Il Decalogo dell’Angloinvasato*

Circola in questi giorni sulle reti sociali una raccolta di luoghi comuni, pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera a firma del linguista Giuseppe Antonelli. Si chiama «Decalogo dei pregiudizi / Decalogo alternativo» ed è la definizione perfetta dell’argomento fantoccio o fallacia dell’uomo di paglia. In altre parole, si prende l’argomento opposto, lo si esagera, lo si distorce, e se ne fa una caricatura grossolana con il fine di compensare la propria mancanza di argomenti. Io moderno, tu autarchico. Io cosmopolita, tu bigotto. Io flessibile, tu rigido. Io plurilingue, tu nostalgicopurista. È facilissimo. Non a caso, va molto di moda nei tempi «binari» in cui viviamo.

IMMAGINE: Decalogo pubblicato su La Lettura (Corriere della Sera), pagina 11, 06/02/2022.

Però se è per questo, una caricatura la possiamo fare anche noi. È semplice, è divertente, ed offre anche uno spaccato realistico del cervello itanglese dell’anno 2022 (che ora si dice Venti Ventidue, non che gli attenti ghenolinguisti de «l’italiano è intaccato solo a livello lessicale» lo abbiano notano). E dunque eccolo, il DECALOGO DELL’ANGLOINVASATO:


Una volta esplorata la forma mentis dell’angloinvasato italiano del secolo XXI, diamo dunque uno sguardo ai fantomatici dieci punti del linguista Giuseppe Antonelli.

1. «NON AVRAI ALTRA LINGUA AL DI FUORI DELLA TUA».
Una caricatura, ovviamente, di un infantilismo spaventoso, che non significa nulla e che viene convenientemente giustapposta a «più lingue sono meglio di una» per supporre che chi considera la lingua italiana un bene culturale sia un cavernicolo autarchico con deliri suprematisti. Chiaro che più lingue sono meglio di una. Parlarle apre la mente, apre finestre verso altre culture, offre altre prospettive, è divertente, è utile a livello professionale.
Peccato che questo non c’entri nulla con lo tsunami anglicus (cit. Tullio de Mauro) attuale, e che eluda brillantemente il tema del fenomeno tutto italiano della somma zero, ovvero l’incapacità degli italiani del secolo XXI di fomentare conoscenze di altre lingue senza autodistrurre la propria o indulgere in miscugli comici nello stile di Salvatore il Gobbo del «Nome della Rosa» di Umberto Eco.


FOTO: Salvatore il Gobbo nel film «Il Nome della Rosa», tratto dal libro omonimo di Umberto Eco.

2. «LA TUA LINGUA È MIGLIORE DELLE ALTRE».
E la mia macchina è più veloce della tua e io sono più alto di te.
Davvero deve essere questo il livello?

3. «LA LINGUA DI OGGI È PEGGIORE DI QUELLA DEL PASSATO».
Magari possiamo dire «worse«, usando anglocosmesi in puro stile itanglese per illuderci che non sia così?
Non è che la lingua sia peggiore. È che sta scomparendo. C’è sempre meno italiano nei concetti.
Come altro descrivere la crescente incapacità dell’italiano di descrivere fenomeni attuali senza ricorrere costantemente ad un’altra lingua o – in alcuni casi – a una pseudolingua? La difesa secondo cui «tutte le lingue sono alla deriva» ovviamente non scende nei dettagli, nonostante siano di una chiarezza disarmante.
Facciamo l’esempio dello spagnolo- una tra dozzine di lingue – che riesce ad aggiornarsi e, al contrario dell’italiano, descrive la pandemia con le proprie parole. Abbiamo confinamiento invece di lockdown, cuidador/a invece di car[e]giver, rastreo [de contactos] per contact tracing, Certificado Covid per Green Pass, autocovid invece di drive-in covid, centro invece di hub, foco invece di cluster, distancia de seguridad invece del farlocco droplet, teletrabajo invece del pseudoanglismo smart working, antivacunas invece del «pidginesco» no-vax, covid largo invece di long covid, refuerzo invece di booster, ecc. Come si può negare che la salute dell’italiano si stia deteriorando? Gli esempi sono centinaia di parole in declino, in Italia, senza alcun motivo. Motivo che invece esisterebbe se questo fenomeno avvenisse in modo più o meno uniforme tra tutte le grandi lingue europee. Perché gli spagnoli riescono a dire diapositiva anche per l’aggeggio digitale, mentre gli italiani hanno accantonato la propria parola per eccitarsi con slide? Perché tutti i fenomeni moderni, dalla teoria genderless al net zero, dai social ai reality e dall’upcycling all’ecommerce, gli italiani non riescono a esprimerli nella loro lingua come facevano quasi sempre prima?
Poi ci sono i fenomeni non moderni, che purtroppo esistono da tempo. Catcalling, stalking, revenge porn, bodyshaming, mobbing e tanti altri. Che sia inglese vero o presunto, l’italiano è sempre più assente.


IMMAGINE: Campagna promozionale del Ministero della Cultura d’Italia, 2022.

4. «OGNI INNOVAZIONE DELLA LINGUA È CORRUZIONE e IMMUTABILI SONO SOLO LE LINGUE MORTE».
Appunto. L’italiano ha smesso di innovarsi. Una lingua che si comporta sempre di più come nell’immagine qui sotto non si sta innovando, sta morendo.
Al netto di un numero fisiologico di prestiti, che esistono in tutte le lingue, una lingua si evolve quando è viva, adatta, crea, è dinamica, conia neologismi. Il 54% dei neologismi aggiunti all’italiano dal 2000 in poi sono (pseudo)anglicismi. Significa che per qualsiasi concetto nuovo, in qualsiasi ambito (non solo le innovazioni informatiche e tecnologiche) il riflesso compulsivo è ormai quello di scimmiottare, come scrive Claudio Marazzina, dall’inglese. Questa, per definizione, è una lingua immutabile e immutante. Il mondo va avanti e l’italiano è rimasto fermo al 1999.

5. «ONORA LA GRAMMATICA CHE TI HA INSEGNATO LA SCUOLA/ I MODELLI LINGUISTICI DEL PASSATO NON POSSONO DETTARE LA NORMA DEL PRESENTE»
Questa considerazione manicheistica non fa parte dell’ambito di questa Campagna. Però, di sfuggita, se è questa il criterio, non si fa prima ad abolirla, la grammatica? Anzi, dato che ci siamo, abogliamo la squola e purliamo tuttu the way ke wantiamo? Sicuramente il Professor Antonelli non voleva dire questo. Antipatiche le caricature, vero?

6. «DIFFIDA DI OGNI USO LINGUISTICO SPONTANEO»
Argomento uomo di paglia strafatto di steroidi anabolizzanti che neanche Ben Johnson alle Olimpiadi di Seul nel 1988.

7. «RICORDATI DI SANTIFICARE LE REGOLE»
Come 5 e 6 qui sopra.
Dato che ci siamo, avete notato – in perfetta linea con i tempi egomaniacali e del narcisismo nauseante in cui viviamo – che gli autori del caro decalogo non hanno neanche considerato per un secondo il rispetto per l’interlocutore? Tutto è basato sull’io. Il me. Io parlo e scrivo come voglio, e se l’interlocutore non capisce, per motivi anagrafici («boomer!«, però «abbasso lɜ discriminazionɜ!«), economici, accademici, o quello che sia, sono cazzi suoi.


IMMAGINE: Frascati, UK
Italia.

8. «NON PRATICARE NEOLOGISMI IMPURI/ CI SONO PAROLE CHE NASCONO E PAROLE CHE INVECCHIANO».
Certamente. Succede in tutte le lingue. In italiano però le parole che invecchiano, per la prima volta, vengono sistematicamente sostituite da termini (pseudo)inglesi. Gli esempi sono migliaia. Basta farsi un giro per i negozi, guardare la televisione, leggere giornali e riviste, andare alle Poste. Succede con le leggi (Jobs Act invece di riforma del lavoro o Legge [Nome del Proponente]), con le procedure parlamentari (question time invece di interrogazioni parlamentari), con i corsi universitari (Business School per Economia & Commercio), con le professioni (badante e caregiver, fattorino/garzone e rider, capotreno «killerato» – vedete che moderni che siamo- da train manager, ecc), con le Poste Italiane (spedizioni cannibalizzato da delivery, resi dall’inglese farlocco reverse paperless). Succede con i reparti ospedalieri (breast unit, stroke unit, day hospital, day surgery, skin cancer unit, ecc). Succede con la squadra olimpica che diventa il frankenstein sintattico di Italia Team. Succede con dichiararsi, sepolto da coming out. Succede che genere diventa sempre più gender. Succede con ambientalista, ecologico, verde, coperti da una lenzuolata di green che neanche le lucertole. Inizia ad avere effetti su morfologia e sintagmi, dall’incapacità di coniare un evento che non sia XYZ Day, XYZ Week, XYZ Award (in Italia) alla compulsione di attacare il suffisso -free ai sostantivi (plastic-free, covid-free, meat-free, ecc), al must-have in tutte le salse. Nelle proporzioni attuali, qualcosa del genere si è visto solamente nelle ex colonie britanniche.
Per farla breve, vediamo se l’angloinvasato capisce: il problema non sono i prestiti, non sono i neologismi, non sono gli adattamenti: il problema è non saper distinguere uno tsunami da una normale e salutare pioggerella.

9. «NON DESIDERARE PAROLE D’ALTRE LINGUE»
L’argomento fantoccio di nuovo. C’è desiderare parole d’altre lingue, e c’è questo:


10. «IL PURISMO FA MALE ALLA LINGUA»
Di quale «purismo» parliamo? Che significa «purismo»? Rabbrividire di fronte alle centinaia di anglicismi inutili presenti quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani? Aspettarsi che una legge del parlamento italiano sia espressa in lingua italiana è forse «purismo»?
Si potrebbe «ribaltare la tortilla«, come dicono gli spagnoli e parlare di una ossessione anglofila – quella sì – ai limiti del purismo, dato che in qualsiasi contesto, pubblico, privato, accademico, pubblicitario, mediatico, sportivo, medico, la scelta (pseudo)inglese prevale sistematicamente sull’italiano. Questo purismo anglofilo, questa ossessione con il voler apparire a tutti costi internescional, anche quando non ce n’è bisogno, fa male. Fa male alle lingue, plurale. Non offre alcun vantaggio. Lasciamo perdere la confusione e cattiva comprensione (sia per gli italiani che per i non italiani), la mancanza di trasparenza o il poco rispetto sia l’italiano che l’inglese, questa pseudolingua sta causando un crescente impoverimento lessicale e un avvizzimento dell’italiano. Un semplice sguardo alla pigrizia linguistica dei mezzi di comunicazione italiani odierni – da cui viene diffusa la stragrande maggioranza di questi (pseudo)anglicismi – dovrebbe essere sufficiente per aiutare un attento linguista a trarre conclusioni logiche, invece di giocare a fare il contemporaneo cool.
Ed infatti, muniti di cifre dure e pure basate sulla nostra analisi comparativa degli anglicismi sui maggiori quotidiani europei (guardate i risultati della settimana 7), concludiamo con la solita domanda:
Perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo molto di meno a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, e in quantità sempre maggiore?

Ci sarà mai un linguista che riuscirà a rispondere a questa domanda senza travisare?

IMMAGINE: «La lingua la fanno i parlanti»: il sito dell’INPS.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

Creolizzazione e crollo qualitativo: perché l’italiano è già a rischio

«È un paradosso che proprio coloro che si affrettano a gridare al-lupo-al-lupo contro i rischi immaginari di autarchia linguistica credano che l’italiano goda di chissà quali doti superiori di immarcescibilità. Come un riflesso allo stesso tempo altezzoso e provinciale, come se l’italiano fosse superiore a tutte le lingue a rischio». Autore: Peter Doubt*


Esempio di «arricchimento linguistico», Italia, 2021.

Minimizzare i rischi di un fenomeno in corso, magari per non creare allarmismi, fa parte della natura umana. Eppure, come il famoso principio della rana bollita di Chomsky ci insegna, le conseguenze e i volumi di certi fenomeni si notano e si apprezzano solamente quando è troppo tardi. Durante, non ce ne accorgiamo.

Ed è dunque così che – di fronte all’attuale valanga senza precedenti di (pseudo)anglicismi nella lingua italiana – le legioni di simpatici linguisti dormiglioni d’Italia si affannano, con sorprendente passione, a ripetere che le preoccupazioni per l’italiano sono «prive di fondamento«, che dire il contrario è sinonimo di «catastrofismo«, che «il contatto si limita a strati del lessico superficiali«, che il fenomeno non influenza la sintassi, o che si tratta di un arricchimento linguistico. Oppure si divertono con il vecchio (e flebile) giochetto della reductio ad absurdum tipo che-dobbiamo-dire-panino-polpetta, «qual è il vantaggio di pellicola rispetto a film?«, e così via.

Ma, al di là delle beghe da social (redes sociales in spagnolo, soziale Medien in tedesco e réseaux sociaux in francese – guardate come l’italiano sia l’unico a usare una specie di angloide monco per rendere il concetto), è sufficiente osservare gli esempi concreti invece di rinchiudersi nelle torri d’avorio del conferenzierismo da Twitter. E gli esempi concreti di estinzione (o terapia intensiva) linguistica sono tantissimi. Alcuni, recentissimi.

Siamo andati a studiare il caso della Nigeria, ex colonia del Regno Unito. Eccovi un breve riassunto.
Vastissimo Paese africano, con oltre 200 milioni di persone, circa 250 gruppi etnici e centinaia di lingue autoctone, la Nigeria si trova oggi in una posizione linguisticamente molto difficile.

I britannici arrivarono nel secolo XIX e restarono al comando fino al 1960. In realtà, non tantissimo tempo, ufficialmente per 99 anni, periodo però sufficiente a disintegrare le lingue nigeriane più minoritarie ed erodere significativamente quelle più popolari (per esempio igbo, hausa e yoruba).


Campagna per la salvaguardia delle lingue nigeriane in pericolo, 2017.


È successo questo. Schiacciate dalla pressione dell’inglese, le lingue locali hanno dato luogo rapidamente a una fusione linguistica, un ibrido, un creolo (conosciuto ufficialmente come Nigerian Pidgin English, la cui denominazione ha mantenuto la parola pidgin anche successivamente al suo cristallizzarsi in creolo).
Parallelamente, l’inglese è diventata la lingua ufficiale, quella elitaria e delle istituzioni, la cui penetrazione sempre più forte ha fatto sì che moltissimi dei suoi vocaboli, espressioni e strutture si siano sovrapposti agli equivalenti autoctoni, spesso cannibalizzandoli completamente.
Oggi nel Paese africano si grida «Help! Nigerian languages are disappearing!» (Aiuto! Le lingue nigeriano stanno sparendo!), e si fanno accorati appelli per salvare le lingue locali, perché la tendenza indica nettamente che le nuove generazioni stanno perdendo contatto con tonnellate di vocaboli e strutture linguistiche autoctone.
Secondo l’UNESCO, le lingue nigeriane sono a rischio di estinzione. Nove sono già del tutto scomparse:

«Oggi, specialmente nelle case delle classi più alte, la norma è sempre di più quella per cui la prima lingua dei bambini è l’inglese, la lingua degli antichi coloni della Nigeria. Negli stati sudoccidentali – da Lagos a Ogun, da Oyo a Osun, da Ondo a Ekiti, nonché parti di Kwara e Kogi – dove la lingua nativa è lo Yoruba, gli indizi per la lingua madre sono di cattivo auspicio. Ancora peggiore è la moda di educare i propri figli in scuole private elementari e superiori dove non si insegna più nelle lingue nigeriane, ma in inglese, dunque condizionando implicitamente i propri figli a dare un valore superiore a una lingua straniera nei confronti della propria. […] In alcune scuole esclusive di Lagos e Ibadan, la maggioranza degli studenti non sa nemmeno salutare in Yoruba, giacché nelle scuole pubbliche e private non è permesso dalle regole interne comunicare in lingue descritte come ‘vernacolari'».

Secondo il Ministro della Cultura, Lai Mohammed, «l’80 per cento dei giovani nigeriani, specialmente coloro tra i 12 e i 18 anni d’età, faticano a esprimersi fluentemente nella propria lingua, oppure non la parlano affatto«. Chissà se anche questo gli angloinvasati italiani lo chiamerebbero «arricchimento».

L’esempio della Nigeria dovrebbe aiutare a darci una prospettiva su fenomeni italiani molto recenti. A parte la vanità e il tamarrismo elitista dilagante (vedi qui), quali altre conseguenze potremmo aspettarci da politiche quali l’obbligo dell’inglese per essere assunti nella Pubblica Amministrazione – dal 2017, in Italia? Oppure il Decreto Sostegni bis (dl 73-2021) secondo cui, per poter accedere al «Fondo italiano per la scienza», le richieste scritte, i progetti, e addirittura i colloqui orali, devono essere presentati in inglese pena l’irricevibilità della domanda (leggi qui i dettagli). Oppure sul fatto che sempre più atenei italiani impartiscono corsi al 100% nella lingua superiore. Per citare l’accademica statunitense Jane Tylus, nel suo saggio «Global English? Un esempio da Firenze» scritto per il libro «Fuori l’italiano dall’università?» a cura dell’Accademica della Crusca (Laterza, 2013): «perché impoverire il nostro linguaggio scientifico, perché impedirgli di crescere e di svilupparsi, e di acquisire autorevolezza, a beneficio di una lingua diversa, anch’essa impoverita dall’essere destinata alla mera comunicazione di dati tecnici in un circolo limitato di studiosi?«

Manifesto per la salvaguardia della lingua basca (euskera), 2018.

Come nota Salvatore Claudio Sgroi, riferendosi precisamente all’attuale andazzo dell’italiano «Se non adoperata nei contesti culturali alti, una lingua si impoverisce. E riducendosi via via tali occasioni d’uso, essa finisce con l’essere rimpiazzata dalla lingua più «forte», di una comunità culturalmente superiore«.

Del resto, «le conseguenze del contatto tra lingue di diverso status, quindi in equilibrio instabile tra di loro, possono essere diverse, se non opposte, ma potenzialmente conducono tutte ad un fenomeno di ‘obsolescenza linguistica’. La riduzione strutturale e funzionale rende debole l’idioma minoritario portandolo alla fine alla sua assimilazione all’interno della lingua standard (processo definibile come ‘dialettizzazione della lingua’), mentre il mantenimento di strutture arcaiche sottende l’’imbalsamazione’ della lingua, il suo uso in contesti stereotipati e quindi l’assenza di vitalità del sistema e nella creatività del parlante. La lingua diventa così obsoleta e il suo uso sempre meno funzionale alle nuove esigenze comunicative«. (Silvia Dal Negro, 2004, cit. da Deidda) [1]

Come scrive Claudio Marazzini, dire che è una lingua è a rischio non significa solamente che letteralmente rimangono zero parlanti di quella lingua. Ridacchiarci su, da parte di linguisti di professione, o fare finta che la lingua italiana sia immune dai rischi di pidginizzazione, creolizzazione, o semplicemente impoverimento esponenziale, è una grande irresponsabilità. Nessuno, nel secolo XXI, si sognerebbe mai di scrollare le spalle dicendo che «tanto-scompaiono-da-sempre» parlando di piante, alberi, animali, o di fronte a esempi di beni culturali a rischio. Perché quando ce ne si accorge, spesso è troppo tardi.

È un paradosso che proprio coloro che si affrettano a gridare al-lupo-al-lupo, ogni 5 minuti, contro i rischi immaginari (nel 2022) di un'»autarchia linguistica» credano che l’italiano goda di chissà quali doti superiori di immarcescibilità. Quasi come un riflesso allo stesso tempo altezzoso e provinciale. Come se l’italiano fosse qualcosa di superiore a tutte quelle lingue sull’orlo dell’estinzione, già estinte o qualitativamente a rischio (il già menzionato yoruba, ma anche il gaelico scozzese, il cornico, l’aranés, l’euskera, le lingue uto-azteche, il bretone, il gallurese, il platt deutsch, il ladino e infinite altre). Scommetteremmo che, verso di loro, i nostri cari linguisti mostrerebbero una maggiore attenzione e sensibilità.

12 lingue europee a rischio immediato secondo l’UNESCO, 2021.

[1] Sara Deidda, tesi di laurea, «La questione sarda. Aspetti sociolinguistici e di politica linguistica«, Alma Mater Studiorum, 2014/15.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

NON succede in tutte le lingue

Durante gli scorsi due mesi abbiamo effettuato un’analisi comparativa degli anglicismi puri presenti sulle prime pagine digitali di quattro quotidiani europei di simile tiratura e stile, più un quotidiano britannico per rilevarne eventuali forestierismi e italianismi puri.

La Parte 1 della nostra analisi ha fornito risultati allucinanti, onestamente molto peggiori delle nostre aspettative più pessimiste (vedi qui e anche qui per conoscere i dettagli). Il referente italiano si è rivelato così intriso di anglicismi da totalizzarne abbondantemento più del doppio dei suoi omologhi francesi, spagnoli e tedeschi messi insieme.

Per questa ragione, per la Parte 2 della nostra analisi, abbiamo cambiato i quotidiani sperando di registrare qualcosa di diverso. Questa volta ci siamo affidati a La Stampa (Italia), Le Figaro (Francia), El País (Spagna) e Süddeutsche Zeitung (Germania), affiancati da The Times (Regno Unito).

Di diverso abbiamo notato che: 1) al contrario dell’anglofilo El Mundo, El País (della cui grafica siamo innamorati) segue chiaramente una linea editoriale fedelissima alla lingua castellana e tende ad utilizzare davvero pochissimi anglicismi; 2) che le parti si invertono tra Le Monde, molto fedele al francese, e Le Figaro, non restio a pubblicare anglicismes; 3) che nonostante il Süddeutsche Zeitung rifletta comunque l’uso copioso di anglicismi nella Germania di oggi, non raggiunge i livelli di Welt; e 4) che l’attenzione speciale che The Times sembri dedicare ai temi irlandesi ha consentito la rilevazione di alcuni termini gaelici.

Per il resto, purtroppo, sul tema che più ci sta a cuore, vediamo che ancora una volta è il quotidiano italiano ad utilizzare infinitamente più anglicismi degli altri. La Stampa ne ha totalizzati 336 in una settimana contro i 276 di tutti gli altri messi insieme (includentdo The Times).

Anche se appena più moderati rispetto agli angloassatanati de la Repubblica, specialmente – per pura coincidenza – durante la giornata del 1 Gennaio, anche La Stampa ne usa a tonnellate, quasi sempre senza motivo, e spesso in maniera ridicola. Spiccano le rubriche – in italiano, sia chiaro – con i titoli da mercante di datteri quali «Quirinal Game«, «Vatican Insider» e «Italian Politics«, nonché la solita processione di empowerment, gender, no vax, revenge porn, fake news che sono diventati i pilastri del creolo linguistico degli ultimi anni. I dettagli si trovano qui.

L’analisi continuerà con cadenza bisettimanale fino a metà Febbraio.

Purtroppo, nel frattempo, i dati che abbiamo rilevato confermano la pochezza disarmante dei tanti, troppi, linguisti italiani di professione, secondo i quali «tutte-le-lingue-fanno-così«, «anche-gli-inglesi-dicono-pergola«, «vabbè-ma-solamente-l’area-lessicale«, «che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film«, «e-che-dobbiamo-fare-come-Mussolini«, e così via. E che, tra una scrollata di spalle e un tweet con la consistenza di una pozzanghera, continuano a liquidare questo fenomeno rapidissimo, gigantesco e di una mole senza precedenti, invece di riconoscerlo, guardarlo in faccia, studiarlo prioritariamente e dibattere cosa meglio si potrebbe fare a livello normativo.
Perché la morte dell’italiano sta avvenendo adesso, davanti a noi, e quando qualcuno si sveglierà – magari con una petizione nel 2050 nello stile di quello che si fa oggi con il gaelico, il basco, il bretone o i panda per salvarli dall’estinzione – sarà probabimente troppo tardi.

Così muore una lingua

Come si fa a parlare di arricchimento linguistico mentre si moltiplica il numero di termini italiani in disuso e l’intaccamento sintattico inizia a vedersi dappertutto? AUTORE: Peter Doubt*

Abbiamo già espresso alla nausea la nostra incredulità di fronte ai numerosi e titolatissimi linguisti, sociolinguisti, terminologi, e accademici italiani completamente insensibili (se va bene) o conniventi (se va male) nei confronti del cambio attualmente in atto nella lingua italiana.
Secondo alcuni, 1) la valanga di (pseudo)anglismi consiste in un «arricchimento linguistico» dato che 2) molti di questi anglismi si utilizzerebbero come «sinonimi«, specie se visti dentro una varietà di contesti.


E già qui, con la storia dei «sinonimi», dovremmo fermarci un attimo.
Sinonimi sono parole «di una lingua» che hanno un «significato fondamentalmente uguale» (Treccani). Nella stessa lingua, sottolinea Collins, sotto la definizione di synonym.
Se dico «faccia», «volto» ne è un sinonimo. Face non lo è. È una traduzione, equivalente, o versione in inglese, né più né meno di cara in spagnolo, Gesicht in tedesco, o visage in francese. Se face inizia ad essere visto come un sinonimo in italiano, insieme a 10,000 altre parole di sapore anglo negli ambiti più vari, vuol dire che qualcosa sta avvenendo, per quanto si ripetano a memoria i «meme» delle leggi fallite fascionarcisiste di 90 anni fa per far finta di nulla, celare le proprie stesse vanità, o deflettere con strategie di puro spostamento psicologico.

Dunque diamo uno sguardo al paradosso dell’italiano che si starebbe «arricchendo» mentre sempre più termini scompaiono, entrano in disuso, o imboccano il viale del tramonto grazie ai loro nuovi «sinonimi».

Abbiamo già illustrato qui come l’irruzione di match e big match nel vocabolario italiano abbiano reso obsoleti nel giro di 10/15 anni i termini incontro e partitissima. Abbiamo spiegato, con numeri alla mano, i casi di termini angloidi (fare shopping, Business School, i farlocchi rider, question time, location) il cui effetto è stato quello di neutralizzare o schiacciare quelli che erano, direttamente, i suoi equivalenti diretti in italiano oppure, indirettamente, altri sinonimi o derivazioni italiane.
Rimanendo sul tema delle partite, fino a pochi anni fa, il grande pubblico italiano avrebbe assorbito da stampa e televisioni termini quali incontro, contesa e duello. Magari, addirittura tenzóne. A chi vi scrive rimase impressa quella parola di sapore classico proprio quando la ascoltò, per la prima (e forse ultima) volta, da Bruno Pizzul durante una telecronaca calcistica a metà anni 80.
Oggi, l’effetto cannibalizzante di match su «partita» è minimo, ma non lo è purtroppo sui vari sinonimi italiani ed elementi linguistici correlati. Diventa moribonda partita di cartello, entra in disuso partitissima, si sente sempre di meno incontro. Si arricchisce il creolo, s’impoverisce l’italiano.

Certo, gli esempi sportivi sarebbero dozzine. Le palestre del Bel Paese relegano la lingua italiana ormai a preposizioni e articoli. E, fino a pochi anni fa, highlights era quasi completamente sconosciuto. Si usavano espressioni quali fasi salienti, il meglio di, i momenti chiave. Guardate come si è invertita la tendenza. Negli ultimi due anni, fasi salienti è quasi morto, divorato appunto da highlights, che nel frattempo si è più che centuplicato, sul serio, in 20 anni.

Diapositiva è un altro caso interessante. L’angloinvasato con gli occhi vitrei vi dirà che «è chiaro che diapositiva doveva sparire, perché si riferisce all’analogico», mentre slide è del secolo XXI, quindi rende meglio l’idea.
Peccato però che proprio slide fosse la parola che si usasse in Gran Bretagna ai vecchi tempi per dire diapositive. Con l’arrivo del digitale, i Paesi anglosassoni non hanno ritenuto che bisognasse creare una parola nuova, e dunque hanno continuato a dire slide. Anche gli spagnoli hanno continuato ad usare diapositiva. Gli italiani, invece, hanno rapidamente buttato via la loro parola e hanno preso a piene mani quella anglo. Guardate i numeri dell’archivio elettronico di La Repubblica. Esempio più chiaro di così per descrivere una lingua malata non si può.
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Nel frattempo, l’onnipresente live si sta nutrendo sempre di più di diretta, dal vivo, e concerto. Tre contesti al prezzo di uno.

Ed è spettacolare vedere la prepotenza con la quale fake news, sconosciuto fino al 2010, abbia quasi completamente sostituito bufale (a proposito, ma l’inglese non era più comodo perché più breve?), mentre la polvere inizia lentamente a posarsi anche su menzogne, manipolazioni e disinformazioni, e la parola fake è ormai la prima scelta anche nel contesto di falso o contraffatto.


Chi è lo sfigato che dice ancora compere o andare a fare le compere? Si dice [fare] shopping, con la shopping list, magari per andare all’outlet, al discount e in cerca del low cost condito con sale (ma non nel senso del solido cristallino incolore) a destra e a sinistra. Occasioni, basso costo e sconti iniziano a mostrare i primi scricchiolii. Nel frattempo gli acuti linguisti italiani continuano a credere che il problema sia che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film?

Ancora più impressionante è il fatto che gli eventi ormai in Italia si debbano dire per forza in anglo. Giornata, con la maiuscola, non si dice quasi più. Qualche anno fa iniziò ad essere affiancata da Day, per poi esserne cannibalizzata, ed ecco oggi il dominio assoluto di Family Day, Pride Day, No Green Pass Day, CV Day, No Paura Day, Singles Day, Rivoluzione Day, Bi(-)Visibility Day, Sport Ability Day, il World Pasta Day (voluto dall’Unione Italiana Food, sia chiaro), addirittura il Provincia Day, qualsiasi cosa. A destra e a sinistra, anche in senso politico. Comincia persino a farsi strada Boxing Day per parlare del 26 Dicembre.

Eppure, in un’intervista pubblicata lo scorso Marzo, la sociolinguista Vera Gheno ha messo in mostra livelli di diniego da medaglia d’oro sentenziando:

Come avrà fatto Gheno a perdersi non solo la cascata continua di [Nome dell’Evento] Day e la marea crescente degli Open Day (la versione 2.0 del moribondo «Giornata di porte aperte»), ma anche gli innumerevoli Week (Milano Fashion Week, Genova Smart Week, Bologna Design Week, South Italy Fashion Week, Milano Digital Week, Milan Games Week, sono centinaia) che, alla faccia delle strutture sintattiche, cancellano tutte le preposizioni articolate (della/del/dell’) che si sarebbero usate prima.



E se gli attenti linguisti volessero ribattere che «vabbè ma sono contesti specifici», dovrebbero farsi un giro tra gli ospedali italiani, perché anche lì Day and Week li troviamo alla grande e li troviamo di traverso alle norme sintattiche dell’italiano.



Lo stesso avviene sempre di più con i Festival: Bra Cheese Festival (ridicolo, per un anglofono, ed esempio di come la smania di parlare e scrivere così abbia multipli effetti collaterali), i vari [Nome della Città] Summer Festival, Nicasi Beer Festival, Pinewood Festival, Pigneto Film Festival, Todays Festival, Ortigia Sound System Festival, Wood Sound Festival. Sono di tutti i tipi, e potremmo continuare fino a domani.

Gheno, e non solo lei, non lo notano, ma – sostituzione sistematica di vocaboli a parte – la stessa ibridazione sintattica continua imperterrita nel mondo dei premi e dei riconoscimenti. Un tempo in Italia esisteva il premio nazionale per il miglior maestro o professore dall’ingegnoso nome «Cuore d’Oro». Oggi c’è l’Italian Teacher Award, a cui si affiancano – sia chiaro, tutti al 100% in ambito NAZIONALE – Italian Tech Award, il Nation Award, l’Italia Sport Award, il Tuttonapoli Award, l’Urban Award. A proposito di quest’ultimo, chissà se leggendone il comunicato stampa del Comune di Genova, completo di bike-to-work e bike-to-school, Gheno (e non solo lei) direbbe che «non va ad intaccare le strutture sintattiche dell’italiano».



Però così va l’Italia, e chissà se i nostri amati linguisti si sono persi anche l’arrivo di must-have che, con la sua ingombranza lessicale e sintattica, sta dando ceffoni che la metà basta al sempre più desueto da non perdere. L’immagine qui sotto è di Poste Italiane, quelle che amano tanto la comunicazione cristallina da usare lo pseudo anglicismo reverse paperless e poi, tra tanti altri, postepay, delivery express e delivery globe, i quali hanno ufficialmente sostituito spedizione nella loro letteratura corporativa.



Gli «intaccamenti» sintattici sono ormai ovunque, e lo sono già da un bel po’.
Chissà se Gheno si è accorta del suffisso anglo -free, ormai presente ovunque (sugar-free, covid-free, plastic-free, fat-free, ecc.).



Esempi ancora più assurdi li vediamo, sempre più numerosi, negli ospedali italiani, da Roma a Foggia, da Ravenna a Palermo, da Genova a Milano. Esempi di come il narcisismo linguistico prenda il sopravvento persino sulla semplice chiarezza e sul diritto alla comprensione del 100% dell’utenza pubblica- diritto sancito per legge in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Spagna. I cartelli con la parola senologia vengono smontati e interi reparti rinominati Breast Unit. E lo stesso avviene con Skin Cancer Unit, Stroke Unit, e con l’irruzione di – tra molti altri – hospice, screening, checkpoint, e triage (francesismo che è entrato attraverso la via anglo per mandare all’oblio accettazione).



L’angloinvasato di turno vi dirà che i reparti vengono ribattezzati in inglese proprio per aiutare gli stranieri, come no. E, dicendo così, fa finta di ignorare che la stragrande maggioranza dei recenti immigrati in Italia non sono anglofoni, per non parlare delle decine di milioni di italiani che non conoscono l’inglese (magari i più anziani). Un concetto di empatia molto peculiare.

Ma torniamo alla malattia linguistica in atto.

Anche quando si cerca di coniare un neologismo in italiano, si noti come la versione in inglese, seppure farlocco, vinca. Abbiamo cercato negli archivi de la Repubblica quante volte Certificato Verde, Certificazione Verde, Certificato Covid siano apparsi negli ultimi due anni. Poi abbiamo contato Green Pass (che non si usa nei Paesi anglosassoni, dove si dice Covid Certificate o Covid Passport). Ecco i risultati:



E che dire di set, nel senso di insieme, serie, gruppo, a seconda dei casi, che si è convertito, come kit, in una di quelle sostituzioni pigrissime che si mangiano tutte le sfumature, depauperando il linguaggio?

Oppure di empowerment, che da qualche hanno si infila dappertutto a scapito dello sfigatissimo emancipazione?


Un recentissimo articolo pubblicato da entrambi La Stampa e La Repubblica, dal titolo «Dieci libri per l’empowerment (femminile, ma non solo) […]» fa particolarmente colpo. Da un lato, perché l’autrice citava il dizionario Garzanti per definire empowerment (“Processo di riconquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire”), operando una sostituzione pura mentre la traduzione ce l’aveva a portata di mano con emancipazione (e forse, ancora di più, affrancamento). Dall’altro, perché l’articolo snocciolava anglismi inutili nello stile purtroppo quasi istintivo del «giornalismo» italiano di oggi. Revenge porn, catcalling, victim blaming, fat-shaming, tutti recitati con quella casualità e quell’autocompiacimento che, grazie specialmente alla classe politica e giornalistica, stanno rendendo gli italiani sempre più incapaci di articolare concetti nella propria lingua.
In altre parole, questa crescente dipendenza, quasi di tipo narcotico, che gli italiani stanno sviluppando verso gli anglicismi sembra minare la capacità di tessere, di sviluppare, di produrre argomenti senza, ricorrere ogni 10 secondi, per citare Antonio Zoppetti di Diciamolo in italiano, alla «stampella dell’inglese».

Guardate come l’irruzione di catcalling negli ultimi due anni sia coincisa con il declino di importunare e la scomparsa definitiva di pappagallismo.

Un’altro è roadmap, che sembra aver soppiantato concetti come percorso e itinerario (in senso metaforico, cioè quando riferiti a progetti e obiettivi).



Nel nostro precedente articolo avevamo parlato della scomparsa quasi improvvisa di interrogazioni parlamentari a beneficio di question time, più o meno a partire dal 2010.
Adesso guardate gli effetti di come, nel giro di un (1) anno, l’adozione a livello legislativo dell’americanismo caregiver a scapito del suo equivalente italiano (letteralmente indicato tra parentesi nella legge) abbia ufficializzato la secondarietà di badante, destinandolo all’oblio e decretando la fine dell’altro possibile sinonimo italiano, assistente familiare. Gli effetti sono già visibili. Ne prendano nota gli illusi de «la lingua la fanno i parlanti«, inspiegabilmente intorpiditi davanti all’ovvietà dell’immenso peso esercitato, a livello linguistico, delle istituzioni e degli enti pubblici.


Che poi sono le stesse istituzioni che, negli ultimi cinque anni, hanno ufficializzato la sostituzione della parola squadra a vantaggio di team per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi, ignari di quanto sia ridicolo davanti agli occhi del mondo un Paese non anglosassone che scimmiotta – in un ibrido sintattico inspiegabile e senza alcun motivo – una lingua non propria, come dei teneri copioni da quinta elementare. Signori e signore, l’Italia Olympic Team.




Fa male riconoscerlo, ma questo articolo potrebbe andare avanti all’infinito con esempi relativi a tutti gli ambiti. E non abbiamo neanche toccato il mondo del fashion & beauty, del tech, delle start up, delle celebrity, dei reality, dello showbiz e delle influencer, o il mondo del food. Non abbiamo toccato il mondo delle professioni, dove ormai anche commesso lascia spazio a Shop Assistant e sono tutti, con le maiuscole, Visual Merchandiser, Chief Sales Officer, Team Manager, Head of Talent Acquisition & Sales, Copywriter, Assistant Editor, Programme Manager, CEO.
Quante parole ed espressioni ci sono che – se già ora relegate ai ricordi di un over 40 (intaccamento sintattico) – non hanno alcuna possibilità di sopravvivere tra quelli che sono gli adolescenti e i bambini italiani di oggi (vedi qui)?



Compilare una raccolta esaustiva dei tantissimi termini italiani sulla via del tramonto è impresa quasi impossibile. È una via sempre più affollata e la causa è sempre la stessa, l’anglorimbambimento delle istituzioni, dei media, e dei pubblicitari italiani del secolo XXI. Rimandiamo i nostri lettori alla rubrica PAROLE IN DECLINO a cura di Giacomo M. Valentini, che seppur non completa, rende benissimo l’idea.

E lascio a lui, Giacomo, la conclusione:

«Non c’è più la ricerca di sinonimi, di sfumature e di cultura. La lingua italiana di oggi è una lingua banalizzata, stereotipata, dove non c’è più bisogno di usare vocaboli più ricercati – in italiano – perché esiste sempre il ricorso all’angloamericano che tutto risolve, anche quando usato con significati diversi dalla lingua d’origine«.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

Itanglese: un fenomeno unico

«L’elitismo, la rapidità, la portata e la penetrazione degli (pseudo)anglicismi nella lingua italiana di oggi non conosce precedenti né storici né geografici». AUTORE: Peter Doubt*


Cos’è il «portuñol«? Quanti dei nostri lettori ne hanno sentito parlare?
Creolo formatosi spontaneamente, e osservato da ormai un paio di secoli nelle zone limitrofe tra Uruguay, Argentina (e altri Paesi sudamericani di lingua castellana) e il Brasile, nonché registrato da tempo in alcune zone lungo il confine tra Spagna e Portogallo, il «portuñol» è uno dei più classici esempi di pidgin (o creolo, o lingua mista, secondo i criteri usati) originatosi da contatti tra comunità adiacenti e necessità di mutuare vocabolario reciprocamente per ragioni di praticità.

Un viaggio attraverso la bella e verdissima frontiera tra Spagna e Portogallo offre una prospettiva linguisticamente unica, ascoltando dialetti e idiomi generatisi nei secoli dove, a spagnolo e portoghese – secondo la latitudine – si mischiano anche elementi di asturleones, a Nord, o di andaluz, nella parte piú meridionale del confine (il cosiddetto barranqueño ne è un esempio).

Senza voler annoiare il lettore, il punto di questo sermone linguistico su un frammento del mondo hispanolusitano consiste nel mettere in evidenza la definizione di quella che sarebbe realmente una «lingua fatta dai parlanti«.
Quando i linguisti d’Italia liquidano pigramente, irritati, distratti, il crescente fenomeno del misto fritto itanglese dicendo che «la lingua la fanno i parlanti«, o che «è sempre stato così«, o che «l’italiano è sempre stato una lingua bastarda» peccano, semplicemente di cecità, e – non dovrebbe sorprendere- provincialismo.



I fenomeni osservati nella storia, e registrati da linguisti con gli occhi aperti e non troppo occupati a recitare a memoria la bibliografia di De Saussure, sono molti. A parte l’adiacenza geografica che ha dato luogo all’alternanza di codici sviluppatisi con il portuñol, o il famoso Spanglish nato a Puerto Rico oppure tra il Messico e alcune zone degli Stati Uniti d’America (Arizona, New Mexico, California, Florida, parti del Texas, ecc.), ci sono poi i fenomeni di spontanea meticciazione linguistica occasionatasi in comunità di migranti. Si pensi al lagunen-deutsch della regione dei laghi del Cile, dove migranti di lingua tedesca dei sudeti (attuale Repubblica Ceca) e di Austria e Germania si insediarono a partire dal secolo XIX, un fenomeno interessantissimo dove spagnolo e tedesco entrarono spontaneamente in un calderone e ne uscirono producendo effetti strabilianti, sia dal punto di vista lessicale che dal punto di vista di alterazioni morfologiche (verbi spagnoli declinati alla tedesca, ecc). Senza andare così lontani, la penisola italiana visse fenomeni simili (anche se moltissimi secoli prima e con le sue peculiarità) con il griko in alcune parti del Salento o le isole linguistiche gallo-italiche della Sicilia.


Eppure, tornando ai giorni nostri, è dovere notare come, dai quasi 5 milioni di cittadini stranieri arrivati in Italia dal 2000 in poi (e che includono comunità numericamente consistenti di cittadini rumeni, marocchini, cinesi e albanesi), la lingua italiana non abbia assorbito un solo neologismo o non abbia mutuato assolutamente nulla. Al contrario, invece, del cockney londinese (e non solo, si parla proprio di un Multicultural English) dove da decenni non si contano sia le espressioni che gli elementi fonologici e morfologici di provenienza giamaicana (e non solo), che sono attivamente penetrati – dal basso, cioè dai parlanti. O si pensi al francese dove, specialmente in aree urbane, l’apporto linguistico da parte, per esempio, di comunità arabe è un dato di fatto, e dove ormai le nuove generazioni cosiderano molti nuovi vocaboli lingua francese al 100% (caoua, seum, kif, chouïa, souk e molte altre). Esatto, la lingua la fanno i parlanti.

Il problema è che nessuno dei fenomeni descritti sopra rappresenta qualcosa in comune con la valanga itanglese di oggi. Non ha nulla a che vedere con la normale e graduale evoluzione dal basso – di qualsiasi lingua – avvenuta durante secoli, se non millenni, tra prestiti, assimilazioni e adattamenti.



Invece, dentro un’ottica più elitista, le analogie con l’itanglese del secolo XXI iniziano a scorgersi se ci avviciniamo a fenomeni di lingue creole sviluppatesi sotto dominazioni coloniali, dove una lingua importata militarmente si è imposta o sovrapposta. Si pensi al pidgin dell’Africa Occidentale (con varianti differenti in Nigeria, Ghana, Camerun, ecc), al kriol del Belize (definito ufficialmente «lingua di contatto» e che iniziò a radicarsi con l’avvento della tratta degli schiavi nel secolo XVI), al patois della Giamaica e il chabacano (e in maniera minore il tagalog) delle Filippine. Gli esempi sarebbero centinaia e furono il risultato di uno sviluppo a due livelli. Da una parte, quello istituzionale e burocratico, con governatorati, tribunali, polizia ed eserciti che inevitabilmente esercitavano i propri poteri nelle lingue colonizzatrici costringendo i colonizzati ad adeguarsi. Dall’altro il fatto che tanto l’alfabetizzazione come l’educazione obbligatoria fu spesso istituita dalle forze colonizzatrici, impiantando le lingue colonizzatrici con robuste radici e trasformando le popolazioni locali in angloparlanti quasi nativi nel giro di un paio di generazioni. In altre parole, la lingua coloniale catapultata dall’alto e le lingue o, più spesso, dialetti locali (527 solamente nel caso della Nigeria) usati dalla popolazione comune portarono spesso a vere e proprie fusioni linguistiche, in alcuni casi completate da standardizzazione e ufficializzazione. Eppure l’Italia non è una colonia o una ex colonia, per cui neanche l’ultimo caso riesce ad offrire particolari esempi di precedenti simili all’ibdridazione linguistica degli ultimi 20 anni.



C’è poi l’altra «Leggenda Metropolitana del Linguista Pigro» secondo cui un fenomeno simile si sarebbe già visto con il francese a cavallo dei secoli XIX e XX. È vero che dalla Francia arrivarono molti prestiti (alcuni assimilati, come bigiotteria o gendarme, altri che rimasero integrali, come boutique), ma si trattava di parole individuali (e comunque molto minori in numero rispetto allo tsunami contemporaneo), al contrario della valanga di ibridazioni sintattiche dell’itanglese attuale che relegano sempre di più l’italiano a un guscio di preposizioni e congiunzioni, o che ne stravolgono le regole della sintassi (no green pass day, we are hiring, sugar-free, 4-weeks for inclusion, pet therapy, car sharing, employer branding, back to school, storytelling consultant, beauty influencer, call per start-up green, delivery pick up point, look total white, vaccination manager, boom dei ready to drink, drive-in covid, rider support, Not-a-museum, Italy4culture, Italia Team e centinaia di altri).


In altre parole, l’itanglese resta un fenomeno unico e sorprendentemente sottostimato perché sta avvenendo con una rapidità senza precedenti. Ricapitolando:
1) senza una colonizzazione fisica, una presenza militare o un dominio politico da parte di un Paese angloparlante (al contrario, per esempio, di Malta, dell’Irlanda o di altre colonie ed ex-colonie);
2) senza che l’Italia confini con un Paese angloparlante e che avvenga un intercambio o mutualizzazione linguistica per adiacenza geografica;
3) senza che questa enorme influenza linguistica avvenga attraverso l’apporto di comunità di immigrati, per esempio in aree metropolitane, nonostante il loro numero sia aumentato considerevolmente negli ultimi 25 anni;
4) senza che i prestiti linguistici si limitino alle sole sostituzioni lessicali.



Che l’itanglese non sia un fenomeno linguistico «fatto dai parlanti«, insomma, è ovvio anche a un bambino, ed è desolante vedere accademici e linguisti di professione liquidare pigramente questa improvvisa mutazione linguistica e culturale dicendo il contrario. Pensate all’apparire dal nulla di espressioni catapulate dall’alto, da ministeri, comuni, enti pubblici. Jobs Act, navigator, cashback, smart working, super green pass, lockdown, caregiver, rispettare il droplet, la Spending, il Board, la stepchild adoption, It’sArt, il mobility management e centinaia di altri da parte di governo e agenzie governative. Pensate ai mostri linguistici quali no gender, no green pass day, family day, no paura day, Run for mem da parte di partiti ed organizzazioni politiche. Pensate all’INPS quando pubblica comunicati come il «4-Weeks for Inclusion: change management e inclusione» e parla di workshop. Pensate alle Poste italiane quando sostituiscono ormai per sempre parole come spedizioni, posta celere, e resi con reverse paperless, my poste delivery business, e poste delivery express. O a quando Trenitalia onanizza con train manager, self check-in, crew, Trenitalia for business, «see you there!«, e riempie il suo magazine di anglicismi inutili quali lifestyle e investor relations. O quando i comuni e le regioni parlano di Ro.Me (sul serio), food policy, park & ride, Happy popping (sul serio), shared wood e organizzano un «talk» in un «Park Hub ai designer under 30«. O quando una signora di 80 anni malata di cancro riceve una lettera dall’ospedale della sua città invitandola a uno «screening nel Day Hospital Breast Unit«, senza contare i vari Skin Cancer Unit, hospice, week surgery, checkpoint temperatura e drive through covid. O quando vedi che sempre più corsi nelle università italiane sono offerti esclusivamente in inglese, tra un open career day, una masterclass in copywrite e una business school (ormai economia e commercio è cosa obsoleta, come le musicassette). O quando rabbrividisci notando la valanga di professioni ormai in inglese, trasudando narcisismo elitista, dal Warehouse Manager al Head of Talent Acquisition & Sales e dal Chief Sales Officer Key Account al Vice President HR and Organization (mentre si rivolgono a un pubblico italiano).
Peggio ancora, quando il sapore di autocolonizzazione si inizia a sentire vedendo interi quartieri battezzati in inglese e pubblicizzati in lingua completamente ibrida (si veda FeelUpTown o North Loreto a Milano), mercati (East Market), linee della metropolitana (Circle Line), o addirittura i bidoni della spazzatura (City Bin a Mantova).

E tutto questo senza contare:

– i deliri onanistici di giornali, riviste e mezzi di comunicazione contenenti ormai quasi più (pseudo) anglicismi che i loro colleghi della stampa giamaicana, nigeriana o filippina. Non si contano le sezioni, i report e i magazine con titoli e sottotitoli infarciti di news, green & blue, inside over (?), New York stories, longform, moda&beauty, Italian tech, green tech, newsletter, photography, entertainment, cover story, cold case, food & beverage, spycalcio, greenheroes, the best, Andrea’s version e centinaia di altri.
– il bombardamento da parte di pubblicitá e agenzie specializzate le quali sembrano incapaci di completare una sola frase senza infarcirla con deliri da anglomania pura (si pensi, per fare un esempio infinitesimale, al martellamento mediatico del Black Friday e i suoi cugini Cyber Monday, Black Week e Domenica Black Finish).
– l’effetto moltiplicatore, stile ventilatore industriale (o benzina sul fuoco, se preferite) delle reti sociali (i social), dei telefoni intelligenti (gli smartphone) e delle varie piattaforme e applicazioni, quelle sì presenti su scala mondiale, dove termini e neologismi vari si diramano con la velocità della luce (si pensi ai sempre più presenti ghosting, flaming, tagging, fino a tutti gli acronimi da LMFAO a IMO). Ma persino lì, dove il terreno è un po’ più livellato, dove il ruolo della globalizzazione è chiarissimo, dove le sostituzioni non sono così elitiste come negli esempi precedenti, l’enorme peso dei vari (o varie) influencer fa sì che la direzione del flusso linguistico segua comunque una tendenza dall’alto verso il basso.

Quello che sta accadendo oggi alla lingua italiana, non è – nella quasi totalità – un fenomeno spontaneo, nato e cresciuto tra parlanti. Solamente accettare questa semplice verità consentirebbe una maggiore presa di coscienza nei confronti del tipo di futuro, se uno ce n’è, per la lingua italiana e, specialmente, offrirebbe una maggiore inclusione verso i milioni e milioni di utenti del Bel Paese tagliati fuori dalla follia psicolinguistica attualmente in atto.

*Peter Doubt è un traduttore/interprete (spagnolo-inglese-italiano) con doppia cittadinanza britannica e italiana. Vive in Spagna da 14 anni.