Annunci di lavoro: il cimitero dell’italiano

La rapida morte della lingua italiana nel mondo aziendale

di Peter Doubt*

«Tranquilli, l’italiano è in buona salute«, afferma il nuovo Presidente CEO dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille. E non è il solo. Sono anni che sentiamo parlare di «vitalità dell’italiano«, o che l’italiano sta bene«, «sano e vitale«, che «la lingua italiana è vispa«, che «non bisogna fare allarmismi«, e tante altre frasi che, in quanto a diniego e deliri di ottimismo, darebbero del filo da torcere a Candido di Voltaire o, se preferite una referenza più contemporanea, a SpongeBob.

La questione non è che ci sarebbe bisogno di condannare o abiurare la rapida creolizzazione / ibridizzazione dell’italiano. Perché ad alcuni potrebbe persino, legittimamente, piacere. Quello che è davvero stupefacente è come si possa sonnecchiare e far finta che non stia succedendo nulla (al limite della negligenza professionale) di fronte a un fenomeno di dimensioni titaniche.

Per esempio, verrebbe voglia di chiedere alla classe linguistica italiana da quanto tempo è che non danno uno sguardo alle inserzioni di lavoro in Italia o al modo di comunicare di una qualsiasi azienda italiana. Perché sono in atto due fenomeni dalla portata gigantesca, e non saranno né la solita e superficialissima reductio ad absurdum con le mani nelle orecchie del tipo «e che dobbiamo fare tradurre dire pellicola invece di film?», né gli iperbolici riferimenti al «ventennio» a far andar via la realtà.

Per primo, si noti la vera e propria abdicazione della lingua italiana dalle definizioni dei ruoli aziendali e mansioni. Parliamo di proporzioni assurde lungo una scala temporale rapidissima.
Nel giro di vent’anni sono sempre di meno (e sempre più una sparuta minoranza) lavori e professioni definiti in italiano – attenzione – in TUTTI i settori, non soltanto l’informatica IT.
E prima che si innesti il solito meccanismo di diniego, no, non ci riferiamo solo a multinazionali che operano in Italia. Succede a tutti i livelli, dall’ hairstylist (parrucchiere) al barman (barista, quest’ultimo paradossalmente in ascesa nel mondo anglosassone ), dal CEO (Direttore responsabile o Presidente) al accountant (ragioniere), e dal train manager (capotreno) all’editor (redattore), alla shop assistant (commessa), al rider (versione in inglese farlocco di fattorino/garzone), o al Press Office Manager (capo ufficio stampa), per non parlare dello pseudoinglese del Board (con tanto di «of Directors» sistematicamente troncato), ovvero il consiglio d’amministrazione, e dell’onnipresente HR invece di risorse umane. L’immagine qui sotto è presa da una agenzia italiana, per ruoli in Italia, in imprese italiane. Potete contare le parole in italiano su una mano.

Si deduce la presenza di un elemento paralinguistico. La lingua superiore, quella che agli italiani fa eccitare anche se non la capiscono, compie la funzione di nobilitare le professioni, di darle un tocco in più, perfettamente in linea con l’era del narcisismo con gli steroidi di cui facciamo parte. Resta la sensazione, vista da fuori (chi vi scrive non vive in Italia), che gli italiani si vergognino di chiamare le cose con il proprio nome, nella propria lingua, anche se stanno parlando tra loro stessi.

Tale anglocosmesi non si riferisce semplicemente al nome delle professioni. E qui veniamo al secondo punto: gli annunci o offerte di lavoro, sempre più saturate di (pseudo)anglicismi, in alcuni casi rasentando l’autoparodia.

Il lettore che abbia un po’ di dimestichezza con la rete sociale LinkedIn (o con qualsiasi sito o agenzia con offerte di lavoro), avrà visto come la lingua italiana stia fungendo sempre di più da «contenitore» per concetti chiave espressi inevitabilmente in (pseudo)inglese. E non si tratta affatto di tecnicismi. Termini perfettamente validi quali selezione, reclutamento, progettazione, quartier generale, rete, specialista, ingegnere, assistente, direttore, seguito, filiale, formazione, libropaga, dettaglio e centinaia d’altri, sono in fase di sostituzione, di rapidissima ritirata, lasciando il campo a un uragano di (con maiuscole spesso buttate lì a casaccio) talent acquisition, specialist, headquarters, engineer, retail, assistant, project manager, branch director, network, content creator, upskilling, engagement, payroll e così via.

Ora, come sempre non si può negare la portata globale del fenomeno. Negli stessi Paesi anglosassoni si nota sempre di più la correlazione interessantissima tra caduta libera delle condizioni di lavoro (con relativo aumento di precarietà) e simultaneo mutamento delle denominazioni di ruoli e settori professionali: un elemento, appunto, di «cosmesi» secondo il quale recruitment ora si dice Talent Acquisition, un semplice secretary diventa Assistant Director, un receptionist si converte in Office Manager, e vari schiavi o semitali assumono il ruolo altisonante di HRBP (Human Resources Business Partner), VP di qualcuno o qualcosa, per non parlare dei vari Visiting Professor, SDR, Sales Reps, Customer Service Assistant, e così via. Professioni da nomi pomposi accompagnati da una realtà molto più deludente (e sempre più precaria). In pratica, la normalizzazione di eufemismi professionali, spesso effettuata a colpi d’acronimo, e a cui tutti (imprese concorrenti e lavoratori) si adeguano rapidamente, terrorizzati dalla possibilità di apparire obsoleti, ovvero uncool – cosa che nel mondo anglosassone è considerata peggio del fuoco degli inferi, da veri e propri reietti umani.

Ciò che distingue l’Italia è che la corsa alla cosmesi e alla comunicazione ingannevole dentro il mondo aziendale sta avvenendo in un’altra lingua, in (pseudo)inglese, rendendo il distacco tra realtà e finzione ancora più sorprendente e surreale. Se il problema fosse solamente l’assenza di senso del ridicolo, non staremmo qui a perdere tempo. La sostanza è che quasi a nessuno gliene frega del fatto che ampie fasce della lingua italiana – e dunque della cultura italiana – si stanno beccando randellate così forti e continue da condannare centinaia di termini all’obsolescenza quasi immediata, escludendo nel contempo dalla comunicazione milioni di italiani.

L’immagine qui sotto mostra l’irruzione di intere locuzioni inglesi o pseudoinglesi nella comunicazione, un goffo minestrone non solamente dalle sfumature comiche o addirittura deliranti, ma spesso anche di difficile comprensione anche per persone con conoscenza dell’inglese madrelingua o bilingue. Alla faccia dell’inclusione.
#Cosìmuoreunalingua

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 17 anni.

11 supercazzole itanglesi

La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita

Recentemente un membro della Campagna per Salvare l’italiano faceva notare che «La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita». Eccovene alcune:

1) Sí, ma la parola italiana è cacofonica, in inglese suona meglio.
Questo l’ha detto un angloinvasato giustificando l’uso sempre più smodato (nonché escludente e discriminatorio) di cartelli per denominare certi reparti ospedalieri come STROKE UNIT o BREAST UNIT.
Cioé, avete capito. Cacofonico sarebbe utilizzare parole come «senologia» o «reparto» e non stroke, breast o unit, che tra l’altro milioni di italiani non saprebbero pronunciare o riconoscere per bene.
Senza contare la pochezza mentale, narcisismo ed egocentrismo di chi, dall’alto [presunto] del suo giocare a fare l’internescional fornisce patenti di cacofonia a parole italiane perfettamente usate ed utilizzabili.

2) Sí, ma standing ovation non è proprio lo stesso di ovazione
Perfetto esempio del non-è-proprismo tipicamente italiota, per citare Antonio Zoppetti.
Quando vogliono loro gli angloinvasati alla precisione scientifica ci tengono. Poi però magari parlano di «droplet», a cazzo.

3) Sí, ma è chiaro che ci sono tante parole inglesi, le invenzioni, il digitale e la tecnologia, no?
Ebbè, chiaro. E allora non facciamo prima ad abolirle le traduzioni?
Del resto, se così fosse, invece di dire lampadina gli italiani direbbero lightbulb. Invece di automobile, motorwagen (dal tedesco Carl Benz). E così via con antibiotics, le réfrigérateur, fregasuelos, telephone, wagonways e microwave.
Eppure no, perché quando quelle invenzioni ebbero luogo, la lingua italiana era ancora viva, elastica, capace di adattare, riadattare ed evolversi. Al contrario di oggi, rattrappita, che non adatta e non si evolve, ma scopiazza, sostituisce e prende in prestito, anche se male.

4) Sí, ma fanno tutti così, anche negli altri Paesi
No, non è vero. Dirlo è, se va bene, da ignoranti con scarsa capacità d’osservazione e, se va male, intellettualmente disonesto. A parte il semplice visitare e vivere fuori dall’Italia, ci sono TONNELLATE di esempi che indicano il contrario, e lo indicano alla grande. Guardate la nostra analisi comparativa dei quotidiani europei, ma anche questo, questo, e – più recentemente, il trattamento riservato alla lingua italiana, unica ad essere sostituita in copertina tra le edizioni europee del libro di Harry Windsor. L’abuso di [pseudo]inglese nell’Italia di oggi è solamente secondo alle ex-colonie britanniche. Se dovete farlo, almeno non fate finta che non sia vero, altrimenti sono solo supercazzole.

5) Sì, ma in Spagna traducono perché è un retaggio di Franco
Questa è del poveraccio che crede di fare il colto con il riferimento politico/storico, senza sapere di essere ignorante come una scarpa. La dittatura di Franco mise in piedi politiche discriminatorie linguistiche verso le altre lingue del territorio spagnolo (basco e catalano, per esempio). Non c’era alcuna restrizione verso i forestierismi e lingue esterne ai confini spagnoli. Il fatto che gli spagnoli non facciano figure da tamarri credendo d’essere fighi con smart working e recovery vari non c’entra assolutamente un belin con il franchismo. Leggete, informatevi, non fate gli emancipati da reti sociali (social), che se no sono solo supercazzole.

6) Sì, ma le lingue non si possono controllare artificialmente
Chi lo dice è spesso un sostenitore convinto dell’abolizione forzata, magari per decreto, dei generi grammaticali, che si tratti di asterischi, scevà (/ə/) o altri artifici. O si strappa i capelli sull’uso volontario della parola Presidente o Presidentessa.

7) Sì, ma questo è fascismo. E infatti è quello che fece Mussolini durante il Ventennio fascista
No. Politiche linguistiche con spettro diverso di salvaguardia esistono oggi in quasi tutti i Paesi europei.
In genere si tende a citare la Francia e la famosa Legge Toubon, ma ci sono politiche linguistiche vigenti in Paesi perfettamente democratici come Irlanda, Croazia, Finlandia, Spagna, Portogallo, Galles, Austria, Belgio, e molti altri. Tra trasparenza, protezionismo, e garanzie per usuari e consumatori, leggi sulle lingue nazionali esistono ovunque.
Non le ha inventate Mussolini, così come non inventò lui acquedotti e bonificazioni di paludi.
Il buon senso, l’inclusione e la trasparenza non vanno tirate nel cesso con la scusa di interpretazioni sbilenche di leggi sbilenche (dunque doppio sbilenco) di 100 anni fa.
Oh, e dato che ci siamo, qualcuno ha mai conosciuto un vegetariano che ha smesso di esserlo perché lo era anche Adolf Hitler?
Per la cronaca, in Portogallo si susseguono da anni governi socialcomunisti. Ci sono leggi molto specifiche non solamente sulla promozione della lingua portoghese, ma anche sull’obbligatorietà di utilizzare il portoghese da parte di istituzioni educative e media (con persino quote di programmi in lingua nazionale), nonché di tradurre etichette commerciali e pubblicità.
Anche la Spagna ha un governo socialcomunista. Dal 2013 esiste la «Ley de Transparencia» che obbliga tutti gli enti pubblici o a partecipazione pubblica, dalla Famiglia Reale al più piccolo dei municipi, a comunicare in spagnolo (o catalano, basco e gallego).

8) Sì, dov’è il problema, ormai l’inglese lo capiscono tutti.
Allerta: davanti a te c’è un narcisista professionista con pochissimo tatto verso gli altri.
Siccome lui o lei parla o capisce l’inglese, allora automaticamente non ci si deve ponere il problema.
Ci sono dei poveracci che dicono che il titolo Spare, del libro del Principe Harry (anzi Prince Harry, nell’edizione italiana) sia comprensibile a tutti. Ma bisogna essere davvero dei caproni egocentrici per credere che 60 milioni di italiani colgano il significato di Spare e che lo sappiano pronunciare.
Senza contare, attenzione (!), che l’itanglese con cui vengono presi a schiaffi milioni di italiani affinché alcuni politici, giornalisti, *menager*, pubblicitari e inserzionisti di LinkedIn possano soddisfare i loro bisogni onanistico-narcisisti, ha ben poco a che vedere con la conoscenza dell’inglese. E infatti molto spesso d’inglese non capiscono un autentico cazzo.

9) Sì, ma sono solo i vecchi che non conoscono l’inglese. È una minoranza. Non è che bisogna a tutti i costi accomodare gli anziani.

A parte il darwinismo spietato ed aberrante di gente che poi però magari strilla «DISCRIMINAZIONE!» appena c’è un filo di vento (immaginatevi la stessa mentalità discriminatoria con le persone su sedie a rotelle, o con la minoranza LGBT+. Sbagliato, vero?), questa è anche una visione elitista, classista e privilegiata da far vomitare.
Non sono solo gli anziani ad avere generalmente scarsa conoscenza dell’inglese, ci sono milioni di italiani che per ragioni socio economiche non hanno potuto studiarlo o lo hanno fatto in maniera limitata.
Non è che siccome mamma e papà si posson permetterti di farti fare la vacanza studio a Brighton o il corso privato o le ripetizioni d’inglese il pomeriggio, allora se lo possono permettere tutti. Moltissimi – moltissimi – non hanno i mezzi.

10) Sì, vabbè, ma che ci vuole. Ormai l’inglese lo impari andando su YouTube.
Sì, come no. Di nuovo, l’ignoranza. La bellezza di una lingua e di una cultura relegata a una cosa usa-e-getta da rigurgutare a pezzettini sulle reti sociali (i «social«). E questo è il cuore del problema dell’anglomania itanglese: l’abisso che esiste tra il far finta di sapere una lingua giocando a fare i fintomoderni per nascondere insicurezze e narcisismo, e il conoscerla veramente, con gusto, con coscienza, e parlandola quando ce n’è bisogno e con l’interlocutore adeguato.

11) Sì, ma comunque non è una priorità.
Questo è l’ultimo rifugio di chi a) sa di non avere argomenti o b) sa di avere torto. Quali sono le priorità? Chi le stabilisce? Non è che se uno è a favore di trasparenza, inclusione linguistica, e rispetto per utenti e interlocutori non possa occuparsi anche di altri temi più o meno pressanti, no? Del resto la filastrocca del non-è-una-priorità la si sente su tutto: dalla legalizzazione dei matrimoni dello stesso sesso alla proibizione degli stessi, dal nucleare sì al nucleare no, dal salario minimo al salario massimo, dai ai giochi della gioventù no ai giochi della gioventù sì, dalle nazionalizzazioni alle privatizzazioni. Tutto non è una priorità quando non si è d’accordo.

Dialettizzazione dell’italiano, esempio 5629

Quando una lingua diventa incapace di esprimere concetti senza appoggiarsi a un’altra retrocede a dialetto.

Uno dei nostri amici e lettori ha indicato un altro esempio di dialettizzazione dell’italiano.
Di questi tempi va di moda un concetto nato in Giappone, 森林浴, «Shinrin Yoku«.

In Italia ha fatto irruzione con il termine inglese, «Forest Bathing», riportato in maniera bulimica dai media nazionali.
Guardate come una delle supercazzole più frequenti degli anglomaniaci, quella secondo cui la valanga di [pseudo]anglismi sia dovuta alle creazioni o invenzioni del mondo angloparlante (cioè addio traduzioni), si rivela – appunto – una supercazzola.

Perché non esiste alcuna altra spiegazione, a parte #vogliadiesserecolonia, anglo-onanismo, e la conseguente retrocessione dell’italiano a dialetto (un vernacolo che tra qualche decennio servirà solo per chiedere alla nonna se il sugo è pronto), per giustificare l’importazione di un concetto giapponese, in Italia, in lingua inglese.

Ma ecco che si ode l’altra supercazzola, quella del così-fan-tutti, è-la-globalizzazione. Eppure «Forest Bathing» in Francia viene reso con Sylvothérapie, in Spagna con baño de bosque, in Portogallo con banho de floresta, in Germania Waldbaden.

In Italia no. La lingua italiana si sta indebolendo a tal punto che qualsiasi concetto nuovo o importato, persino da una lingua terza, non riesce ad essere assorbito, di riflesso viene reso solo e soltanto nella «Lingua Superiore», l’inglese.

Gli esempi più ovvi sono quelli della pandemia, dove concetti non assolutamente di origine anglosassone – e che infatti tutti i Paesi hanno espresso istintivamente nella loro lingua – in Italia sono stati resi in inglese, vero o farlocco: lockdown, green pass, droplet, hub, drive-in covid, covid manager, cluster, recovery fund e tanti altri.

Lo ripeteremo fino alla nausea: è stupefacente come questa rapida atrofizzazione dell’italiano, questa incapacità di creare e di aggiornarsi, questa dipendenza sempre più patologica dalla lingua [pseudo]inglese stia avvenendo tra il disinteresse più totale.

(Auto)colonia linguistica e Principe Harry

Un giochino per i nostri amici e lettori

L’attuale profonda incertezza economica, tra guerre, inflazioni e imprese che cadono come birilli, non è nulla in confronto – secondo i nostri brillanti media – all’importanza dell’autobiografia del Principe Harry Windsor, appena pubblicata.

La nostra cinica lente linguistica ci suggerisce di fare un giochino chiamato #vogliadiesserecolonia.
È dedicato a tutti gli anglo-onanisti che si nascondono dietro le supercazzole quali «fanno-tutti-così» e «l’-abuso-dell’-inglese-è-inevitabile-è-dovuto-al-digitale-e-la-tecnologia«.

Guardate le edizioni in (ordine sparso): tedesco, portoghese, spagnolo, italiano, francese e rumeno. Quella britannica è la foto grande a destra.Vediamo se riuscite a indovinare qual è l’edizione italiana.



Straniero alla lingua

Il passato, le tracce viventi di altre epoche, bisogna disfarsene, non hanno alcun valore, quello che conta è l’immediatezza, la presunta “utilitàdi Cristina Di Fino*

Io sono un italiano che a scuola ha studiato francese. Alla mia epoca quella era la lingua da studiare, ma oggi sembra che il vento sia cambiato. Siamo entrati dentro un’altra sfera, dentro un altro mondo. Alla radio ho sentito che, alla festa del paese, vi era un’area di street food, poi dei food tour ad orario, non ho capito. Di solito alla festa di paese ci sono tanti banchi, ma davvero cosa sia questo non so. Dovrò consultare un vocabolario, perché internet non sempre è affidabile, però mi fa sentire davvero inadeguato. Io continuo a comprare le Monde Diplomatique, almeno mi tengo informato su quello che succede, su quella parte di mondo che ancora comprendo.

Io sono uno straniero di prima generazione. A casa mia si parlano tre lingue, io che parlavo ai miei in italiano, mio padre che mi parla in iraniano e mia madre mi parla in russo. A scuola parlo in russo con altri compagni che ne sanno qualche parola, così quando non vogliamo farci capire; una delle mie compagne Olga, è di origine polacca, ha imparato un po’ di russo per parlare con la nonna, che viveva al confine con la Russia. Oggi con i compagni, siamo andati dentro un locale nuovo, per mangiare qualcosa insieme, e non abbiamo capito quasi niente di quello che c’era scritto sul menù. C’erano tre opzioni Vip, Premium e Basic, poi c’era lo starter, il donut, il best price, il veal, e così una valanga di parole che il cameriere non aveva tempo di spiegarci. Siamo usciti allora, e siamo tornati al nostro caro vecchio kebab, almeno lì si può vedere cosa ti portano, e sai cosa mangi, non ti viene il mal di testa.

Io sono cresciuto parlando occitano, quando vado al mercato quasi tutti lo parlano, a volte si intercala con l’italiano. A scuola mi hanno detto che è una delle dodici lingue protette dalla Costituzione. Però, a scuola, non ho mai visto nulla di scritto nella mia lingua. L’altro giorno, i professori ci hanno invitato a consultare i programmi di varie Università, che avevano degli Open Day. Ho pensato che fossero università per stranieri, e invece no, erano tutte in Italia. Chissà se c’è anche un corso di laurea in occitano così come avviene in altri paesi…

Io sono uno dei “rientrati”, non so se mi posso sentire solo un cervello. Sono stato dieci anni negli Stati Uniti, il posto mitico degli italiani che si vogliono fare da sé, la terra delle grandi opportunità, di quelli che cercano una seconda vita. Oggi, sui giornali si parla di mobbing sul lavoro, ma io non capisco cosa significa. Eppure direi che sono quasi “padre”- lingua, perché io sogno anche in americano, ogni tanto mi scappa anche un espressione qui e lì, quando sono sovrappensiero. Ho dovuto chiedere ad un collega cosa significasse, in americano i problemi di persecuzione al lavoro si dicono “harrassment”, mobbing è un movimento di pressione di un gruppo, che può venire da diverse parti della società. Non capisco, ho speso così tanto tempo ad imparare, torno nella mia terra, e questo uso delle parole non ha senso. Io non mi ritrovo più, non sono né più lì ma nemmeno qui.

Se lo studioso Zygmunt Baumann fosse ancora vivo, si metterebbe a capofitto a studiare il fenomeno degli anglicismi nella lingua italiana e sono sicura che in poco tempo riuscirebbe anche a creare una nuova parola per definirlo. Ora la sfida e il testimone passa a qualcun altro per continuare a cercare di comprendere quello che succede. Il fenomeno degli anglicismi sicuramente fa parte della liquidità che caratterizza la nostra epoca, ma che ha lavato via anche il significato. C’è una grande incertezza su cosa significhino questi diluvi di parole importate, e messe lì quasi a caso, a volte a suono, altre volte per vicinanza, altre ancora per moda, spesso anche in mezzo ad una frase. In un mondo dove le regole sono liquide, tutto può ondeggiare a seconda della piena o della marea. Succedono a gran velocità fatti inauditi, come se avessero la forza di un monsone mai visto, che, al pari del cambiamento climatico, è un’estremizzazione così rapida e dal potere dirompente. Ma dove si abbatte questo monsone? Sulla casa in cui si abita, la lingua. Questa liquidità non solo porta via il significato ma anche la lingua. E quindi, oltre ai significati, non si ha nemmeno più la possibilità di crearne di nuovi, perché se si distrugge la struttura in grado di creare senso, ci si ritrova muti, dentro una prigione dove non si può comunicare con l’esterno. Gli allarmi lanciati, ma inascoltati, non sono solo da parte dell’accademia della Crusca. Eppure, come certi dissesti idrogeologici, ancora nulla si è fatto. È una delle tante tragedie annunciate, che sta già mietendo le vittime, tra il grande tasso di analfabeti di ritorno.

La cultura e pratica dello scarto, tipica della nostra epoca, sta inglobando anche la lingua. Non solo oggetti e materiali ancora utilizzabili si trasformano in rifiuti, solo per una decisione del singolo e collettiva, ma la stessa pratica viene adottata come filosofia di vita, quindi è applicata qualsiasi sfera dell’azione umana: le persone, gli animali, le piante, le culture, le lingue. Come nella storia del re Mida, qualsiasi cosa che si tocca si trasforma in inutile, in rifiuto.

Il passato, le tracce viventi di altre epoche, bisogna disfarsene, non hanno alcun valore, quello che conta è l’immediatezza, la presunta “utilità”.

Non si considera che la filosofia dello scarto provoca anche un vuoto, che rimane dopo l’immediato, che lascia il nulla a chi viene dopo. In un film profetico, “La storia infinita”, tratto dall’omonimo libro di Michael Ende, quello che più terrorizzava i personaggi, e letteralmente li inghiottiva, sia fisicamente che internamente, era il “Nulla”, avanzava sempre di più, a meno che non si facesse opposizione. Il mondo poi sarà salvato dalla fantasia. Spero che molte persone, con molta fantasia, siano in grado di creare qualcosa di nuovo, che possa riparare i danni e soprattutto non lasci nessuno come straniero alla propria lingua.

*Cristina Di Fino è una viaggiatrice che ha abitato presso diversi popoli e lingue, ed è da sempre in decrescita felice

Ordinaria comunicazione sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano

Se l’inglese fosse ungherese

Frammento di un articolo del Corriere della Sera /Corriere del Veneto: «Mio fratello Niccoló Ghedini, scapestrato in gioventù e insonne di talento», 19/08/2022.

Ci sono milioni e milioni di italiani che non hanno studiato l’inglese, oppure che lo hanno studiato poco, male e/o molto tempo fa. Per queste persone, la stragrande maggioranza di termini inglesi sono comprensibili quanto lo è la lingua ungherese.

Nell’immagine, abbiamo sostituito i termini inglesi usati dal Corriere della Sera, e comprensibili a un numero molto ristretto di lettori, con gli equivalenti in ungherese (lingua che, ci azzardiamo a dire, è sconosciuta virtualmente alla totalità degli italiani) per darvi un’idea di come si sente il lettore medio italiano dinnanzi ai continui schiaffi linguistici che si deve sorbire ogni volta che legge siti internet, giornali o riviste magazine, oppure ogni volta che guarda le notizie news, ascolta pubblicità, va a fare le spese shopping, o utilizza servizi pubblici.

L’incapacità di provare empatia verso milioni di potenziali lettori e utenti da parte di un numero notevole di giornalisti, pubblicitari e politici italiani non è solo stupefacente, ma è elitista da fare schifo.

Quando la preoccupazione di chi parla o scrive non è la comprensibilità per l’interlocutore, ma è invece il voler giocare a fare il figo internescional, sorge un problema grave di esclusione.

In altre parole, l’itanglese (o l’abuso sistematico di anglicismi in italiano) crea problemi di inclusione. Esclude, taglia fuori, discrimina, emargina, mette in difficoltà.

Lingua smart, smart lingua

Piccolissimo frammento delle «co-occorrenze» della parola ‘smart’ nei giornali italiani del 2022.

Quante decine di espressioni italiane ammuffiscono in soffitta, diventano desuete, si atrofizzano, a causa dell’abitudine ossessiva degli italiani del secolo XXI di vomitare la parola «smart» in ogni occasione?
Si arricchisce oppure si intorpidisce, una lingua, in questa maniera?

Italia campione d’Europa. Di anglicismi.

È iniziata la Parte 3 della nostra analisi comparativa degli anglicismi sulle prime pagine digitali dei maggiori quotidiani europei (vedi qui i dettagli della settimana appena conclusa).

Questa volta è Il Corriere della Sera a rappresentare l’Italia di fronte ai suoi colleghi francesi di Libération, quelli spagnoli de La Razón e i tedeschi del Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Dopo aver analizzato i forestierismi e italianismi su The Guardian a Novembre e Dicembre e su The Times nei mesi di Gennaio e Febbraio, abbiamo ora scelto di contare quelli presenti sul maggior quotidiano irlandese, The Irish Times. I risultati sono sempre nella stessa direzione. Anzi, questa settimana l’Irish Times ha pubblicato addirittuta zero italianismi (e 8 forestierismi) in totale contro i 374 anglicismi puri, cioè parole inglesi (o pseudo tali, come «smart working» o «fashion addicted«) sul Corriere della Sera.



Risulta straordinario, per la nona settimana consecutiva, che i quotidiani di Francia, Spagna e Germania, quale che sia il loro orientamento politico, riescano a pubblicare notizie e rubriche usando una frazione degli (pseudo)anglicismi dei loro colleghi italiani. Gli anglicismi esistono anche negli altri Paesi europei, sia chiaro, ma ne abbiamo computati meno di 1/4 nel caso di Libération e Frankfurter Allgemeine Zeitung, e addirittura 1/6 nel caso de La Razón rispetto al Corriere.



Del resto non si tratta di nulla di particolarmente differente rispetto alle misurazioni delle settimane precedenti. Certo ci sono differenze di impostazione editoriale, per cui notiamo come il Frankfurter Allgemeine Zeitung, di orientamento conservatore, sia molto meno incline a usare anglicismi dei loro colleghi di Welt, quotidiano liberale. Al contrario, La Razón, giornale spagnolo di destra-destra sembra usarli molto più allegramente di El País, di centro sinistra, fedelissimo in maniera eccezionale alla lingua castellana.



Notiamo che l’uso di anglicismi di Libération è quasi esclusivamente confinato ai titoli di rubriche (CheckNews, Interview, Lifestyle), ragione per la quale la conta rileva moltissime ripetizioni.

In ogni caso, non c’è assolutamente paragone con i corrispettivi italiani. Non soltanto dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Quello che rilevammo con la Repubblica e la Stampa continua praticamente identico con il Corriere della Sera. Quasi sempre non si tratta di qualche titoletto dal sapore esotico per «colorare» un pezzo. L’uso di (pseudo)anglicismi è endemico, costante, incessante, e su di essi si regge concettualmente la presentazione di dozzine di titoli, occhielli e sommari.
Ecco dunque la sfilata di rubriche intitolate in inglese (Cook – sulla gastronomia, Data Room, LogIn, Italians, Heavy Rider, Trading Post, Radio Italians, Corriere Daily Podcast, ecc), giochi di parole («Mal di Tech«), nonché la solita valanga di anglicismi in TUTTI gli ambiti, dalla politica alla moda, dalla tecnologia alla medicina, dalle cronache alla guerra, dalla gastronomia allo sport.
Così come la pandemia si è presentata agli italiani come un’ottima occasione per ingozzarsi di (pseudo)anglicismi, così il triste avvento dell’invasione russa in Ucraina sta dando luogo a una scorpacciata di tank, Putin-show, task force, no-fly zone, bunker, social media war, peacekeeping, security, intelligence e altri prestiti linguistici completamente evitabili.

La lista degli anglicimi (e forestierismi sull’Irish Times) pubblicati durante la Settimana 9 è disponibile qui.

Ritagli dalle prime pagine digitali di Libération, Frankfurter Allgemeine Zeitung e La Razón, Marzo 2022.

Oltre il lessico: 8 esempi strutturali di creolizzazione

Con il ritmo attuale, nel giro di pochi decenni la lingua parlata in Italia sarà un creolo la cui eterogeneità lessicale, morfologica, ortografica e sintattica ricorderà il Nigerian Pidgin English, il Criollo haitiano, il Bahamian Creole, o il Chabacano delle Filippine. Se simili livelli di mescolanza non sono stati ancora raggiunti, è semplicemente perché non è ancora trascorso tempo sufficiente. È per questo che gli italiani del secolo XXI ci stanno lavorando con uno zelo e una rapidità senza precedenti nella storia.

Solamente nel giro di alcune settimane, gli iscritti a Campagna per salvare l’italiano hanno segnalato decine di esempi che vanno ben oltre la semplice sostituzione lessicale. Per ragioni di brevità, vi mostriamo alcuni dei più rappresentativi, non soffermandoci sul lessico, ma analizzando invece interferenze molto più profonde.

ESEMPLARE IBRIDO 1.

Corriere della Sera, quotidiano italiano, 03/03/2022

«Paris Fashion Week street style» è un’intera locuzione trapiantata al 100% dall’inglese, seguendo fedelmente le regole strutturali e sintagmatiche dell’inglese. Un lettore anglofono la comprenderebbe perfettamente. Con «In o out«, invece, entriamo in un ibrido. Se è vero che «in» sarebbe accettabile in entrambi le lingue, «out» è solamente inglese, mentre la presenza di «o«, italiano, fa iniziare il cortocircuito linguistico. A quale lingua si deve adeguare il cervello del lettore?
Se la frase interrogativa è quasi interamente in inglese, quella successiva sembra spostarsi maggiormente verso l’italiano. Colpisce l’oscillazione delle regole da una lingua all’altra. Mentre «Paris Fashion Week street style» ricalca fedelmente l’inglese, «look» in «Tra look di tendenza ed errori di stile«, viene riportata in singolare, senza la «s», secondo le regole dell’italiano.
Arriviamo al sommario, che ci offre un altro trapianto al 100% d’inglese in una frase italiana, per cui la sintassi deve essere interpretata secondo un continuo saltellare da una lingua all’altra e viceversa («Il meglio e il peggio dello» in italiano; «street style» in inglese; «della capitale francese» in italiano). La gemma però arriva con lo pseudo inglese «fashion addicted«, che in inglese sarebbe «fashion addict«, che dunque aggiunge all’intruglio già in atto un terzo elemento, quello di una pseudolingua. La conclusione ripropone le maiuscole spruzzate a casaccio nel titolo: «Chi è In e chi Out?«, ciliegina sulla torta di un vero e proprio creolo lessicale, sintattico e ortografico, roba che neanche Frankenstein.

ESEMPLARE IBRIDO 2

Dalla pagina Facebook di Best Movie, rivista italiana, 16/02/2022

Concentriamoci sulla frase «Le immagini faranno senz’altro felici i fan dello show live-action».
Ammettendo che questa frase debba essere interpretata secondo le regole dell’italiano, ci sarebbero comunque alcune ambiguità circa la comprensione. Perché si stanno impiegando termini inglesi che solamente mantengono il loro significato originale se posti nell’ordine previsto dalla sintassi inglese.
«Live-action«, con il trattino, ha funzione aggettivale esclusivamente se messo PRIMA di «show«.
Nel momento in cui è inserito DOPO il sostantivo «show«, smette di essere quello che è, specialmente se si mantiene il trattino. Aggiungiamo che, in italiano, i composti con il trattino non seguono assolutamente le regole e gli usi dell’inglese.
C’è poi la possibilità, per quanto remota, che «show» venga malinterpretato come verbo se davanti a «live-action» (il cui significato diventa incomprensibile se lasciato alla fine della frase con il trattino).
Tra l’altro, se l’idea fosse di attenersi alla sintassi italiana: dove è andata a finire la preposizione «in» che dovrebbe seguire «show» («il show in live action«)?
Insomma, se è sintassi italiana, c’è qualcosa di strano. Se è sintassi inglese, ci sono seri problemi di coesione.
Se si volesse rispettare la strutture sintattica dell’italiano, dovrebbe essere «I FAN DELLO SHOW IN LIVE ACTION», e dunque si tratterebbe «solamente» di un miscuglio lessicale.
Se si volesse ricalcare invece la sintassi inglese, dovrebbe essere «I FAN DEL LIVE-ACTION SHOW».
Invece, I FAN DELLO SHOW LIVE-ACTION, nell’originale, non segue le regole sintattiche di nessuna delle due lingue.

ESEMPLARE IBRIDO 3

Manifesto di un evento politico, Arezzo, Italia, 2021

Questo esempio è una testimonianza tra centinaia dell’ormai onnipresente regola secondo cui la contrarietà a qualcosa, nell’italiano di oggi, si debba esprimere quasi esclusivamente con il pidginesco No + sostantivo.
Pidginesco perché ricalca il cosiddetto Chinese Pidgin English parlato dalle comunità cantonesi di New York del secolo XIX con il loro tipico «No this, no that«.
Gli italiani, in Italia, lo usano ormai dappertutto, ma estendendone e deformandone il significato per affermare – appunto – opposizione verso qualcosa.
Se nel recente passato, in italiano, l’espressione di contrarietà e opposizione veniva espressa con il prefisso «anti» (anticapitalista, anticomunista, antifascista, antiproibizionista), oppure attraverso «contro+articolo+sostantivo» (contro la guerra, contro le leggi speciali, contro lo sfruttamento, contro la NATO, contro l’aborto), oggi si deforma qualcosa di vagamente inglese ibridando a mani basse con effetti sia a livello semantico che sintattico.
Nell’esempio concreto, a parte la morte ormai certificata di espressioni come «Giornata di/contro [sostantivo]» (nell’esempio in questione: la «Giornata Contro la Paura»), colpisce la deformazione semantica dell’inglese «No«. Nella lingua originale, «No+sostantivo» esprime la mancanza, assenza o proibizione di qualcosa e non una contrarietà. Si pensi a no smoking (vietato fumare), no cash transactions (non si accettano contanti), no pain no gain (nessun guadagno senza alcun sacrificio), no-fly zone (zona di non sorvolo), no filter (nessun filtro) ecc.
E se in italiano sarebbe corretto dire «Giornata del no alla paura», un possibile «No alla Paura Day», con la preposizione articolata «alla», avrebbe almeno mantenuto alcune sembianze di lingua italiana.
Al contrario, nel momento in cui decade persino «alla» per arrivare allo scheletrico «No alla Paura Day«, si conia una vera e propria struttura sintattica e lessicale creola che attinge allo stesso tempo da due lingue, e nessuna.

ESEMPLARE IBRIDO 4

Titoli sulla prima pagina de La Stampa, 28/01 e 01/02/2022, rispettivamente.

Ignoriamo le barriere di comprensione erette a scapito di tutti quei lettori che non parlano l’inglese (specialmente «on the go«, che ne richiederebbe una certa conoscenza) e concentriamoci sulla flessibilità della parola «beauty«. Il primo titolo trapianta fedelmente le regole sintattiche dell’inglese, con «beauty» aggettivato e precedente il sostantivo «routine«. In altre parole, l’italiano si apre generosamente a una locuzione inglese (anzi due, perché lo fa anche con «on the go«) per inserirla così com’è.
Nel secondo titolo, al contrario, «beauty» viene scritto dopo il sostantivo «miti».
Però se dell’inglese rimane solamente la parola nuda e cruda, che inserita dopo «miti» – o il suo equivalente inglese – perde interamente sia significato che ruolo grammaticale nella lingua originale, le regole dell’italiano sono invece violate con la perdita della preposizione «di», giacché si sarebbe detto altrimenti «miti di bellezza».
Eppure non siamo di fronte né a «miti di bellezza», né a «miti di beauty«, né a «beauty myths«. Siamo in presenza di qualcosa di nuovo, «miti beauty«.
Nessuno direbbe mai in italiano «i miti bellezza», così come nessuno si sognerebbe mai di scrivere «i miti ciclismo», «i miti cinema», o «i miti storia», senza alcuna preposizione.
Si noti invece come esista e si usi «i miti rock«, indice del fatto che la presenza – per quanto abbastanza a casaccio – di una parola inglese, crei magicamente delle nuove regole tra i costituenti dei sintagmi italiani. Si creano, appunto, licenze linguistiche di una lingua terza, un creolo.

ESEMPLARE IBRIDO 5

Pubblicità italiana di cibo per animali pet, 2021

Lungi dal parlare chiaro, come invece suggerisce la pubblicità nella foto, questo è uno degli esempi più tipici dell’itanglese del Secolo XXI. Al contrario dei prestiti linguistici del passato, oggi si osservano costantemente intere strutture (pseudo)inglesi trapiantate in una frase italiana con una confusione sintattica da far venire il mal di testa. In questo esempio, le regole dell’italiano sembrano imporsi riguardo alla posizione di «dry+wet«, inserito dopo quella che sarebbe la locuzione sostantivale. Sarebbe, perché in inglese corretto si tratterebbe di sostantivo solamente se scritto «mixed feeding«. La mutazione morfologica in «Mix feeding«, troncando -ed, ne stravolge la funzione grammaticale e, dunque, semantica, ingarbugliando le relazioni sintagmatiche con il resto della frase, si tratti di inglese o d’italiano.
Ancora una volta siamo davanti a una lingua terza, un creolo, in questo caso con l’interrogativo particolarmente marcato del perché si vogliano confondere gli utenti di un prodotto con una babele linguistica di questo tipo, che complica la vita sia a potenziali consumatori italiani che anglofoni.

ESEMPLARE IBRIDO 6

Giornali, riviste, manifesti e pubblicità in Italia, 2021-2022.

Sembra davvero incredibile come tanti linguisti di professione continuino a dire che la cascata di anglicismi nell’italiano sia «limitata a strati del lessico superficiale». Guardate come l’italiano degli ultimi anni abbia largamente sostituito la costruzione «senza + oggetto» a beneficio di un calderone linguistico esclusivamente fedele alle regole morfologiche dell’inglese. Plastic(-)free, Covid(-)free, fur(-)free, meatless, paperless. Persino l’aggettivo sportivo lascia sempre più spazio a sporty. Nell’immagine qui sopra ritroviamo anche il solito «no+sostantivo» analizzato nell’esempio no.3. Questa volta si riferisce al significato originale, cioè «senza» («senza makeup«, ovvero senza trucco), eccetto che ancora una volta la confusione sintattica e morfologica è mozzafiato. Se in inglese sarebbe «No make-up selfie» (con «make-up«, aggettivizzato con il trattino), e in italiano (accettando selfie) sarebbe «selfie senza trucco«, eccovi il creolo «selfie no make up» con parole in inglese sbilenco e sintassi ibrida. Che casino.

ESEMPLARE IBRIDO 7

Titoli da (dall’altro verso il basso): La Stampa, Il Sole 24 Ore, Il Foglio, 2021-22

Altra tipicità del creolo itanglese è quella di mutilare arbitrariamente l’inglese, sostantivizzando quello che, nella lingua originale, è un semplice aggettivo. Ecco dunque la sfilata di recovery [fund], spending [review], flagship [store], lobby [group], automotive [sector], basket[ball], Champions [League] e tante altre espressioni che, senza il corrispondente sostantivo vedono il proprio significato completamente stravolto.

ESEMPLARE IBRIDO 8

L’ultimo esempio riguarda le interiezioni, le esclamazioni e i segnali discorsivi in inglese, ormai entrati nell’uso comune degli italiani mentre comunicano tra di loro. Un semplice sguardo alle reti sociali (i «social» in itanglese), da’ l’idea di quanto ormai si arrivi a mischiare comunemente anyway, thank you, oh my God, like, sorry e tanti altri in frasi italiane.
L’immagine qui sotto, ripresa da una famosa rivista italiana, mostra – tra gemme linguistiche da farci una conferenza – l’uso dell’esclamazione «awwww«, l’equivalente angloamericano di quello che fino a ieri in italiano sarebbe stato «oooooh».

Insomma, nell’Italia del 2022, anzi del Venti Ventidue, si osservano senza neanche troppo sforzo mutazioni strutturali che vanno ben oltre le semplici sosituzioni lessicali. Solamente per questa ragione, non ha alcun senso comparare il fenomeno attuale con la moda dei francesismi del secolo XIX e dei primi del secolo XX. Similitudini più perspicaci sono piuttosto quelle relative alla creolizzazione avvenuta nelle ex colonie, per esempio britanniche, statunitensi, francesi, e spagnole.

Autore: Peter Doubt
Grazie agli iscritti a Campagna per salvare l’italiano per le immagini.