La rapida morte della lingua italiana nel mondo aziendale
di Peter Doubt*

«Tranquilli, l’italiano è in buona salute«, afferma il nuovo Presidente CEO dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille. E non è il solo. Sono anni che sentiamo parlare di «vitalità dell’italiano«, o che l’italiano sta bene«, «sano e vitale«, che «la lingua italiana è vispa«, che «non bisogna fare allarmismi«, e tante altre frasi che, in quanto a diniego e deliri di ottimismo, darebbero del filo da torcere a Candido di Voltaire o, se preferite una referenza più contemporanea, a SpongeBob.
La questione non è che ci sarebbe bisogno di condannare o abiurare la rapida creolizzazione / ibridizzazione dell’italiano. Perché ad alcuni potrebbe persino, legittimamente, piacere. Quello che è davvero stupefacente è come si possa sonnecchiare e far finta che non stia succedendo nulla (al limite della negligenza professionale) di fronte a un fenomeno di dimensioni titaniche.
Per esempio, verrebbe voglia di chiedere alla classe linguistica italiana da quanto tempo è che non danno uno sguardo alle inserzioni di lavoro in Italia o al modo di comunicare di una qualsiasi azienda italiana. Perché sono in atto due fenomeni dalla portata gigantesca, e non saranno né la solita e superficialissima reductio ad absurdum con le mani nelle orecchie del tipo «e che dobbiamo fare tradurre dire pellicola invece di film?», né gli iperbolici riferimenti al «ventennio» a far andar via la realtà.
Per primo, si noti la vera e propria abdicazione della lingua italiana dalle definizioni dei ruoli aziendali e mansioni. Parliamo di proporzioni assurde lungo una scala temporale rapidissima.
Nel giro di vent’anni sono sempre di meno (e sempre più una sparuta minoranza) lavori e professioni definiti in italiano – attenzione – in TUTTI i settori, non soltanto l’informatica IT.
E prima che si innesti il solito meccanismo di diniego, no, non ci riferiamo solo a multinazionali che operano in Italia. Succede a tutti i livelli, dall’ hairstylist (parrucchiere) al barman (barista, quest’ultimo paradossalmente in ascesa nel mondo anglosassone ), dal CEO (Direttore responsabile o Presidente) al accountant (ragioniere), e dal train manager (capotreno) all’editor (redattore), alla shop assistant (commessa), al rider (versione in inglese farlocco di fattorino/garzone), o al Press Office Manager (capo ufficio stampa), per non parlare dello pseudoinglese del Board (con tanto di «of Directors» sistematicamente troncato), ovvero il consiglio d’amministrazione, e dell’onnipresente HR invece di risorse umane. L’immagine qui sotto è presa da una agenzia italiana, per ruoli in Italia, in imprese italiane. Potete contare le parole in italiano su una mano.

Si deduce la presenza di un elemento paralinguistico. La lingua superiore, quella che agli italiani fa eccitare anche se non la capiscono, compie la funzione di nobilitare le professioni, di darle un tocco in più, perfettamente in linea con l’era del narcisismo con gli steroidi di cui facciamo parte. Resta la sensazione, vista da fuori (chi vi scrive non vive in Italia), che gli italiani si vergognino di chiamare le cose con il proprio nome, nella propria lingua, anche se stanno parlando tra loro stessi.
Tale anglocosmesi non si riferisce semplicemente al nome delle professioni. E qui veniamo al secondo punto: gli annunci o offerte di lavoro, sempre più saturate di (pseudo)anglicismi, in alcuni casi rasentando l’autoparodia.
Il lettore che abbia un po’ di dimestichezza con la rete sociale LinkedIn (o con qualsiasi sito o agenzia con offerte di lavoro), avrà visto come la lingua italiana stia fungendo sempre di più da «contenitore» per concetti chiave espressi inevitabilmente in (pseudo)inglese. E non si tratta affatto di tecnicismi. Termini perfettamente validi quali selezione, reclutamento, progettazione, quartier generale, rete, specialista, ingegnere, assistente, direttore, seguito, filiale, formazione, libropaga, dettaglio e centinaia d’altri, sono in fase di sostituzione, di rapidissima ritirata, lasciando il campo a un uragano di (con maiuscole spesso buttate lì a casaccio) talent acquisition, specialist, headquarters, engineer, retail, assistant, project manager, branch director, network, content creator, upskilling, engagement, payroll e così via.

Ora, come sempre non si può negare la portata globale del fenomeno. Negli stessi Paesi anglosassoni si nota sempre di più la correlazione interessantissima tra caduta libera delle condizioni di lavoro (con relativo aumento di precarietà) e simultaneo mutamento delle denominazioni di ruoli e settori professionali: un elemento, appunto, di «cosmesi» secondo il quale recruitment ora si dice Talent Acquisition, un semplice secretary diventa Assistant Director, un receptionist si converte in Office Manager, e vari schiavi o semitali assumono il ruolo altisonante di HRBP (Human Resources Business Partner), VP di qualcuno o qualcosa, per non parlare dei vari Visiting Professor, SDR, Sales Reps, Customer Service Assistant, e così via. Professioni da nomi pomposi accompagnati da una realtà molto più deludente (e sempre più precaria). In pratica, la normalizzazione di eufemismi professionali, spesso effettuata a colpi d’acronimo, e a cui tutti (imprese concorrenti e lavoratori) si adeguano rapidamente, terrorizzati dalla possibilità di apparire obsoleti, ovvero uncool – cosa che nel mondo anglosassone è considerata peggio del fuoco degli inferi, da veri e propri reietti umani.

Ciò che distingue l’Italia è che la corsa alla cosmesi e alla comunicazione ingannevole dentro il mondo aziendale sta avvenendo in un’altra lingua, in (pseudo)inglese, rendendo il distacco tra realtà e finzione ancora più sorprendente e surreale. Se il problema fosse solamente l’assenza di senso del ridicolo, non staremmo qui a perdere tempo. La sostanza è che quasi a nessuno gliene frega del fatto che ampie fasce della lingua italiana – e dunque della cultura italiana – si stanno beccando randellate così forti e continue da condannare centinaia di termini all’obsolescenza quasi immediata, escludendo nel contempo dalla comunicazione milioni di italiani.
L’immagine qui sotto mostra l’irruzione di intere locuzioni inglesi o pseudoinglesi nella comunicazione, un goffo minestrone non solamente dalle sfumature comiche o addirittura deliranti, ma spesso anche di difficile comprensione anche per persone con conoscenza dell’inglese madrelingua o bilingue. Alla faccia dell’inclusione.
#Cosìmuoreunalingua


*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 17 anni.