La Repubblica dell’itanglese

Solamente un povero di spirito potrebbe dire che quello in atto sia «uno scambio linguistico»: ecco i risultati del primo mese completo della nostra analisi comparativa.


Siamo giunti alla fine delle prime quattro settimane della nostra analisi comparativa tra anglicismi e pseudoanglicismi sulle prime pagine delle edizioni digitali di quattro quotidiani europei (La Repubblica, Le Monde, El Mundo e Welt) e forestierismi sul Guardian britannico (vedi qui). I risultati sono stati molto peggiori delle aspettative più pessimiste. Il totale cumulativo, durante quattro settimane, e senza contare determinate ripetizioni e anglicismi completamente acquisiti quali bar, podcast e sport, è il seguente:

La Repubblica = 2528
Welt = 1122
El Mundo = 393
Le Monde = 191
The Guardian = 25 (di cui 7 italianismi)


Se non avessimo notato il numero sorprendente di linguisti, sociolinguisti, terminologi e filologi italiani colpiti da diniego cronico e dissonanza cognitiva grave, diremmo che non ci sarebbe bisogno di ulteriori commenti. Del resto basta farsi una passeggiata in Italia. Basta guardare la televisione, le pubblicità, o le news. O visitare un’ agenzia interinale. O magari, andare all’università, al mall, o al waterfront della tua città; spedire qualcosa con il delivery express di Poste italiane; farsi dare il buongiorno dal train manager su Trenitalia; guardare gli highlights di un match di calcio; leggere un articolo sul body shaming delle influencer che fa tanto cringe; prenotare l’hairstylist; partecipare a un talk sulle prospettive del recovery dopo il lockdown; parlare degli abs con il personal trainer, ecc.

E invece non basta. Per cui, ricordiamo che gli anglicismi e pseudoanglicismi di Repubblica riguardano tutti gli ambiti, nessuno escluso. Notiamo che sempre di più si intravedono unità linguistiche che vanno oltre le singole parole in inglese (vedi il paragrafo successivo). Osserviamo che molti termini in italiano, che si tratti di parole singole o di interi concetti, appaiono sempre più in disuso, per esempio verde, modulo, garzone, tecnologia, approfondimento, montaggio, ovazione o applausi a scena aperta, commerciante, il Premio tale, la Settimana di [evento], o la Giornata di [evento]. Rileviamo che i quotidiani italiani non sono gli unici in Europa, ma che sguazzano in (pseudo)anglicismi in maniera esponenzialmente superiore agli altri Paesi. Se consideriamo il computo globale durante le quattro settimane, la Repubblica ne totalizza quasi il doppio di tutti gli altri messi insieme, più del doppio dei loro colleghi tedeschi di Welt (che stanno comunque messi male, ne parleremo in dettaglio tra qualche giorno), 6.5 volte in più degli spagnoli de El Mundo, e oltre 13 volte in più di Le Monde in Francia.

Per la quarta settimana consecutiva, La Repubblica vince e lo fa alla grande, totalizzando 597 tra parole, frasi e termini che farebbero invidia a qualsiasi colonia o ex-colonia di Elisabetta Windsor (i quali, in verità, nel caso dei numerosi pseudoanglicismi, si farebbero delle grosse risate). E dunque vai con l’onanismo delle valanghe di no-vax, super green pass, cluster, hub, boom, pressing, body positivity, Italian Tech, longform, Italian Teacher Award, beauty, boom, millennial, contest, plug-in hybrid, delivery, newsletter, smart working, green&blue, make-up artist, hairstyle, coffee table book, retailer, form, rating, recovery, green dreams, startupper, Merry Christmas, family office, covid watch, hi tech, Europe talks, form, 15 minute city, legally blog, last second, low cost e chi più ne ha più ne metta. In tutti i settori, per buona pace della precisissima terminologa Corbolante.


C’è poi da parlare del confronto con i forestierimi e italianismi presenti su The Guardian. Quando certi linguisti dormiglioni liquidano il fenomeno della crescita esponenziale di termini inglesi e pseudoinglesi con frasi precotte nello stile di «e allora gli inglesi che devono dire con tutte le parole italiane che hanno«, viene da domandarsi cosa passa per la mente di certe persone. Magari la settimana di vacanza a Londra fissandosi selettivamente sulle parole in italiano nei ristoranti e bar di Soho, o memorie di qualche CD di musica classica o lirica con parole come adagio, orchestra, piano concerto, lento e l’istesso tempo. Dunque, il cervello provinciale ne evince che il mondo anglosassone in generale è permeato di lingua italiana.
Poi ci sono quelli che, sebbene assolutamente non colpevoli di ignoranza, si consolano con il fatto che gli italianismi del vocabolario inglese sono «Non solo maccheroni, mafia e mamma mia!«, che 500, 600 o 700 anni fa l’Inghilterra importava italianismi e che, ergo, la valanga di pseudoanglismi odierni fa parte di una bilancia culturalmente e linguisticamente positiva e salutare. Che sarebbe come se la popolazione irachena, devastata in tutti i sensi dai recenti anni di guerra e bombardamenti, si consolasse oggi dandosi pacche sulla spalla perché «sai, una volta la Mesopotamia era il cuore pulsante del pianeta».

È impossibile negare che un quotidiano di grande tiratura rispecchia – e dunque anche linguisticamente – le dinamiche sociali, economiche, politiche, e culturali di un Paese, le mode e le tendenze, i costumi e le preoccupazioni, le ossessioni e le antipatie. Magari, dipendendo dagli orientamenti editoriali, questi fattori possono essere aggravati o ridotti. Eppure se – in un mese – la prima pagina del Guardian ha totalizzato 7 italianismi (mafia, camorra, ricotta, radicchio, diva più la parola sanità utilizzata due volte) contro i 2528 anglicismi de la Repubblica (cioè lo 0,27%), allora è sufficientemente chiaro quanto sia nulla oggi l’influenza della lingua italiana in Gran Bretagna, mentre in Italia l’inglese ha ormai raggiunto livelli di penetrazione totale del tessuto culturale. Poi, d’accordo che uno si vergogni ad ammetterlo, però solamente un povero di spirito potrebbe dire che quello in atto sia un salutare «scambio linguistico», «che la globalizzazione» e «che anche gli inglesi dicono tiramisù e pepperoni con la doppia ‘p‘».

E se a qualcuno venisse in mente di dire che «non è vero che le persone parlano come i giornali», quel qualcuno dovrebbe però spiegare perché quelli italiani debbano farlo con 2528 anglicismi in un mese, mentre quelli spagnoli riescono a funzionare con una frazione degli stessi. E comunque sarebbe davvero di un’assurdità inaudita pensare che la correlazione tra linguaggio usato fuori dalle redazioni e linguaggio dei giornali sia inesistente e, in particolare, che lo sia esclusivamente nel caso dell’Italia.

E se invece qualcun’altro dicesse che la nostra analisi rifletta il fatto che gli anglicismi siano un fenomeno inevitabile dovuto alle nuove tecnologie e invenzioni di provenienza a stelle e strisce, di nuovo, perché non lo è nella stessa misura nei quotidiani tedeschi, francesi e spagnoli?

E se magari, finiti gli alibi, ci si voglia illudere che la colpa sia solo degli angloinvasati de la Repubblica e che, per pura coincidenza, Le Monde, Welt, El Mundo, e The Guardian siano testate poco (o molto meno) inclini a usare forestierismi, non c’è di che preoccuparsi: la fase due del nostro studio, durante le prossime settimane, sarà centrata su La Stampa, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung, El País e The Times.

L’ultima considerazione è la seguente: se cifre del genere fossero state osservate in qualsiasi altro campo, dalla produzione delle mozzarelle al prosecco, dai risultati della nazionale di calcio ai numeri di turisti in Italia, o lo stato dei beni culturali, ne sentiremmo parlare ogni giorno. Invece la lingua italiana, in Italia, resta una nota marginale.