno scienziato, non è più un linguista, o addirittura non capisce nulla di che cos’è veramente la linguistica e di come funziona la lingua. Spesso è ritenuto degno di derisione, non può essere preso veramente sul serio. Talvolta si dice che, in quanto prescrittivista, non può nemmeno amare la lingua. In un noto gruppo pubblico di Facebook dedicato alla linguistica, quando si nomina il prescrittivismo le frasi sono solitamente di questo tenore (le riporto esattamente, errori compresi):

  • «Mi sembra che il ruolo della Crusca sia, alternativamente, di linguista e prescrittivista, cosa che può generare confusione nell’utente medio» (leggi: “linguista” e “prescrittivista” sono possibilità alternative);
  • «Questo prescrittivismo è aberrante»;
  • «L’ennesimo prescrittivista di cui non si sentiva assolutamente il bisogno»;
  • «Se ami una lingua non puoi essere un prescrittivista ma un descrittivista»;
  • «Monca e prescrittivista è la maniera in cui analizzate la lingua»;
  • «Ah sì, la Crusca, i parrucconi santi patroni del prescrittivismo» (sic, detto della Crusca del 2021, non del ’600);
  • «Anche se siamo nel terzo millennio i prescrittivisti, detti anche gli imbalsamatori del linguaggio, non mancano mai»;
  • «Il purismo e il prescrittivismo negano lo studio descrittivo dei fenomeni linguistici perché li concepisce in maniera statica, cosa che non è assolutamente nella loro natura».

Esternazioni così drastiche sono più frequenti, come ci si aspetterebbe, tra i semplici appassionati, che sono diretti e non moderano i propri pensieri e il proprio linguaggio, e anzi si infervorano nel proposito di “sconfiggere” e umiliare chi identificano come avversario; tuttavia, concetti simili si ritrovano spesso anche a livelli più “alti”, più intellettuali, di chi fa della lingua una professione o comunque una parte importante della propria vita: solo espressi in modo più sottile, sfumato, gentile, simpatico.

È un comportamento generale di cui possiamo vedere facilmente le ragioni alla base. Le lingue mutano, e questo sembra un fatto inevitabile; chi prova a prescrivere ad altri per impedire o guidare tale corso delle cose appare come una persona scollegata dalla realtà, un nostalgico magari anche incattivito, destinato a essere sconfitto dalla storia, domani se non già oggi. L’unica cosa che ha senso fare, quindi, è descrivere, e accettare la continua mutazione della lingua senza tante preoccupazioni.

Tale distinzione binaria parrebbe piuttosto semplice e lineare; tuttavia, un occhio attento noterà che in realtà ci sono alcuni problemi e contraddizioni.

Dal punto di vista pratico, tali problemi riguardano anche l’àmbito principale di cui ci interessiamo qui, cioè la questione dell’itanglese. Come sappiamo, la visione oggi dominante sull’itanglese, facendo una sintesi estrema di tutte le sue variegate sfumature, può riassumersi in due idee (opposte fra di loro): la prima è che «gli anglicismi non minacciano l’italiano»; la seconda è che «l’italiano è destinato a disfarsi in un’anglofonia sempre maggiore, e questo non è un male; e, se anche lo consideriamo un male, non ci si può far niente». Chi esprime una critica a tali posizioni riceve, tra gli altri appellativi —fascista, autarchico, nazionalista, senofobo, purista, retrivo, eccetera; dei quali non parliamo ora, perché servirebbe un discorso a parte per ognuno— quello di prescrittivista. Questo è un problema, perché chi è bollato così, come abbiamo capito dai commenti riportati sopra, è percepito automaticamente come squalificato, non attendibile: le sue parole sono derise senza nemmeno provare a capirle, e i suoi tentativi d’intavolare una discussione seria oltre gli stereotipi s’infrangono contro un muro di gomma.

La distinzione fra prescrittivismo e descrittivismo si presenta problematica e dubbia già dal punto di vista teorico, usando una terminologia che si presta facilmente a equivoci. Infatti, con la loro opposizione queste due parole ci trasmettono —spesso senza che ce ne rendiamo conto— l’idea che chi prescrive (il prescrittivista) non descrive, mentre chi descrive (il descrittivista) non prescrive, in un’esclusione reciproca delle due cose. Ciò può essere vero nel caso di chi si identifica come descrittivista; mentre quasi sicuramente non è vero nel caso di chi viene identificato (perché, chiaramente, quasi nessuno si identifica così da sé) come prescrittivista.

Le persone che assumono un punto di vista critico nei confronti dell’itanglese e sostengono l’utilità di un qualche intervento al riguardo (non parlo ora degli interessati occasionali, il cui interesse può anche essere superficiale, ma di chi ha dedicato ampio tempo e reale impegno all’approfondimento della materia) sono spesso, infatti, studiosi veri e propri, a volte dilettanti e non professionisti, ma comunque persone che hanno un notevole interesse per l’osservazione scientifica dei fatti linguistici; sui risultati di tale studio, di tale osservazione e descrizione, baseranno poi le loro eventuali indicazioni su quale uso ritengano preferibile. Adoperare la parola prescrittivista, nei confronti di queste persone (fra le quali mi includo), è dunque equivoco, perché sembra privarci del fatto della descrizione che, dall’altro lato, caratterizza invece il descrittivista: negandoci così l’appoggio sulla realtà che è il fondamento di qualsiasi discorso sensato. A conti fatti, invece, anche noi descriviamo, come gli altri; solo, le nostre descrizioni, le conclusioni delle nostre analisi, hanno la “colpa” di non concordare, oggi, con la corrente dominante (dominante in Italia, s’intende, sempre; in altri paesi la situazione è diversa). Anziché affrontare una discussione sul merito della questione, per chi è in maggioranza risulta comodo, meno impegnativo intellettualmente, associarci a un’etichetta di fatto escludente, il «prescrittivismo»: facendo ciò si liquida qualsiasi ragionamento scomodo, che potrebbe turbare la convinzione comune e costringere a una riflessione e un’autocritica, un processo che è sempre faticoso per tutti.

In secondo luogo, bisogna osservare che un descrittivismo “perfetto”, che voglia solo conoscere l’oggetto del suo studio —la lingua— senza influenzarlo in alcun modo, è un puro ideale irraggiungibile: qualunque descrittivista vive nel mondo e, pertanto, vivendo lo influenza in qualche modo, che lo voglia o no. Nel momento in cui rende pubblici i suoi studi, questi inevitabilmente modificheranno in qualche modo il comportamento linguistico dei suoi lettori. Sappiamo che la Crusca, le cui esternazioni oggi hanno in prevalenza un atteggiamento prettamente descrittivista, mette in cima alle sue schede sulle «parole nuove» l’avviso che «Questa scheda non promuove né ufficializza l’uso della parola trattata, ma intende fornire strumenti di comprensione e approfondimento». Tuttavia, ancora e ancora molti lettori interpretano tali schede come una sorta di approvazione da parte della più prestigiosa autorità italiana in materia di lingua. Spesso il fraintendimento è alimentato dai giornalisti, che, sbagliando, riportano magari che la Crusca «approva», «accetta», «aggiunge al vocabolario italiano» questa o quella parola, contribuendo a cascata a farla conoscere, usare, e quindi rafforzandola e radicandola nel corpo vivo della lingua. La Crusca è cosciente di questi fatti, e l’avviso appena citato e le professioni di descrittivismo lo dimostrano; tuttavia, nonostante i fraintendimenti ricorrano, con la conseguenza di modificare la lingua, l’Accademia persiste e non cambia (o cambia solo pochissimo) le proprie modalità comunicative. Non si vuole modificare la lingua, eppure si fa qualcosa che —si sa— la modificherà lo stesso… Se si fa questo, ha veramente senso dire che «non si vuole modificare la lingua»? Di fatto, un ente «descrittivista» come la Crusca odierna, coi suoi interventi, altera l’evoluzione dell’italiano in modo un milione di volte più grande di quanto possa fare un gruppetto di «prescrittivisti» del tutto sconosciuti al grande pubblico. Un discorso simile si potrebbe fare, oltre all’oggetto linguistico trattato, proprio sul modo di trattarlo, di esprimersi in generale: il fatto che la Crusca usi spesso e volentieri dei forestierismi nei suoi scritti (e senza metterli in corsivo) sarà percepito da parecchi (in modo assai naturale, sensato!) come un’approvazione implicita e un modello di lingua “curata” da imitare senza problemi.

Si osserva poi che frequentemente i nemici del «prescrittivismo» (parliamo di nuovo di quelli al livello “basso”, i tanti che popolano gli spazi sociali della Rete) mostrano un’aperta antipatia per la ricerca di traducenti, cioè il ragionamento e la discussione su quale possa essere un modo per rendere italianamente un concetto che oggi si indica comunemente con un forestierismo. Tuttavia, anche il ragionamento traduttivo e il conio dei neologismi sono parte normale e naturale di qualsiasi lingua sana: deriderlo, opporvisi, bollarlo come errore e cosa da non fare, disprezzarlo sociolinguisticamente, non è forse a sua volta una forma di prescrittivismo? Quante volte abbiamo sentito sentenziare che un certo anglicismo «è intraducibile», quando in realtà decine di lingue lo traducono normalmente? Quello non sembra descrittivismo, ma vero e proprio prescrittivismo, e anche piuttosto scollato dalla realtà.

Un’altra osservazione, forse minore ma non trascurabile, va fatta proprio sull’elemento prescrittiv-. Il vocabolario Treccani definisce così la parola prescrivere:

Stabilire, ordinare, in base a norme precedentemente fissate, ciò che si deve fare, il comportamento da tenere: la legge, il regolamento prescrive che […]; raccomandare formalmente, consigliare come necessario, utile e sim[ili]: il medico gli ha prescritto una terapia antibiotica, un lungo periodo di riposo. Raro o ant[ico], imporre come norma non trasgredibile, emanare: p. una legge, p. uno statuto; […] Con riferimento al destino e sim[ili], assegnare in modo irrevocabile […]

Si tratta insomma di una parola dalla connotazione forte, che ci fa pensare a un’ingiunzione, un ordine, una norma imposta a cui non si può trasgredire. Prescrizione andava forse bene per descrivere le indicazioni di certi “fustigatori” del cattivo uso linguistico nei secoli scorsi; ma decisamente non si attaglia a quello che facciamo oggi noi oppositori dell’itanglese. Chi legga i testi di Zoppetti, di Valle o miei, vedrà che l’atteggiamento generale è molto lontano da un «tu devi fare questo, tu non devi fare quello»: nella pratica, il nostro è perlopiù un lavoro di ragionamento, proposta e divulgazione. Non si tratta di prescrivere, bensì di consigliare, esortare, invitare, e spesso anche solo di informare sui fatti e le possibilità: perché il nostro lettore possa scegliere autonomamente in modo consapevole, anziché limitarsi magari a ripetere un comportamento che aveva sempre compiuto in modo automatico senza fermarsi a riflettere sul suo significato e la sua sensatezza.

Riassumendo, oggi abbiamo dei «descrittivisti», che però non sono gli unici a descrivere, contrapposti a dei «prescrittivisti», che però prescrivono molto poco, e invece spesso descrivono anch’essi… Le due denominazioni non sembrano ottimali. Possiamo provare a pensare a qualche alternativa.

Un’idea che mi è venuta sarebbe di ridefinire le possibilità di quest’approccio alla lingua in modo simile ma leggermente diverso, parlando non di due ma di tre categorie, che potremmo chiamare interventismo, non interventismo e antinterventismo (specificando eventualmente linguistico, nei tre casi, se necessario). L’interventismo è la posizione di chi è favorevole a un qualche intervento sulla lingua, ossia una “modifica consapevole” di certi elementi linguistici. La consapevolezza di tale operazione è un elemento importante: non è interventista chi si limita a riprendere usi proposti senza sapere che nascono come proposta consapevole.

Per fare qualche esempio, era interventista Trissino con la sua proposta di riforma ortografica; lo era Castellani che invitava ad adattare sport e film in sporte e filme; lo era Alma Sabatini, nel voler rimpiazzare poetessa e profetessa con (la) poeta e (la) profeta. Siamo interventisti, oggi, noi che sosteniamo che si debba fare qualcosa affinché l’italiano conservi i suoi caratteri peculiari di fronte allo tsunami anglicus (espressione di De Mauro); è interventista Michela Murgia, e chi come lei usa lo scevà nei propri testi, seguendo più o meno la proposta di Vera Gheno al riguardo. Un interventista potrebbe desiderare un ritorno al passato, a forme linguistiche ora desuete o meno diffuse, oppure essere fautore d’innovazioni mai viste prima; ad ogni modo, desidera modificare lo stato delle cose: è un riformista, o un rivoluzionario, a seconda delle idee e dei modi.

Il non interventismo è la posizione di chi, di fronte alla lingua e ai suoi possibili mutamenti, non porta avanti alcuna idea di modifica consapevole: non ha desiderio di andare verso un certo obiettivo, ma non ha nemmeno desiderio di impedire ad altri di perseguire i propri, con le eventuali conseguenze. Non sostiene né si oppone: è neutrale.

Terzo e ultimo, l’antinterventismo è la posizione di chi di per sé non propone alcuna modifica linguistica, ma si oppone apertamente a quelle proposte da altri. Sarebbe un sottinsieme particolare dell’interventismo, che non manifesta alcun carattere attivo indipendente ma è puramente reattivo. Per esempio, è antinterventista Cecilia Robustelli, nel criticare la summenzionata proposta dello scevà; sono antinterventisti Vera Gheno e Paolo D’Achille, quando bocciano rete sociale come possibile sostituto di social network; eccetera. L’antinterventista è un conservatore dello stato attuale delle cose, comprensivo eventualmente di caratteri in divenire più o meno costanti e prevedibili; circa l’itanglese, sono conservatori (anglopuristi, li chiama Zoppetti con espressione arguta) quelli che criticano ogni proposta d’italianizzazione, facendosi difensori degli anglicismi e della loro diffusione continua e al momento incontrastata.

Questa suddivisione tripartita è un’idea preliminare, su cui non ho riflettuto a fondo. Altri potranno dare il proprio parere e farsi avanti con eventuali migliorie. Mi è sembrato importante, in ogni caso, dare uno spunto e provare ad avviare la discussione. In chiusura, lascio al mio lettore una riflessione per la quale sono debitore a Gabriele Vietti. È soltanto nel campo della linguistica che osserviamo una contrapposizione così acerba tra studiare l’oggetto della disciplina e usare le proprie conoscenze per tentare di cambiare le cose. Nessun biologo viene deriso e considerato uno stupido se propone di salvare le specie in pericolo, oltre a studiarle; nessun medico è considerato antiscientifico se desidera eliminare una malattia dal corpo del paziente, oltre che studiarla; nessun sociologo viene definito “aberrante” se propone misure per rendere più equa e giusta la società in cui viviamo. Nella linguistica invece assistiamo a questo ostracismo collettivo di cui abbiamo parlato. Ciò, di nuovo, avviene in Italia, ma non è universale: in altri paesi, in particolare gli altri paesi latini, d’Europa e d’America, prossimi a noi linguisticamente, spiritualmente e culturalmente, la situazione è assai differente. Anche questo dovrebbe farci riflettere sull’attuale «anomalia italiana»: per provare innanzitutto a capirla, e poi, magari, ad agire di conseguenza.

*Giulio Mainardi è un traduttore che s’interessa di questioni linguistiche, in particolare di glottotecnica, fonotassi e influenze interlinguistiche. Sulla questione dell’itanglese ha pubblicato Coccotelli, computieri e cani caldi, 2021.»