Frammento di un articolo del Corriere della Sera /Corriere del Veneto: «Mio fratello Niccoló Ghedini, scapestrato in gioventù e insonne di talento», 19/08/2022.
Ci sono milioni e milioni di italiani che non hanno studiato l’inglese, oppure che lo hanno studiato poco, male e/o molto tempo fa. Per queste persone, la stragrande maggioranza di termini inglesi sono comprensibili quanto lo è la lingua ungherese.
Nell’immagine, abbiamo sostituito i termini inglesi usati dal Corriere della Sera, e comprensibili a un numero molto ristretto di lettori, con gli equivalenti in ungherese (lingua che, ci azzardiamo a dire, è sconosciuta virtualmente alla totalità degli italiani) per darvi un’idea di come si sente il lettore medio italiano dinnanzi ai continui schiaffi linguistici che si deve sorbire ogni volta che legge siti internet, giornali o riviste magazine, oppure ogni volta che guarda le notizie news, ascolta pubblicità, va a fare le spese shopping, o utilizza servizi pubblici.
L’incapacità di provare empatia verso milioni di potenziali lettori e utenti da parte di un numero notevole di giornalisti, pubblicitari e politici italiani non è solo stupefacente, ma è elitista da fare schifo.
Quando la preoccupazione di chi parla o scrive non è la comprensibilità per l’interlocutore, ma è invece il voler giocare a fare il figo internescional, sorge un problema grave di esclusione.
In altre parole, l’itanglese (o l’abuso sistematico di anglicismi in italiano) crea problemi di inclusione. Esclude, taglia fuori, discrimina, emargina, mette in difficoltà.
Questa volta è Il Corriere della Sera a rappresentare l’Italia di fronte ai suoi colleghi francesi di Libération, quelli spagnoli de La Razón e i tedeschi del Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Dopo aver analizzato i forestierismi e italianismi su The Guardian a Novembre e Dicembre e su The Times nei mesi di Gennaio e Febbraio, abbiamo ora scelto di contare quelli presenti sul maggior quotidiano irlandese, The Irish Times. I risultati sono sempre nella stessa direzione. Anzi, questa settimana l’Irish Times ha pubblicato addirittuta zero italianismi (e 8 forestierismi) in totale contro i 374 anglicismi puri, cioè parole inglesi (o pseudo tali, come «smart working» o «fashion addicted«) sul Corriere della Sera.
Risulta straordinario, per la nona settimana consecutiva, che i quotidiani di Francia, Spagna e Germania, quale che sia il loro orientamento politico, riescano a pubblicare notizie e rubriche usando una frazione degli (pseudo)anglicismi dei loro colleghi italiani. Gli anglicismi esistono anche negli altri Paesi europei, sia chiaro, ma ne abbiamo computati meno di 1/4 nel caso di Libération e Frankfurter Allgemeine Zeitung, e addirittura 1/6 nel caso de La Razón rispetto al Corriere.
Del resto non si tratta di nulla di particolarmente differente rispetto alle misurazioni delle settimane precedenti. Certo ci sono differenze di impostazione editoriale, per cui notiamo come il Frankfurter Allgemeine Zeitung, di orientamento conservatore, sia molto meno incline a usare anglicismi dei loro colleghi di Welt, quotidiano liberale. Al contrario, La Razón, giornale spagnolo di destra-destra sembra usarli molto più allegramente di El País, di centro sinistra, fedelissimo in maniera eccezionale alla lingua castellana.
Notiamo che l’uso di anglicismi di Libération è quasi esclusivamente confinato ai titoli di rubriche (CheckNews, Interview, Lifestyle), ragione per la quale la conta rileva moltissime ripetizioni.
In ogni caso, non c’è assolutamente paragone con i corrispettivi italiani. Non soltanto dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Quello che rilevammo con la Repubblica e la Stampa continua praticamente identico con il Corriere della Sera. Quasi sempre non si tratta di qualche titoletto dal sapore esotico per «colorare» un pezzo. L’uso di (pseudo)anglicismi è endemico, costante, incessante, e su di essi si regge concettualmente la presentazione di dozzine di titoli, occhielli e sommari. Ecco dunque la sfilata di rubriche intitolate in inglese (Cook – sulla gastronomia, Data Room, LogIn, Italians, Heavy Rider, Trading Post, Radio Italians, Corriere Daily Podcast, ecc), giochi di parole («Mal di Tech«), nonché la solita valanga di anglicismi in TUTTI gli ambiti, dalla politica alla moda, dalla tecnologia alla medicina, dalle cronache alla guerra, dalla gastronomia allo sport. Così come la pandemia si è presentata agli italiani come un’ottima occasione per ingozzarsi di (pseudo)anglicismi, così il triste avvento dell’invasione russa in Ucraina sta dando luogo a una scorpacciata di tank, Putin-show, task force, no-fly zone, bunker, social media war, peacekeeping, security, intelligence e altri prestiti linguistici completamente evitabili.
Nel giro di vent’anni, in alcuni casi anche meno, la frequenza degli anglicismi in Italia è aumentata in maniera impressionante. E c’è gente che lo nega. AUTORE: Peter Doubt* L’uso di pseudoanglicismi nella lingua italiana sta crescendo esponenzialmente. Questo fatto continua ad essere negato, inspiegabilmente, da un numero considerevole di «amanti della lingua» italiani. Alcuni sono arrivati a dire addirittura che si tratta di un fenomeno passeggero.
Siamo dunque andati ad analizzare alcune parole consultando gli archivi elettronici dei tre quotidiani più venduti del Paese. Eccovi un brevissimo resoconto della tendenza in atto. Abbiamo iniziato con la parola match, il cui uso è sestuplicato nel giro di trent’anni.
Ancora più interessante è il confronto tra l’ormai onnipresente big match e l’italianissimo, ma sempre più desueto, «partitissima«. Nel periodo 1984-2000 erano quasi alla pari. Con l’arrivo del nuovo millennio la tendenza è diventata chiarissima, con un cambio esponenziale. Nel 2000-2010, big match è apparso oltre il doppio delle volte di «partitissima». Nel 2010-2020, circa sette volte in più. Partitissima ha iniziato una parabola discendente, mentre big match si usa ormai con una frequenza TRENTA volte superiore agli anni 80 e 90. Nel biennio 2020-21, la parola è apparsa su Repubblica quasi quattro volte in più che nei sedici anni tra il 1984 e il 2000.
Ovviamente la tendenza è visibile anche negli altri quotidiani nazionali:
Restando in ambito calcistico, guardate come scorer, spesso accoppiato con top e praticamente sconosciuto in Italia fino al 2000, sia ora il termine preferito per indicare cannoniere. Non potevamo poi non esaminare smart, dato che in Italia si usa più che nei Paesi anglosassoni. Dal 1984 al 2000, la parola è apparsa 338 volte su la Repubblica, molte dei quali per riferirsi a cognomi, come l’attrice Rebekah Smart, o all’automobile Smart. Dal 2000 al 2010 la frequenza è quasi decuplicata (3074 volte) per poi di nuovo quadruplicarsi (13675 risultati) tra il 2010 e il 2020. Solamente nell’ultimo biennio (2020-22) è già apparsa 7635 volte. Ormai c’è di tutto: smart city, smart building, smart living, smart washing, location smart, smart retail, sportello smart, smart factory, smart speaker, i cassonetti smart (!), le case smart e molti altri, addirittura la Genova Smart Week. C’è da scommettere che di questo passo tra poco persino la carta igienica smart sarà disponibile.
Passiamo all’ambito parlamentare, dove appare uno degli esempi più chiari di distruzione linguistica decretata dall’alto. L’utilizzo di Interrogazioni parlamentari è letteralmente crollato dal 2010 in poi, spinto fuori a gomitate dall’anglicismo dal contesto sbilenco conosciuto come question time. Poi ci sono fattorino e garzone, entrambi ormai disintegrati da rider. Tra il 1984 e il 2010 i risultati degli archivi di Repubblica per rider si riferiscono quasi esclusivamente ad altri ambiti, specialmente il vecchio navigatore Tom Tom Rider, il film Easy Rider e il nome – scritto male – del videogioco Tomb Raider (appunto, non Tomb Rider come scriveva la Repubblica negli anni 90 e 2000). Il vero paragone inizia a partire dall’anno 2010. Da quella data in poi, rider emerge e fa piazza pulita. È ormai utilizzato il triplo di fattorino e garzone (quest’ultimo particolarmente moribondo) messi insieme.
Trasferiamoci in un altro ambito. Le compere, che ormai si chiamano shopping. Guardate questo:
Si noti come l’espressione «fare shopping» abbia completamente annichilito, negli ultimi 20 anni, gli equivalenti italiani «fare le compere» e «fare le spese» che infatti, a partire dal 2010 hanno iniziato un lieve declino. E dove lo fanno questo shopping, gli italiani? Nei negozi, certo, e nei centri commerciali, ma mentre botteghe, esercizi e grandi magazzini sono in stasi o in caduta libera, trionfano sempre di più store, outlet e mall, moltiplicatisi di quattro o cinque volte solamente rispetto al periodo 2000-2010.
E mentre vanno a fare shopping nei mall, magari utilizzando i gift voucher e facendosi aiutare dagli shopassistant, gli italiani comprano sempre più le brand. Osservate come, sebbene in buona salute, al contrario dei suoi sinonimi griffa o firma, la parola marca sia stata addirittura sorpassata da brand durante il decennio 2010-2020. In Italia, brand si usa ormai oltre 140 volte di più che nel periodo 1984-2000.
Tra il 1984 e il 2000 fine settimana e weekend si usavano praticamente alla pari. Dal nuovo millennio in poi, l’espressione anglo ha preso il volo e ora si usa il doppio che il vecchio fine settimana.
Ancora più deprimenti sono le centinaia di esempi in ambito accademico. Quello che vi mostriamo è il moribondo Economia e Commercio. Si usa ormai la metà che nel decennio 2000-2010 e il suo declino appare inesorabile, ovviamente a favore del sempre più trendy e coolBusiness School, e scusate la rima.
La direzione è identica se guardiamo ovazione, che rallenta sempre di più a vantaggio del nuovo arrivato standing oveiscion, che aumenta esponenzialmente e che si utilizza ormai il doppio dell’equivalente italiano.
Altra parola di cui gli italiani sembrano essersi innamorati è location, che in Italia si pronuncia locheiscion e che in inglese ha un significato molto circoscritto. In Italia, invece, tutto è una locheiscion. Guardate le cifre. Usato ormai 150 volte in più rispetto agli anni 80 e 90 e ormai tre volte in più rispetto al suo equivalente nella lingua sfigata.
E concludiamo con botteghino, che fino al 2000 si usava ancora il triplo dell’anglismo box office, mentre oggi appare in netta ritirata.
Insomma, per citare il conduttore di RaiNews Lorenzo Di Las Plassas, uno dei pochissimi giornalisti ad aver colto la magnitudine del problema, «non si è sviluppata la sensibilità per la quale se un anglicismo entra dalla porta, è una parola italiana a uscire dalla finestra. Non sono parole che si aggiungono, sono parole che si sostituiscono«.
Nel nostro prossimo articolo analizzeremo più approfonditamente la lista sempre più lunga di parole italiane in fila sul viale del tramonto.
*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete e vive in Spagna da quasi 15 anni.