«Nessun biologo viene deriso e considerato uno stupido se propone di salvare le specie in pericolo, oltre a studiarle; nessun sociologo viene definito “aberrante” se propone misure per rendere più equa e giusta la società in cui viviamo. Nella linguistica invece assistiamo a un ostracismo collettivo»
AUTORE: Giulio Mainardi*

Circa il modo d’approcciarsi ai fenomeni linguistici e al loro studio, oggi s’individuano solitamente due possibilità principali, che vanno sotto i nomi di prescrittivismo e descrittivismo.
Benché questi due termini siano d’uso comune nell’àmbito della linguistica, quasi nessun dizionario li registra nell’accezione di nostro interesse. Tuttavia, visto che il significato con cui sono usati è piuttosto chiaro, possiamo provare a darne noi una descrizione generale.
Con prescrittivismo si indica la posizione di chi intende prescrivere un uso linguistico: il fatto di riconoscere certe forme linguistiche come corrette e altre come sbagliate, e in base a questo definire una norma e dare indicazioni perché le altre persone seguano l’uso individuato come corretto. Un esempio di prescrittivismo potrebbe essere una frase di questo tipo: «In italiano è sbagliato scrivere un’amico con l’apostrofo: si scrive un amico, con lo spazio e senz’apostrofo».
Con descrittivismo, invece, si indica la posizione di chi intende descrivere l’uso linguistico: analizzarlo e cercare di darne una spiegazione scientifica, in modo neutrale, senza prendere una posizione su ciò che è “corretto” o no. Il descrittivista ritiene infatti che il concetto di correttezza, nelle lingue, abbia un valore solo relativo, perché ciò che in un certo tempo è considerato giusto può essere considerato sbagliato in un altro (e viceversa); assume un atteggiamento distaccato e non vuole influenzare l’uso dei parlanti dando indicazioni in un senso o nell’altro: vuole lasciare la lingua a quella che considera evoluzione spontanea, senza cercare di modificarla. Un esempio di descrittivismo potrebbe essere una frase di questo tipo: «Nell’italiano odierno, la scrittura un’amico sarebbe considerata sbagliata dalla grande maggioranza dei parlanti; è comunque un tipo di scrittura relativamente frequente, specie nello scritto affrettato (anche delle persone colte) o presso chi ha scarse competenze ortografiche».

Nella discussione linguistica in Italia, oggi, questa posizione descrittivista è dominante, potremmo quasi dire egemonica. La parola prescrittivista è spesso usata con una connotazione negativa, piuttosto generica, per bollare chi si allontana da tale posizione dominante o prova anche solo a considerarla in modo critico, nel merito oltre la sua vasta diffusione e accettazione. Il vero linguista —si dice— può essere solo descrittivista; chi è prescrittivista non è più uno scienziato, non è più un linguista, o addirittura non capisce nulla di che cos’è veramente la linguistica e di come funziona la lingua. Spesso è ritenuto degno di derisione, non può essere preso veramente sul serio. Talvolta si dice che, in quanto prescrittivista, non può nemmeno amare la lingua. In un noto gruppo pubblico di Facebook dedicato alla linguistica, quando si nomina il prescrittivismo le frasi sono solitamente di questo tenore (le riporto esattamente, errori compresi):
- «Mi sembra che il ruolo della Crusca sia, alternativamente, di linguista e prescrittivista, cosa che può generare confusione nell’utente medio» (leggi: “linguista” e “prescrittivista” sono possibilità alternative);
- «Questo prescrittivismo è aberrante»;
- «L’ennesimo prescrittivista di cui non si sentiva assolutamente il bisogno»;
- «Se ami una lingua non puoi essere un prescrittivista ma un descrittivista»;
- «Monca e prescrittivista è la maniera in cui analizzate la lingua»;
- «Ah sì, la Crusca, i parrucconi santi patroni del prescrittivismo» (sic, detto della Crusca del 2021, non del ’600);
- «Anche se siamo nel terzo millennio i prescrittivisti, detti anche gli imbalsamatori del linguaggio, non mancano mai»;
- «Il purismo e il prescrittivismo negano lo studio descrittivo dei fenomeni linguistici perché li concepisce in maniera statica, cosa che non è assolutamente nella loro natura».
Esternazioni così drastiche sono più frequenti, come ci si aspetterebbe, tra i semplici appassionati, che sono diretti e non moderano i propri pensieri e il proprio linguaggio, e anzi si infervorano nel proposito di “sconfiggere” e umiliare chi identificano come avversario; tuttavia, concetti simili si ritrovano spesso anche a livelli più “alti”, più intellettuali, di chi fa della lingua una professione o comunque una parte importante della propria vita: solo espressi in modo più sottile, sfumato, gentile, simpatico.
È un comportamento generale di cui possiamo vedere facilmente le ragioni alla base. Le lingue mutano, e questo sembra un fatto inevitabile; chi prova a prescrivere ad altri per impedire o guidare tale corso delle cose appare come una persona scollegata dalla realtà, un nostalgico magari anche incattivito, destinato a essere sconfitto dalla storia, domani se non già oggi. L’unica cosa che ha senso fare, quindi, è descrivere, e accettare la continua mutazione della lingua senza tante preoccupazioni.
Tale distinzione binaria parrebbe piuttosto semplice e lineare; tuttavia, un occhio attento noterà che in realtà ci sono alcuni problemi e contraddizioni.

Dal punto di vista pratico, tali problemi riguardano anche l’àmbito principale di cui ci interessiamo qui, cioè la questione dell’itanglese. Come sappiamo, la visione oggi dominante sull’itanglese, facendo una sintesi estrema di tutte le sue variegate sfumature, può riassumersi in due idee (opposte fra di loro): la prima è che «gli anglicismi non minacciano l’italiano»; la seconda è che «l’italiano è destinato a disfarsi in un’anglofonia sempre maggiore, e questo non è un male; e, se anche lo consideriamo un male, non ci si può far niente». Chi esprime una critica a tali posizioni riceve, tra gli altri appellativi —fascista, autarchico, nazionalista, senofobo, purista, retrivo, eccetera; dei quali non parliamo ora, perché servirebbe un discorso a parte per ognuno— quello di prescrittivista. Questo è un problema, perché chi è bollato così, come abbiamo capito dai commenti riportati sopra, è percepito automaticamente come squalificato, non attendibile: le sue parole sono derise senza nemmeno provare a capirle, e i suoi tentativi d’intavolare una discussione seria oltre gli stereotipi s’infrangono contro un muro di gomma.
La distinzione fra prescrittivismo e descrittivismo si presenta problematica e dubbia già dal punto di vista teorico, usando una terminologia che si presta facilmente a equivoci. Infatti, con la loro opposizione queste due parole ci trasmettono —spesso senza che ce ne rendiamo conto— l’idea che chi prescrive (il prescrittivista) non descrive, mentre chi descrive (il descrittivista) non prescrive, in un’esclusione reciproca delle due cose. Ciò può essere vero nel caso di chi si identifica come descrittivista; mentre quasi sicuramente non è vero nel caso di chi viene identificato (perché, chiaramente, quasi nessuno si identifica così da sé) come prescrittivista.

Le persone che assumono un punto di vista critico nei confronti dell’itanglese e sostengono l’utilità di un qualche intervento al riguardo (non parlo ora degli interessati occasionali, il cui interesse può anche essere superficiale, ma di chi ha dedicato ampio tempo e reale impegno all’approfondimento della materia) sono spesso, infatti, studiosi veri e propri, a volte dilettanti e non professionisti, ma comunque persone che hanno un notevole interesse per l’osservazione scientifica dei fatti linguistici; sui risultati di tale studio, di tale osservazione e descrizione, baseranno poi le loro eventuali indicazioni su quale uso ritengano preferibile. Adoperare la parola prescrittivista, nei confronti di queste persone (fra le quali mi includo), è dunque equivoco, perché sembra privarci del fatto della descrizione che, dall’altro lato, caratterizza invece il descrittivista: negandoci così l’appoggio sulla realtà che è il fondamento di qualsiasi discorso sensato. A conti fatti, invece, anche noi descriviamo, come gli altri; solo, le nostre descrizioni, le conclusioni delle nostre analisi, hanno la “colpa” di non concordare, oggi, con la corrente dominante (dominante in Italia, s’intende, sempre; in altri paesi la situazione è diversa). Anziché affrontare una discussione sul merito della questione, per chi è in maggioranza risulta comodo, meno impegnativo intellettualmente, associarci a un’etichetta di fatto escludente, il «prescrittivismo»: facendo ciò si liquida qualsiasi ragionamento scomodo, che potrebbe turbare la convinzione comune e costringere a una riflessione e un’autocritica, un processo che è sempre faticoso per tutti.
In secondo luogo, bisogna osservare che un descrittivismo “perfetto”, che voglia solo conoscere l’oggetto del suo studio —la lingua— senza influenzarlo in alcun modo, è un puro ideale irraggiungibile: qualunque descrittivista vive nel mondo e, pertanto, vivendo lo influenza in qualche modo, che lo voglia o no. Nel momento in cui rende pubblici i suoi studi, questi inevitabilmente modificheranno in qualche modo il comportamento linguistico dei suoi lettori. Sappiamo che la Crusca, le cui esternazioni oggi hanno in prevalenza un atteggiamento prettamente descrittivista, mette in cima alle sue schede sulle «parole nuove» l’avviso che «Questa scheda non promuove né ufficializza l’uso della parola trattata, ma intende fornire strumenti di comprensione e approfondimento». Tuttavia, ancora e ancora molti lettori interpretano tali schede come una sorta di approvazione da parte della più prestigiosa autorità italiana in materia di lingua. Spesso il fraintendimento è alimentato dai giornalisti, che, sbagliando, riportano magari che la Crusca «approva», «accetta», «aggiunge al vocabolario italiano» questa o quella parola, contribuendo a cascata a farla conoscere, usare, e quindi rafforzandola e radicandola nel corpo vivo della lingua. La Crusca è cosciente di questi fatti, e l’avviso appena citato e le professioni di descrittivismo lo dimostrano; tuttavia, nonostante i fraintendimenti ricorrano, con la conseguenza di modificare la lingua, l’Accademia persiste e non cambia (o cambia solo pochissimo) le proprie modalità comunicative. Non si vuole modificare la lingua, eppure si fa qualcosa che —si sa— la modificherà lo stesso… Se si fa questo, ha veramente senso dire che «non si vuole modificare la lingua»? Di fatto, un ente «descrittivista» come la Crusca odierna, coi suoi interventi, altera l’evoluzione dell’italiano in modo un milione di volte più grande di quanto possa fare un gruppetto di «prescrittivisti» del tutto sconosciuti al grande pubblico. Un discorso simile si potrebbe fare, oltre all’oggetto linguistico trattato, proprio sul modo di trattarlo, di esprimersi in generale: il fatto che la Crusca usi spesso e volentieri dei forestierismi nei suoi scritti (e senza metterli in corsivo) sarà percepito da parecchi (in modo assai naturale, sensato!) come un’approvazione implicita e un modello di lingua “curata” da imitare senza problemi.
Si osserva poi che frequentemente i nemici del «prescrittivismo» (parliamo di nuovo di quelli al livello “basso”, i tanti che popolano gli spazi sociali della Rete) mostrano un’aperta antipatia per la ricerca di traducenti, cioè il ragionamento e la discussione su quale possa essere un modo per rendere italianamente un concetto che oggi si indica comunemente con un forestierismo. Tuttavia, anche il ragionamento traduttivo e il conio dei neologismi sono parte normale e naturale di qualsiasi lingua sana: deriderlo, opporvisi, bollarlo come errore e cosa da non fare, disprezzarlo sociolinguisticamente, non è forse a sua volta una forma di prescrittivismo? Quante volte abbiamo sentito sentenziare che un certo anglicismo «è intraducibile», quando in realtà decine di lingue lo traducono normalmente? Quello non sembra descrittivismo, ma vero e proprio prescrittivismo, e anche piuttosto scollato dalla realtà.
Un’altra osservazione, forse minore ma non trascurabile, va fatta proprio sull’elemento prescrittiv-. Il vocabolario Treccani definisce così la parola prescrivere:
Stabilire, ordinare, in base a norme precedentemente fissate, ciò che si deve fare, il comportamento da tenere: la legge, il regolamento prescrive che […]; raccomandare formalmente, consigliare come necessario, utile e sim[ili]: il medico gli ha prescritto una terapia antibiotica, un lungo periodo di riposo. Raro o ant[ico], imporre come norma non trasgredibile, emanare: p. una legge, p. uno statuto; […] Con riferimento al destino e sim[ili], assegnare in modo irrevocabile […]

Si tratta insomma di una parola dalla connotazione forte, che ci fa pensare a un’ingiunzione, un ordine, una norma imposta a cui non si può trasgredire. Prescrizione andava forse bene per descrivere le indicazioni di certi “fustigatori” del cattivo uso linguistico nei secoli scorsi; ma decisamente non si attaglia a quello che facciamo oggi noi oppositori dell’itanglese. Chi legga i testi di Zoppetti, di Valle o miei, vedrà che l’atteggiamento generale è molto lontano da un «tu devi fare questo, tu non devi fare quello»: nella pratica, il nostro è perlopiù un lavoro di ragionamento, proposta e divulgazione. Non si tratta di prescrivere, bensì di consigliare, esortare, invitare, e spesso anche solo di informare sui fatti e le possibilità: perché il nostro lettore possa scegliere autonomamente in modo consapevole, anziché limitarsi magari a ripetere un comportamento che aveva sempre compiuto in modo automatico senza fermarsi a riflettere sul suo significato e la sua sensatezza.
Riassumendo, oggi abbiamo dei «descrittivisti», che però non sono gli unici a descrivere, contrapposti a dei «prescrittivisti», che però prescrivono molto poco, e invece spesso descrivono anch’essi… Le due denominazioni non sembrano ottimali. Possiamo provare a pensare a qualche alternativa.
Un’idea che mi è venuta sarebbe di ridefinire le possibilità di quest’approccio alla lingua in modo simile ma leggermente diverso, parlando non di due ma di tre categorie, che potremmo chiamare interventismo, non interventismo e antinterventismo (specificando eventualmente linguistico, nei tre casi, se necessario). L’interventismo è la posizione di chi è favorevole a un qualche intervento sulla lingua, ossia una “modifica consapevole” di certi elementi linguistici. La consapevolezza di tale operazione è un elemento importante: non è interventista chi si limita a riprendere usi proposti senza sapere che nascono come proposta consapevole.
Per fare qualche esempio, era interventista Trissino con la sua proposta di riforma ortografica; lo era Castellani che invitava ad adattare sport e film in sporte e filme; lo era Alma Sabatini, nel voler rimpiazzare poetessa e profetessa con (la) poeta e (la) profeta. Siamo interventisti, oggi, noi che sosteniamo che si debba fare qualcosa affinché l’italiano conservi i suoi caratteri peculiari di fronte allo tsunami anglicus (espressione di De Mauro); è interventista Michela Murgia, e chi come lei usa lo scevà nei propri testi, seguendo più o meno la proposta di Vera Gheno al riguardo. Un interventista potrebbe desiderare un ritorno al passato, a forme linguistiche ora desuete o meno diffuse, oppure essere fautore d’innovazioni mai viste prima; ad ogni modo, desidera modificare lo stato delle cose: è un riformista, o un rivoluzionario, a seconda delle idee e dei modi.
Il non interventismo è la posizione di chi, di fronte alla lingua e ai suoi possibili mutamenti, non porta avanti alcuna idea di modifica consapevole: non ha desiderio di andare verso un certo obiettivo, ma non ha nemmeno desiderio di impedire ad altri di perseguire i propri, con le eventuali conseguenze. Non sostiene né si oppone: è neutrale.
Terzo e ultimo, l’antinterventismo è la posizione di chi di per sé non propone alcuna modifica linguistica, ma si oppone apertamente a quelle proposte da altri. Sarebbe un sottinsieme particolare dell’interventismo, che non manifesta alcun carattere attivo indipendente ma è puramente reattivo. Per esempio, è antinterventista Cecilia Robustelli, nel criticare la summenzionata proposta dello scevà; sono antinterventisti Vera Gheno e Paolo D’Achille, quando bocciano rete sociale come possibile sostituto di social network; eccetera. L’antinterventista è un conservatore dello stato attuale delle cose, comprensivo eventualmente di caratteri in divenire più o meno costanti e prevedibili; circa l’itanglese, sono conservatori (anglopuristi, li chiama Zoppetti con espressione arguta) quelli che criticano ogni proposta d’italianizzazione, facendosi difensori degli anglicismi e della loro diffusione continua e al momento incontrastata.
Questa suddivisione tripartita è un’idea preliminare, su cui non ho riflettuto a fondo. Altri potranno dare il proprio parere e farsi avanti con eventuali migliorie. Mi è sembrato importante, in ogni caso, dare uno spunto e provare ad avviare la discussione. In chiusura, lascio al mio lettore una riflessione per la quale sono debitore a Gabriele Vietti. È soltanto nel campo della linguistica che osserviamo una contrapposizione così acerba tra studiare l’oggetto della disciplina e usare le proprie conoscenze per tentare di cambiare le cose. Nessun biologo viene deriso e considerato uno stupido se propone di salvare le specie in pericolo, oltre a studiarle; nessun medico è considerato antiscientifico se desidera eliminare una malattia dal corpo del paziente, oltre che studiarla; nessun sociologo viene definito “aberrante” se propone misure per rendere più equa e giusta la società in cui viviamo. Nella linguistica invece assistiamo a questo ostracismo collettivo di cui abbiamo parlato. Ciò, di nuovo, avviene in Italia, ma non è universale: in altri paesi, in particolare gli altri paesi latini, d’Europa e d’America, prossimi a noi linguisticamente, spiritualmente e culturalmente, la situazione è assai differente. Anche questo dovrebbe farci riflettere sull’attuale «anomalia italiana»: per provare innanzitutto a capirla, e poi, magari, ad agire di conseguenza.
*Giulio Mainardi è un traduttore che s’interessa di questioni linguistiche, in particolare di glottotecnica, fonotassi e influenze interlinguistiche. Sulla questione dell’itanglese ha pubblicato Coccotelli, computieri e cani caldi, 2021.»
