Frammento di un articolo del Corriere della Sera /Corriere del Veneto: «Mio fratello Niccoló Ghedini, scapestrato in gioventù e insonne di talento», 19/08/2022.
Ci sono milioni e milioni di italiani che non hanno studiato l’inglese, oppure che lo hanno studiato poco, male e/o molto tempo fa. Per queste persone, la stragrande maggioranza di termini inglesi sono comprensibili quanto lo è la lingua ungherese.
Nell’immagine, abbiamo sostituito i termini inglesi usati dal Corriere della Sera, e comprensibili a un numero molto ristretto di lettori, con gli equivalenti in ungherese (lingua che, ci azzardiamo a dire, è sconosciuta virtualmente alla totalità degli italiani) per darvi un’idea di come si sente il lettore medio italiano dinnanzi ai continui schiaffi linguistici che si deve sorbire ogni volta che legge siti internet, giornali o riviste magazine, oppure ogni volta che guarda le notizie news, ascolta pubblicità, va a fare le spese shopping, o utilizza servizi pubblici.
L’incapacità di provare empatia verso milioni di potenziali lettori e utenti da parte di un numero notevole di giornalisti, pubblicitari e politici italiani non è solo stupefacente, ma è elitista da fare schifo.
Quando la preoccupazione di chi parla o scrive non è la comprensibilità per l’interlocutore, ma è invece il voler giocare a fare il figo internescional, sorge un problema grave di esclusione.
In altre parole, l’itanglese (o l’abuso sistematico di anglicismi in italiano) crea problemi di inclusione. Esclude, taglia fuori, discrimina, emargina, mette in difficoltà.
«Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso». AUTORE: Giovanni Bruni
Per una serie di circostanze fortuite, mi sono imbattuto in due manifestazioni del pensiero sul linguaggio: una inconsapevole, l’altra ben meditata; perfettamente contrapposte e quindi l’una causa dell’altra.
Gli annunci di lavoro sono un interessante laboratorio linguistico. Un individuo, che spesso par non sapere nulla della posizione organizzativa di lavoro al fine di coprir la quale cerca candidati, ambisce a fornire un quadro suggestivo e attraente del ruolo cercato. Deve farlo in poche righe di testo e, a giudicare dal risultato, la chiarezza e la precisione non sembrano requisiti essenziali: si oscilla tra il comico e il grottesco. La vittima principale di questo sovrumano sforzo creativo è proprio il linguaggio. Ecco un esempio freschissimo, uno tra i tantissimi possibili:
Chi non vorrebbe essere ‘adibito all’hunting di clienti energivori’? Armato della propria insalata verbale schizofrenica, l’autore non fa prigionieri: inglesismi assurdi, tautologie topologiche, ostentazione di abbreviazioni e acronimi, aggettivi e verbi inesistenti o di derivazione informatica, punteggiatura lacunosa e perfino un sublime ‘e,’.
Potrebbe bastare, ma c’è una chicca finale: tra i motivi che inducono il solerte selezionatore (magari anche autore dell’annuncio) a cestinare immediatamente un curriculum vitae, qual è di gran lunga il principale?
Ovvero, per essere ancora più chiari: Lo immaginiamo così: armato di penna rossa, subissato da quelli che si ostina a chiamare curricula perché non sa che in italiano il plurale dei termini stranieri si rende sempre e solo usando il numero dell’articolo che li precede, il Nostro si fa carico del gravoso compito di impedire che qualcuno vada a far danno in azienda con la propria ortografia zoppicante o, peggio, con la trascuratezza di colui che non rilegge quanto ha scritto.
Se ne deve dedurre che chi pubblica certi annunci di lavoro li ha perfino riletti?
La degenerazione del linguaggio è un indicatore preciso. Lo è come le parole di Gianrico Carofiglio, che, precedute da quelle perfette di Primo Levi, la precisione personificata, rispecchiano il mio pensiero:
Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. (Primo Levi, Dello scrivere oscuro)
Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è un lusso da intellettuali o una questione accademica. È un dovere cruciale dell’etica civile. “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza”. Sono parole del filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali. Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso. L’antidoto è la scrittura civile, cioè quella limpida e democratica, rispettosa delle parole e delle idee. Scrivere bene, in ogni campo, ha un’attinenza diretta con la qualità del ragionamento e del pensiero. Implica chiarezza di idee da parte di chi scrive e produce in chi legge una percezione di onestà. (…) Ciascuno di noi dovrebbe prestare una cura disciplinata della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello (apparentemente) passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo. Anche perché solo parole che rispettino i concetti, le cose, i fatti possono rispettare la verità.