Se l’inglese fosse ungherese

Frammento di un articolo del Corriere della Sera /Corriere del Veneto: «Mio fratello Niccoló Ghedini, scapestrato in gioventù e insonne di talento», 19/08/2022.

Ci sono milioni e milioni di italiani che non hanno studiato l’inglese, oppure che lo hanno studiato poco, male e/o molto tempo fa. Per queste persone, la stragrande maggioranza di termini inglesi sono comprensibili quanto lo è la lingua ungherese.

Nell’immagine, abbiamo sostituito i termini inglesi usati dal Corriere della Sera, e comprensibili a un numero molto ristretto di lettori, con gli equivalenti in ungherese (lingua che, ci azzardiamo a dire, è sconosciuta virtualmente alla totalità degli italiani) per darvi un’idea di come si sente il lettore medio italiano dinnanzi ai continui schiaffi linguistici che si deve sorbire ogni volta che legge siti internet, giornali o riviste magazine, oppure ogni volta che guarda le notizie news, ascolta pubblicità, va a fare le spese shopping, o utilizza servizi pubblici.

L’incapacità di provare empatia verso milioni di potenziali lettori e utenti da parte di un numero notevole di giornalisti, pubblicitari e politici italiani non è solo stupefacente, ma è elitista da fare schifo.

Quando la preoccupazione di chi parla o scrive non è la comprensibilità per l’interlocutore, ma è invece il voler giocare a fare il figo internescional, sorge un problema grave di esclusione.

In altre parole, l’itanglese (o l’abuso sistematico di anglicismi in italiano) crea problemi di inclusione. Esclude, taglia fuori, discrimina, emargina, mette in difficoltà.

L’itanglese esclude

Milioni di italiani che non parlano l’inglese sono discriminati quotidianamente

Agosto 2022, l’Italia si trova nel pieno di una importantissima campagna elettorale. Ci sono decine di milioni di cittadini e residenti che non parlano l’inglese, oppure che lo conoscono poco e male.
Se una di queste persone volesse leggere i titoli dei giornali italiani per documentarsi, capire, decidere, si troverebbe molto in difficoltà.

Guardate l’immagine. Contiene ritagli di quotidiani italiani di tutti i colori: il Corriere, la Repubblica, la Stampa, il Giornale, Libero, Domani, il Manifesto, il Fatto. Si tratta di una brevissima raccoltà. Di esempi ne esistono a centinaia.

Osservate quanti titoli si appoggiano su anglicismi puri e, ne consegue, quanti concetti vengono espressi mandando la lingua italiana in soffitta. Abbiamo coperto le parole (pseudo)inglesi per dare a tutti un’idea di quanto sia difficile, per chi non conosce l’inglese, interpretare ciò che si legge.

In altre parole, per mostrarvi quanto sia esclusivo ed escludente il bombardamento continuo dell’itanglese da parte dei media italiani. Un comportamento discriminatorio particolarmente ipocrita, specialmente nell’era del termine inclusività sventolato a vanvera ogni 5 minuti.

Autore: Peter Doubt

Lingua smart, smart lingua

Piccolissimo frammento delle «co-occorrenze» della parola ‘smart’ nei giornali italiani del 2022.

Quante decine di espressioni italiane ammuffiscono in soffitta, diventano desuete, si atrofizzano, a causa dell’abitudine ossessiva degli italiani del secolo XXI di vomitare la parola «smart» in ogni occasione?
Si arricchisce oppure si intorpidisce, una lingua, in questa maniera?

Italia campione d’Europa. Di anglicismi.

È iniziata la Parte 3 della nostra analisi comparativa degli anglicismi sulle prime pagine digitali dei maggiori quotidiani europei (vedi qui i dettagli della settimana appena conclusa).

Questa volta è Il Corriere della Sera a rappresentare l’Italia di fronte ai suoi colleghi francesi di Libération, quelli spagnoli de La Razón e i tedeschi del Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Dopo aver analizzato i forestierismi e italianismi su The Guardian a Novembre e Dicembre e su The Times nei mesi di Gennaio e Febbraio, abbiamo ora scelto di contare quelli presenti sul maggior quotidiano irlandese, The Irish Times. I risultati sono sempre nella stessa direzione. Anzi, questa settimana l’Irish Times ha pubblicato addirittuta zero italianismi (e 8 forestierismi) in totale contro i 374 anglicismi puri, cioè parole inglesi (o pseudo tali, come «smart working» o «fashion addicted«) sul Corriere della Sera.



Risulta straordinario, per la nona settimana consecutiva, che i quotidiani di Francia, Spagna e Germania, quale che sia il loro orientamento politico, riescano a pubblicare notizie e rubriche usando una frazione degli (pseudo)anglicismi dei loro colleghi italiani. Gli anglicismi esistono anche negli altri Paesi europei, sia chiaro, ma ne abbiamo computati meno di 1/4 nel caso di Libération e Frankfurter Allgemeine Zeitung, e addirittura 1/6 nel caso de La Razón rispetto al Corriere.



Del resto non si tratta di nulla di particolarmente differente rispetto alle misurazioni delle settimane precedenti. Certo ci sono differenze di impostazione editoriale, per cui notiamo come il Frankfurter Allgemeine Zeitung, di orientamento conservatore, sia molto meno incline a usare anglicismi dei loro colleghi di Welt, quotidiano liberale. Al contrario, La Razón, giornale spagnolo di destra-destra sembra usarli molto più allegramente di El País, di centro sinistra, fedelissimo in maniera eccezionale alla lingua castellana.



Notiamo che l’uso di anglicismi di Libération è quasi esclusivamente confinato ai titoli di rubriche (CheckNews, Interview, Lifestyle), ragione per la quale la conta rileva moltissime ripetizioni.

In ogni caso, non c’è assolutamente paragone con i corrispettivi italiani. Non soltanto dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Quello che rilevammo con la Repubblica e la Stampa continua praticamente identico con il Corriere della Sera. Quasi sempre non si tratta di qualche titoletto dal sapore esotico per «colorare» un pezzo. L’uso di (pseudo)anglicismi è endemico, costante, incessante, e su di essi si regge concettualmente la presentazione di dozzine di titoli, occhielli e sommari.
Ecco dunque la sfilata di rubriche intitolate in inglese (Cook – sulla gastronomia, Data Room, LogIn, Italians, Heavy Rider, Trading Post, Radio Italians, Corriere Daily Podcast, ecc), giochi di parole («Mal di Tech«), nonché la solita valanga di anglicismi in TUTTI gli ambiti, dalla politica alla moda, dalla tecnologia alla medicina, dalle cronache alla guerra, dalla gastronomia allo sport.
Così come la pandemia si è presentata agli italiani come un’ottima occasione per ingozzarsi di (pseudo)anglicismi, così il triste avvento dell’invasione russa in Ucraina sta dando luogo a una scorpacciata di tank, Putin-show, task force, no-fly zone, bunker, social media war, peacekeeping, security, intelligence e altri prestiti linguistici completamente evitabili.

La lista degli anglicimi (e forestierismi sull’Irish Times) pubblicati durante la Settimana 9 è disponibile qui.

Ritagli dalle prime pagine digitali di Libération, Frankfurter Allgemeine Zeitung e La Razón, Marzo 2022.

Lingua malata, cultura malata

Si conclude la seconda parte dell’analisi comparativa di anglicismi e forestierismi su cinque grandi quotidiani europei. Indovinate chi ha vinto?

IMMAGINE: Risultati della Fase 2 della nostra analisi comparativa.

Cambiando le testate il risultato resta uguale. Se, nella 1ª Parte (vedi qui) della nostra analisi comparativa sugli anglicismi e forestierismi presenti nei quotidiani europei, la Repubblica aveva massacrato i suoi equivalenti francesi, spagnoli, tedeschi e britannici, la 2ª Parte (vedi qui) ha fornito risultati molto simili.

Ricordiamo ai lettori – perché sembra che la differenza sfugga persino a Professori del mestiere – che stiamo parlando di anglicismi puri (e forestierismi puri nel caso del Times), e non adattati, altrimenti la differenza sarebbe stata ancora più stratosferica. Anglicismo puro (o «prestito integrale») è fast food, greenwashing, beauty, startupper, revenge porn. Adattamento (o «prestito integrato»), sono i vari pigiama, dopato, followare (in italiano), le futboliste (in francese), bloguero o penalti (in spagnolo), Stalkerin e Fußball (in tedesco). Per un inglese, sangria, primadonna e brasserie sono prestiti non adattati, integrali. Gallery e sonnet, per esempio, sono invece adattati.



Chiarito questo, ecco alcune importanti considerazioni.

1. La Stampa ha registrato 1371 anglicismi puri in quattro settimane. Per raggiungere tale numero non è addirittura neppure sufficiente aggregare gli anglicismi di Le Figaro, Süddeutsche Zeitung, El País più i forestierismi sul Times. È la seconda volta che succede. Fu così anche durante la 1ª Parte della nostra analisi.

2. Gli anglicismi su La Stampa riguardano tutti gli ambiti. Tutti. Nessuno escluso. Politica, medicina (specialmente con la pandemia in primo piano) cronaca, sport, bellezza, tecnologia, ambiente, gastronomia, turismo, motori, costumi, musica. Nella stragrande maggioranza dei casi sono anglicismi persistenti e sempre più radicati nella società italiana, dato che sono gli stessi che si vedono anche nei negozi, nei supermercati, in televisione, al lavoro, nelle agenzie interinali, sulle etichette, all’università, ecc.

3. Se da un lato si tratta di anglicismi persistenti, dall’altro sono quasi sempre evitabili e in alcuni casi (pseudo)anglicismi. Non è, in sé, colpa de La Stampa, la quale si limita a riflettere le tendenze delle istituzioni, degli altri media, e delle elite italiane. Gli esempi sono innumerevoli, ma basta notare come il famoso Green Pass italiano si dica Covid Zertifikat in Germania, Certificado Covid in Spagna, Pass Sanitaire in Francia e, attenzione, Covid Passport – non Green Pass – nel Regno Unito.
Come con «smart working«, «baby gang«, «droplet«, «social» e tanti altri, per descrivere fenomeni contemporanei la lingua italiana del secolo XXI sembra preferire a se stessa addirittura una pseudolingua monca, deformata o addirittura inesistente. È un sintomo di una malattia culturale.

4. Davvero ci sfugge perché si debba scrivere sold out invece di tutto esaurito, half time invece di primo tempo o intervallo, creator invece di creatore, beauty routine invece di routine (o abitudini) di bellezza, videogames invece di videogiochi, Italian Politics invece di Politica italiana, magazine invece di rivista, rubrica o rotocalco, top invece di una vasta gamma di equivalenti (dipendenti dal contesto), gender invece di genere, the greatest invece di il migliore, alert invece di allerta, trend invece di tendenza, storyteller invece di narratore ecc. Gli esempi sono centinaia. Il lettore stesso potrà consultarli qui.
Qualcuno dirà: che problema c’è?
Uno, immediato, consiste nei binomi empatia/elitismo ed inclusività/esclusività, giacché milioni di potenziali lettori non capiscono e rischiano di sentirsi alienati e in difetto.
Due, a medio (anzi, breve) termine, questa valanga di sostituzioni riguarda la salute, la qualità e il futuro della lingua italiana come bene culturale.
Se questo massacro linguistico avviene ogni giorno – OGNI GIORNO – su tutti i quotidiani, davvero è razionale non aspettarsi conseguenze? Basta guardare che fine stanno facendo, con la velocità della luce, termini come fattorino, garzone, badante, partitissima, montaggio, diapositiva, importunare, videoperatore, Economia & Commercio, dichiararsi, verde, marca, griffa, interrogazioni parlamentari, ecc. (vedi qui e qui per alcuni dettagli quantitativi).



5. Al di là della spettacolare differenza quantitativa di (pseudo)anglicismi, La Stampa (come La Repubblica nella 1ª parte del nostro studio) è l’unica a trapiantare ormai regolarmente intere locuzioni inglesi nelle frasi. Non parliamo soltanto dei titoli di rubriche in inglese, che sono ormai tantissimi (Italian Politics, Italian Tech, One Podcast, Green & Blue, Quirinal Game, Vatican Insider, ecc), ma comunque anche presenti altrove (anche Le Figaro usa Best Of per esempio, e Süddeutsche Zeitung Say no more e Going to Ibiza).
Stiamo invece parlando di interi pezzi lessicali (il concetto di «lexical chunks» coniato dal linguista Michel Lewis) continuamente visibili, trapiantati in frasi che diventano assolutamente incomprensibili per il lettore che non conosce l’inglese o non lo conosce a un livello avanzato. Si pensi a commuting fashion, heels dance, co-washing, on the go, Safer Internet Day, on demand, novel food, trail running, contact tracing, blue economy, tweet bombing, make-care, zoom fatigue e tanti altri. Persino un nativo britannico fatica spesso a interpetarli, fuori contesto. Siamo oltre le pure sostituzioni lessicali, siamo a interi concetti espressi in inglese, comportamento che non si riscontra – forse con qualche eccezione sporadica nel Süddeutsche Zeitung – negli altri quotidiani europei.
Si dà per scontato che il lettore le conosca. Pessima abitudine, perché troppo spesso non è così.



6. Il World Cancer Day non viene tradotto da La Stampa, al contrario dei corrispettivi europei, che lo traducono nella loro lingua, ma questo non ci sorprende perché da qualche anno qualsiasi evento – non importa se esclusivamente italiano o no – viene riportato in Italia in inglese. Per cui quando La Stampa parla di Election Day, Safer Internet Day, World Cancer Day o Fashion Week si trova perfettamente in sintonia con le dozzine di Bra Cheese Festival, Provincia Day, Coming Out Day, Bi-visibility Day, Family Day, No Paura Day, Student Achievement Award, o Italian Teacher Award.


7. Confermando che la malattia linguistica italiana sia giunta a un livello molto più profondo della mera sostituzione, registriamo la peculiarità de La Stampa nell’utilizzare anglicismi con una noncuranza che sarebbe logica soltanto se l’Italia fosse una ex-colonia anglofona. Qualcuno potrebbe sospettare che il redattore o giornalista in questione stia effettuando un esercizio di puro narcisismo linguistico. Si pensi ai vari rock and troll, top & flop, Gedi watch, Covid watch, total body, legal drama, control tower, cancer plan e altri. Non sembra esserci alcuna considerazione per le decine di milioni di lettori italiani che non hanno studiato l’inglese o non lo conoscono a un livello adeguato.

8. Si noti l’effetto morfologico e/o su sintagmi dove fur-free e covid-free sostituiscono sistematicamente «senza» o «privo di». C’è transgender, e c’è genderless, che viene impiegato in puro itanglese come un sostantivo mentre in inglese (in verità detto più accuratamente sarebbe gender neutral), dovrebbe fungere da aggettivo precedendo, per esempio, theory o politics.
I quotidiani italiani sembrano essere anche gli unici a giocare con sintagmi ibridi. Si pensi a Mattarella bus, miti beauty (però poi beauty routine), net zero 2050, team volley (però poi Italia Team), sintomo del fatto che, mentre francese, spagnolo e tedesco non sembrino (ancora?) intaccati dall’inglese oltre le semplici sostituzioni lessicali, l’italiano mostra sintomi molto più profondi, con i costituenti dei sintagmi che spesso appaiono e scompaiono a piacere barcamenandosi tra l’italiano e l’inglese.

9. Come il Guardian nella prima parte dello studio, anche il Times è il quotidiano che registra meno forestierismi puri, ovvero i prestiti «non adattati». Questa volta però, anche il quotidiano spagnolo di riferimento, El País, ha registrato pochissimi anglicismi. Interessante notare che sia El País, sia Le Figaro, proprio durante il periodo del nostro studio, abbiano rispettivamente pubblicato articoli sul fenomeno degli anglicismi nella propria lingua. Ancora una volta resta il sospetto che, in entrambi i Paesi, il livello di presa di coscienza dell’ecologia e tutela della propria lingua sia anni luce dallo sbandamento linguistico dell’Italia secolo XXI.

10. La stragrande maggioranza degli anglicismi usati da Le Figaro e, specialmente, Süddeutsche Zeitung resta confinata a titoli fissi di rubriche (live, weekend, magazine, Best Of, Going to Ibiza, newsletter, Homeoffice, Say no More) che vengono riciclati continuamente. È relativamente raro trovare intere storie o notizie imperniate su un anglicismo, o addirittura una intera locuzione in (pseudo)inglese, al contrario dei quotidiani italiani.


Il Decalogo dell’Angloinvasato*

Circola in questi giorni sulle reti sociali una raccolta di luoghi comuni, pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera a firma del linguista Giuseppe Antonelli. Si chiama «Decalogo dei pregiudizi / Decalogo alternativo» ed è la definizione perfetta dell’argomento fantoccio o fallacia dell’uomo di paglia. In altre parole, si prende l’argomento opposto, lo si esagera, lo si distorce, e se ne fa una caricatura grossolana con il fine di compensare la propria mancanza di argomenti. Io moderno, tu autarchico. Io cosmopolita, tu bigotto. Io flessibile, tu rigido. Io plurilingue, tu nostalgicopurista. È facilissimo. Non a caso, va molto di moda nei tempi «binari» in cui viviamo.

IMMAGINE: Decalogo pubblicato su La Lettura (Corriere della Sera), pagina 11, 06/02/2022.

Però se è per questo, una caricatura la possiamo fare anche noi. È semplice, è divertente, ed offre anche uno spaccato realistico del cervello itanglese dell’anno 2022 (che ora si dice Venti Ventidue, non che gli attenti ghenolinguisti de «l’italiano è intaccato solo a livello lessicale» lo abbiano notano). E dunque eccolo, il DECALOGO DELL’ANGLOINVASATO:


Una volta esplorata la forma mentis dell’angloinvasato italiano del secolo XXI, diamo dunque uno sguardo ai fantomatici dieci punti del linguista Giuseppe Antonelli.

1. «NON AVRAI ALTRA LINGUA AL DI FUORI DELLA TUA».
Una caricatura, ovviamente, di un infantilismo spaventoso, che non significa nulla e che viene convenientemente giustapposta a «più lingue sono meglio di una» per supporre che chi considera la lingua italiana un bene culturale sia un cavernicolo autarchico con deliri suprematisti. Chiaro che più lingue sono meglio di una. Parlarle apre la mente, apre finestre verso altre culture, offre altre prospettive, è divertente, è utile a livello professionale.
Peccato che questo non c’entri nulla con lo tsunami anglicus (cit. Tullio de Mauro) attuale, e che eluda brillantemente il tema del fenomeno tutto italiano della somma zero, ovvero l’incapacità degli italiani del secolo XXI di fomentare conoscenze di altre lingue senza autodistrurre la propria o indulgere in miscugli comici nello stile di Salvatore il Gobbo del «Nome della Rosa» di Umberto Eco.


FOTO: Salvatore il Gobbo nel film «Il Nome della Rosa», tratto dal libro omonimo di Umberto Eco.

2. «LA TUA LINGUA È MIGLIORE DELLE ALTRE».
E la mia macchina è più veloce della tua e io sono più alto di te.
Davvero deve essere questo il livello?

3. «LA LINGUA DI OGGI È PEGGIORE DI QUELLA DEL PASSATO».
Magari possiamo dire «worse«, usando anglocosmesi in puro stile itanglese per illuderci che non sia così?
Non è che la lingua sia peggiore. È che sta scomparendo. C’è sempre meno italiano nei concetti.
Come altro descrivere la crescente incapacità dell’italiano di descrivere fenomeni attuali senza ricorrere costantemente ad un’altra lingua o – in alcuni casi – a una pseudolingua? La difesa secondo cui «tutte le lingue sono alla deriva» ovviamente non scende nei dettagli, nonostante siano di una chiarezza disarmante.
Facciamo l’esempio dello spagnolo- una tra dozzine di lingue – che riesce ad aggiornarsi e, al contrario dell’italiano, descrive la pandemia con le proprie parole. Abbiamo confinamiento invece di lockdown, cuidador/a invece di car[e]giver, rastreo [de contactos] per contact tracing, Certificado Covid per Green Pass, autocovid invece di drive-in covid, centro invece di hub, foco invece di cluster, distancia de seguridad invece del farlocco droplet, teletrabajo invece del pseudoanglismo smart working, antivacunas invece del «pidginesco» no-vax, covid largo invece di long covid, refuerzo invece di booster, ecc. Come si può negare che la salute dell’italiano si stia deteriorando? Gli esempi sono centinaia di parole in declino, in Italia, senza alcun motivo. Motivo che invece esisterebbe se questo fenomeno avvenisse in modo più o meno uniforme tra tutte le grandi lingue europee. Perché gli spagnoli riescono a dire diapositiva anche per l’aggeggio digitale, mentre gli italiani hanno accantonato la propria parola per eccitarsi con slide? Perché tutti i fenomeni moderni, dalla teoria genderless al net zero, dai social ai reality e dall’upcycling all’ecommerce, gli italiani non riescono a esprimerli nella loro lingua come facevano quasi sempre prima?
Poi ci sono i fenomeni non moderni, che purtroppo esistono da tempo. Catcalling, stalking, revenge porn, bodyshaming, mobbing e tanti altri. Che sia inglese vero o presunto, l’italiano è sempre più assente.


IMMAGINE: Campagna promozionale del Ministero della Cultura d’Italia, 2022.

4. «OGNI INNOVAZIONE DELLA LINGUA È CORRUZIONE e IMMUTABILI SONO SOLO LE LINGUE MORTE».
Appunto. L’italiano ha smesso di innovarsi. Una lingua che si comporta sempre di più come nell’immagine qui sotto non si sta innovando, sta morendo.
Al netto di un numero fisiologico di prestiti, che esistono in tutte le lingue, una lingua si evolve quando è viva, adatta, crea, è dinamica, conia neologismi. Il 54% dei neologismi aggiunti all’italiano dal 2000 in poi sono (pseudo)anglicismi. Significa che per qualsiasi concetto nuovo, in qualsiasi ambito (non solo le innovazioni informatiche e tecnologiche) il riflesso compulsivo è ormai quello di scimmiottare, come scrive Claudio Marazzina, dall’inglese. Questa, per definizione, è una lingua immutabile e immutante. Il mondo va avanti e l’italiano è rimasto fermo al 1999.

5. «ONORA LA GRAMMATICA CHE TI HA INSEGNATO LA SCUOLA/ I MODELLI LINGUISTICI DEL PASSATO NON POSSONO DETTARE LA NORMA DEL PRESENTE»
Questa considerazione manicheistica non fa parte dell’ambito di questa Campagna. Però, di sfuggita, se è questa il criterio, non si fa prima ad abolirla, la grammatica? Anzi, dato che ci siamo, abogliamo la squola e purliamo tuttu the way ke wantiamo? Sicuramente il Professor Antonelli non voleva dire questo. Antipatiche le caricature, vero?

6. «DIFFIDA DI OGNI USO LINGUISTICO SPONTANEO»
Argomento uomo di paglia strafatto di steroidi anabolizzanti che neanche Ben Johnson alle Olimpiadi di Seul nel 1988.

7. «RICORDATI DI SANTIFICARE LE REGOLE»
Come 5 e 6 qui sopra.
Dato che ci siamo, avete notato – in perfetta linea con i tempi egomaniacali e del narcisismo nauseante in cui viviamo – che gli autori del caro decalogo non hanno neanche considerato per un secondo il rispetto per l’interlocutore? Tutto è basato sull’io. Il me. Io parlo e scrivo come voglio, e se l’interlocutore non capisce, per motivi anagrafici («boomer!«, però «abbasso lɜ discriminazionɜ!«), economici, accademici, o quello che sia, sono cazzi suoi.


IMMAGINE: Frascati, UK
Italia.

8. «NON PRATICARE NEOLOGISMI IMPURI/ CI SONO PAROLE CHE NASCONO E PAROLE CHE INVECCHIANO».
Certamente. Succede in tutte le lingue. In italiano però le parole che invecchiano, per la prima volta, vengono sistematicamente sostituite da termini (pseudo)inglesi. Gli esempi sono migliaia. Basta farsi un giro per i negozi, guardare la televisione, leggere giornali e riviste, andare alle Poste. Succede con le leggi (Jobs Act invece di riforma del lavoro o Legge [Nome del Proponente]), con le procedure parlamentari (question time invece di interrogazioni parlamentari), con i corsi universitari (Business School per Economia & Commercio), con le professioni (badante e caregiver, fattorino/garzone e rider, capotreno «killerato» – vedete che moderni che siamo- da train manager, ecc), con le Poste Italiane (spedizioni cannibalizzato da delivery, resi dall’inglese farlocco reverse paperless). Succede con i reparti ospedalieri (breast unit, stroke unit, day hospital, day surgery, skin cancer unit, ecc). Succede con la squadra olimpica che diventa il frankenstein sintattico di Italia Team. Succede con dichiararsi, sepolto da coming out. Succede che genere diventa sempre più gender. Succede con ambientalista, ecologico, verde, coperti da una lenzuolata di green che neanche le lucertole. Inizia ad avere effetti su morfologia e sintagmi, dall’incapacità di coniare un evento che non sia XYZ Day, XYZ Week, XYZ Award (in Italia) alla compulsione di attacare il suffisso -free ai sostantivi (plastic-free, covid-free, meat-free, ecc), al must-have in tutte le salse. Nelle proporzioni attuali, qualcosa del genere si è visto solamente nelle ex colonie britanniche.
Per farla breve, vediamo se l’angloinvasato capisce: il problema non sono i prestiti, non sono i neologismi, non sono gli adattamenti: il problema è non saper distinguere uno tsunami da una normale e salutare pioggerella.

9. «NON DESIDERARE PAROLE D’ALTRE LINGUE»
L’argomento fantoccio di nuovo. C’è desiderare parole d’altre lingue, e c’è questo:


10. «IL PURISMO FA MALE ALLA LINGUA»
Di quale «purismo» parliamo? Che significa «purismo»? Rabbrividire di fronte alle centinaia di anglicismi inutili presenti quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani? Aspettarsi che una legge del parlamento italiano sia espressa in lingua italiana è forse «purismo»?
Si potrebbe «ribaltare la tortilla«, come dicono gli spagnoli e parlare di una ossessione anglofila – quella sì – ai limiti del purismo, dato che in qualsiasi contesto, pubblico, privato, accademico, pubblicitario, mediatico, sportivo, medico, la scelta (pseudo)inglese prevale sistematicamente sull’italiano. Questo purismo anglofilo, questa ossessione con il voler apparire a tutti costi internescional, anche quando non ce n’è bisogno, fa male. Fa male alle lingue, plurale. Non offre alcun vantaggio. Lasciamo perdere la confusione e cattiva comprensione (sia per gli italiani che per i non italiani), la mancanza di trasparenza o il poco rispetto sia l’italiano che l’inglese, questa pseudolingua sta causando un crescente impoverimento lessicale e un avvizzimento dell’italiano. Un semplice sguardo alla pigrizia linguistica dei mezzi di comunicazione italiani odierni – da cui viene diffusa la stragrande maggioranza di questi (pseudo)anglicismi – dovrebbe essere sufficiente per aiutare un attento linguista a trarre conclusioni logiche, invece di giocare a fare il contemporaneo cool.
Ed infatti, muniti di cifre dure e pure basate sulla nostra analisi comparativa degli anglicismi sui maggiori quotidiani europei (guardate i risultati della settimana 7), concludiamo con la solita domanda:
Perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo molto di meno a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, e in quantità sempre maggiore?

Ci sarà mai un linguista che riuscirà a rispondere a questa domanda senza travisare?

IMMAGINE: «La lingua la fanno i parlanti»: il sito dell’INPS.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.

Anglicismi a manetta

Molti dei sopravvissuti alla tragedia del Titanic raccontavano che, mentre la nave si stava chiaramente inclinando e i segni dell’affondamento erano chiari a (quasi) tutti, c’era chi continuava a dire che non vi fosse bisogno di catastrofismi e che la situazione si sarebbe rimessa a posto.

C’è chi dice che il fenomeno dello tsunami anglicus (per citare il termine coniato da Tullio De Mauro e usato in un suo articolo del 2016) sia passeggero, perché «per vecchia esperienza […] moltissimi vocaboli sono transitori e scompaiono nell’arco di pochi mesi».

Eppure questo sentimento di ottimismo nello stile di Candide di Voltaire, o se preferite – chissà è più consono – alla SpongeBob (in spagnolo lo traducono Bob Esponja) non ha alcuna base logica o scientifica. Però nessuna. Da un lato «la vecchia esperienza», dall’altro – per fare un esempio tra tantissimi – i risultati spietati dell’analisi dei neologismi italiani registrati dal 2000 ad oggi (vedi il grafico qui sotto, fonte e dettagli sull’ottimo sito italofonia.info).


Guardiamo i fatti. Settimana dopo settimana, la nostra analisi degli anglicismi sulle edizioni digitali di quattro quotidiani europei (e forestierismi su un quotidiano britannico), tutti di prestigiosa storia, ampia tiratura e diffusione nazionale, continua a dare lo stesso risultato: gli (pseudo)anglicismi sul quotidiano italiano di nostra referenza sono di gran lunga, però di gran lunga, superiori in numero ai loro corrispettivi europei.

I dati della settimana 6 (leggi qui i dettagli) ci dicono, ancora una volta, che La Stampa ne contiene abbondantemente più del doppio di tutti gli altri (El País, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung e The Times) messi insieme. Lo stesso successe nel periodo Novembre-Dicembre quando furono la Repubblica, El Mundo, Le Monde, Welt e The Guardian i nostri metri di giudizio (vedi qui i risultati).

Ricordatevi che stiamo parlando di anglicismi puri, perché se contassimo le ibridazioni (stoppare, bannare) e gli anglicismi senza corrispettivi diretti o pratici (bar, podcast, punk, rugby, blog, tennis, internet), i risultati sarebbero ancora più spettacolari.

Ma c’è di più, al contrario di quello che direbbe qualche struzzo, sono nella stragrande maggioranza anglicismi ormai completamente radicati – e dunque ricorrenti – nella società italiana. Non solo molti vengono usati regolarmente, ma sono preferiti all’equivalente italiano (vedasi Green Pass vs Certificato Verde, newsletter vs bollettino, light vs leggero, weekend vs fine settimana, hybrid vs ibrido, ecc.). E non dovrebbe sorprendere, dato il bombardamento quotidiano non solo di giornali e riviste, ma anche di televisione, pubblicità, agenzie interinali, luoghi di lavoro, conferenze, università, eventi sportivi e tutto il resto. Persino dinnanzi alla pandemia, come ben sappiamo, gli italiani hanno reagito con una bella dose di (pseudo)anglicismi.

Per farvi un esempio BREVE ed INCOMPLETO, in questo mese di Gennaio 2022 la Stampa ci ha regalato termini come No Green Pass, Super Green Pass, fake news, show, hub, lady, stalker, Premier, No Vax, hashtag, lockdown, newsletter, top model, over (inserite età), light, flop, supermodel, spot, smart working, online, look, eyeliner, beauty, green, horror, tech, privacy, partner, skipass, sketch, zoom, nightclub, export, green jobs, baby gang, next generation, low cost, restyling, sponsor, style, sneakers, exit strategy, pressing, weekend e il nuovo prezzemolino-ogni-minestra, come diceva mia madre, kingmaker (riferendosi al prezzemolino, non a kingmaker).

Già sappiamo che il tema degli anglicismi in italiano provoca reazioni ai limiti del paranormale in chi minimizza (cioè difende) il fenomeno. Sono capaci di vomitare qualsiasi idiozia pur di dire che non è vero. Eppure nessuno può, in tutta onestà, dire che i termini appena descritti non formino ormai regolarmente parte della società italiana, in tutti gli ambiti.

L’aggravante è che, in linea con quello che si vede nei negozi, nelle pubblicità, sui luoghi di lavoro, nelle università, sono parole ed espressioni chiave, su cui si basa un intero concetto, articolo o storia, confermando l’incapacità sempre più endemica dell’italiano di riuscire a esprimere cose nuove senza ricorrere al riflesso compulsivo degli (pseudo)anglicismi.

C’è chi continua a mettersi le dita nelle orecchie e a scuotere la testa dicendosi che «non dobbiamo tenere conto dei giornalisti di quarta scelta». Un ragionamento assurdo. Dunque se la Repubblica e la Stampa sono giornalisti di quarta scelta, quali sarebbero i giornalisti di terza, seconda e prima scelta? E se fossero anche tutti davvero «giornalisti di quarta scelta», non rispecchierebbe forse il degrado linguistico e culturale raggiunto oggigiorno in Italia, oppure parliamo di extraterrestri che vivono su un altro pianeta? E se quelli italiani sono «di quarta scelta», quelli di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito che sono, tutti miracolosamente dei fuoriclasse linguistici?

Il punto è: perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo solo sporadicamente (con alcune variazioni, certamente) a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, a valanga, a iosa e in quantità sempre maggiore? Il lettore angloeccitato sarà ovviamente libero di aggrapparsi a qualsiasi baggianata per negare l’evidenza, ma a questa domanda bisogna rispondere se si è convinti che la lingua italiana non sia oggi letteralmente piagata e fortemente indebolita dal fenomeno dell’itanglese.


IMMAGINE: Raccolta *incompleta* di (pseudo)anglicismi su La Stampa, 17/01/2022.

In realtà, non solo il fenomeno è sempre più ben radicato, ma è in continua espansione. Sempre di più vediamo giochi di parole e persino titoli di rubriche completamente in inglese. Qualcuno ricorda le precedenti elezioni del Presidente della Repubblica Italiana in cui i vari quotidiani ricorrevano a pagliacciate pseudoinglesi quali Quirinal Game (la Stampa) e Quirinal Party (il Giornale)?

Ci sono intere espressioni trapiantate al 100% direttamente dalle agenzie o dai giornali anglosassoni, senza alcun riguardo per i milioni di potenziali lettori che non le conoscono e non le capiscono (vedi l’immagine con la raccolta delle gemme su La Stampa, 17/01/22). Spesso il risultato è un cortocircuito linguistico, specialmente quando tali frasi o espressioni si trovano in contrasto con le regole sintattiche dell’italiano (vedi immagine qui sotto).



E poi ci sono le ibridazioni a macchia d’olio. La regola pidgin del No+ qualsiasi cosa è ormai dilagante (addirittura «No Vax? No sci», nello stile di «Io Tarzan, tu Jane», su La Stampa). Green, per esempio, è in tutte le salse. Da solo, oppure accoppiato con blue, energy, jobs, e tutto il resto. Lo stesso dicasi per beauty, pet, look, baby e centinaia di altri. «Sportivo» diventa sempre di più sporty, uno dei tanti esempi di come le regole morfologiche dell’inglese si stiano diffondendo nella lingua italiana.

Chi si affretta ad afferrare il paraocchi più vicino dicendo che «cento anni fa arrivarono anche tanti francesismi» sa bene che, a parte il paragone numerico imbarazzante, i francesismi si limitavano alla sostituzione di singoli vocaboli, e molto raramente intaccavano morfologia e composti di vario genere.

Di fronte a questo degrado culturale e linguistico (le due cose vanno insieme), cosa resterà della lingua italiana tra vent’anni?

NON succede in tutte le lingue

Durante gli scorsi due mesi abbiamo effettuato un’analisi comparativa degli anglicismi puri presenti sulle prime pagine digitali di quattro quotidiani europei di simile tiratura e stile, più un quotidiano britannico per rilevarne eventuali forestierismi e italianismi puri.

La Parte 1 della nostra analisi ha fornito risultati allucinanti, onestamente molto peggiori delle nostre aspettative più pessimiste (vedi qui e anche qui per conoscere i dettagli). Il referente italiano si è rivelato così intriso di anglicismi da totalizzarne abbondantemento più del doppio dei suoi omologhi francesi, spagnoli e tedeschi messi insieme.

Per questa ragione, per la Parte 2 della nostra analisi, abbiamo cambiato i quotidiani sperando di registrare qualcosa di diverso. Questa volta ci siamo affidati a La Stampa (Italia), Le Figaro (Francia), El País (Spagna) e Süddeutsche Zeitung (Germania), affiancati da The Times (Regno Unito).

Di diverso abbiamo notato che: 1) al contrario dell’anglofilo El Mundo, El País (della cui grafica siamo innamorati) segue chiaramente una linea editoriale fedelissima alla lingua castellana e tende ad utilizzare davvero pochissimi anglicismi; 2) che le parti si invertono tra Le Monde, molto fedele al francese, e Le Figaro, non restio a pubblicare anglicismes; 3) che nonostante il Süddeutsche Zeitung rifletta comunque l’uso copioso di anglicismi nella Germania di oggi, non raggiunge i livelli di Welt; e 4) che l’attenzione speciale che The Times sembri dedicare ai temi irlandesi ha consentito la rilevazione di alcuni termini gaelici.

Per il resto, purtroppo, sul tema che più ci sta a cuore, vediamo che ancora una volta è il quotidiano italiano ad utilizzare infinitamente più anglicismi degli altri. La Stampa ne ha totalizzati 336 in una settimana contro i 276 di tutti gli altri messi insieme (includentdo The Times).

Anche se appena più moderati rispetto agli angloassatanati de la Repubblica, specialmente – per pura coincidenza – durante la giornata del 1 Gennaio, anche La Stampa ne usa a tonnellate, quasi sempre senza motivo, e spesso in maniera ridicola. Spiccano le rubriche – in italiano, sia chiaro – con i titoli da mercante di datteri quali «Quirinal Game«, «Vatican Insider» e «Italian Politics«, nonché la solita processione di empowerment, gender, no vax, revenge porn, fake news che sono diventati i pilastri del creolo linguistico degli ultimi anni. I dettagli si trovano qui.

L’analisi continuerà con cadenza bisettimanale fino a metà Febbraio.

Purtroppo, nel frattempo, i dati che abbiamo rilevato confermano la pochezza disarmante dei tanti, troppi, linguisti italiani di professione, secondo i quali «tutte-le-lingue-fanno-così«, «anche-gli-inglesi-dicono-pergola«, «vabbè-ma-solamente-l’area-lessicale«, «che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film«, «e-che-dobbiamo-fare-come-Mussolini«, e così via. E che, tra una scrollata di spalle e un tweet con la consistenza di una pozzanghera, continuano a liquidare questo fenomeno rapidissimo, gigantesco e di una mole senza precedenti, invece di riconoscerlo, guardarlo in faccia, studiarlo prioritariamente e dibattere cosa meglio si potrebbe fare a livello normativo.
Perché la morte dell’italiano sta avvenendo adesso, davanti a noi, e quando qualcuno si sveglierà – magari con una petizione nel 2050 nello stile di quello che si fa oggi con il gaelico, il basco, il bretone o i panda per salvarli dall’estinzione – sarà probabimente troppo tardi.

Una crescita esponenziale

Nel giro di vent’anni, in alcuni casi anche meno, la frequenza degli anglicismi in Italia è aumentata in maniera impressionante. E c’è gente che lo nega. AUTORE: Peter Doubt*

L’uso di pseudoanglicismi nella lingua italiana sta crescendo esponenzialmente. Questo fatto continua ad essere negato, inspiegabilmente, da un numero considerevole di «amanti della lingua» italiani. Alcuni sono arrivati a dire addirittura che si tratta di un fenomeno passeggero.

Siamo dunque andati ad analizzare alcune parole consultando gli archivi elettronici dei tre quotidiani più venduti del Paese. Eccovi un brevissimo resoconto della tendenza in atto.
Abbiamo iniziato con la parola match, il cui uso è sestuplicato nel giro di trent’anni.

Ancora più interessante è il confronto tra l’ormai onnipresente big match e l’italianissimo, ma sempre più desueto, «partitissima«. Nel periodo 1984-2000 erano quasi alla pari. Con l’arrivo del nuovo millennio la tendenza è diventata chiarissima, con un cambio esponenziale. Nel 2000-2010, big match è apparso oltre il doppio delle volte di «partitissima». Nel 2010-2020, circa sette volte in più. Partitissima ha iniziato una parabola discendente, mentre big match si usa ormai con una frequenza TRENTA volte superiore agli anni 80 e 90. Nel biennio 2020-21, la parola è apparsa su Repubblica quasi quattro volte in più che nei sedici anni tra il 1984 e il 2000.

Ovviamente la tendenza è visibile anche negli altri quotidiani nazionali:

Restando in ambito calcistico, guardate come scorer, spesso accoppiato con top e praticamente sconosciuto in Italia fino al 2000, sia ora il termine preferito per indicare cannoniere.

Non potevamo poi non esaminare smart, dato che in Italia si usa più che nei Paesi anglosassoni. Dal 1984 al 2000, la parola è apparsa 338 volte su la Repubblica, molte dei quali per riferirsi a cognomi, come l’attrice Rebekah Smart, o all’automobile Smart. Dal 2000 al 2010 la frequenza è quasi decuplicata (3074 volte) per poi di nuovo quadruplicarsi (13675 risultati) tra il 2010 e il 2020. Solamente nell’ultimo biennio (2020-22) è già apparsa 7635 volte. Ormai c’è di tutto: smart city, smart building, smart living, smart washing, location smart, smart retail, sportello smart, smart factory, smart speaker, i cassonetti smart (!), le case smart e molti altri, addirittura la Genova Smart Week. C’è da scommettere che di questo passo tra poco persino la carta igienica smart sarà disponibile.

Passiamo all’ambito parlamentare, dove appare uno degli esempi più chiari di distruzione linguistica decretata dall’alto. L’utilizzo di Interrogazioni parlamentari è letteralmente crollato dal 2010 in poi, spinto fuori a gomitate dall’anglicismo dal contesto sbilenco conosciuto come question time.

Poi ci sono fattorino e garzone, entrambi ormai disintegrati da rider. Tra il 1984 e il 2010 i risultati degli archivi di Repubblica per rider si riferiscono quasi esclusivamente ad altri ambiti, specialmente il vecchio navigatore Tom Tom Rider, il film Easy Rider e il nome – scritto male – del videogioco Tomb Raider (appunto, non Tomb Rider come scriveva la Repubblica negli anni 90 e 2000). Il vero paragone inizia a partire dall’anno 2010. Da quella data in poi, rider emerge e fa piazza pulita. È ormai utilizzato il triplo di fattorino e garzone (quest’ultimo particolarmente moribondo) messi insieme.


Trasferiamoci in un altro ambito. Le compere, che ormai si chiamano shopping. Guardate questo:

Si noti come l’espressione «fare shopping» abbia completamente annichilito, negli ultimi 20 anni, gli equivalenti italiani «fare le compere» e «fare le spese» che infatti, a partire dal 2010 hanno iniziato un lieve declino. E dove lo fanno questo shopping, gli italiani? Nei negozi, certo, e nei centri commerciali, ma mentre botteghe, esercizi e grandi magazzini sono in stasi o in caduta libera, trionfano sempre di più store, outlet e mall, moltiplicatisi di quattro o cinque volte solamente rispetto al periodo 2000-2010.

E mentre vanno a fare shopping nei mall, magari utilizzando i gift voucher e facendosi aiutare dagli shop assistant, gli italiani comprano sempre più le brand. Osservate come, sebbene in buona salute, al contrario dei suoi sinonimi griffa o firma, la parola marca sia stata addirittura sorpassata da brand durante il decennio 2010-2020. In Italia, brand si usa ormai oltre 140 volte di più che nel periodo 1984-2000.

Tra il 1984 e il 2000 fine settimana e weekend si usavano praticamente alla pari. Dal nuovo millennio in poi, l’espressione anglo ha preso il volo e ora si usa il doppio che il vecchio fine settimana.

Ancora più deprimenti sono le centinaia di esempi in ambito accademico. Quello che vi mostriamo è il moribondo Economia e Commercio. Si usa ormai la metà che nel decennio 2000-2010 e il suo declino appare inesorabile, ovviamente a favore del sempre più trendy e cool Business School, e scusate la rima.

La direzione è identica se guardiamo ovazione, che rallenta sempre di più a vantaggio del nuovo arrivato standing oveiscion, che aumenta esponenzialmente e che si utilizza ormai il doppio dell’equivalente italiano.

Altra parola di cui gli italiani sembrano essersi innamorati è location, che in Italia si pronuncia locheiscion e che in inglese ha un significato molto circoscritto. In Italia, invece, tutto è una locheiscion. Guardate le cifre. Usato ormai 150 volte in più rispetto agli anni 80 e 90 e ormai tre volte in più rispetto al suo equivalente nella lingua sfigata.


E concludiamo con botteghino, che fino al 2000 si usava ancora il triplo dell’anglismo box office, mentre oggi appare in netta ritirata.

Insomma, per citare il conduttore di RaiNews Lorenzo Di Las Plassas, uno dei pochissimi giornalisti ad aver colto la magnitudine del problema, «non si è sviluppata la sensibilità per la quale se un anglicismo entra dalla porta, è una parola italiana a uscire dalla finestra. Non sono parole che si aggiungono, sono parole che si sostituiscono«.

Nel nostro prossimo articolo analizzeremo più approfonditamente la lista sempre più lunga di parole italiane in fila sul viale del tramonto.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete e vive in Spagna da quasi 15 anni.

La Repubblica dell’itanglese

Solamente un povero di spirito potrebbe dire che quello in atto sia «uno scambio linguistico»: ecco i risultati del primo mese completo della nostra analisi comparativa.


Siamo giunti alla fine delle prime quattro settimane della nostra analisi comparativa tra anglicismi e pseudoanglicismi sulle prime pagine delle edizioni digitali di quattro quotidiani europei (La Repubblica, Le Monde, El Mundo e Welt) e forestierismi sul Guardian britannico (vedi qui). I risultati sono stati molto peggiori delle aspettative più pessimiste. Il totale cumulativo, durante quattro settimane, e senza contare determinate ripetizioni e anglicismi completamente acquisiti quali bar, podcast e sport, è il seguente:

La Repubblica = 2528
Welt = 1122
El Mundo = 393
Le Monde = 191
The Guardian = 25 (di cui 7 italianismi)


Se non avessimo notato il numero sorprendente di linguisti, sociolinguisti, terminologi e filologi italiani colpiti da diniego cronico e dissonanza cognitiva grave, diremmo che non ci sarebbe bisogno di ulteriori commenti. Del resto basta farsi una passeggiata in Italia. Basta guardare la televisione, le pubblicità, o le news. O visitare un’ agenzia interinale. O magari, andare all’università, al mall, o al waterfront della tua città; spedire qualcosa con il delivery express di Poste italiane; farsi dare il buongiorno dal train manager su Trenitalia; guardare gli highlights di un match di calcio; leggere un articolo sul body shaming delle influencer che fa tanto cringe; prenotare l’hairstylist; partecipare a un talk sulle prospettive del recovery dopo il lockdown; parlare degli abs con il personal trainer, ecc.

E invece non basta. Per cui, ricordiamo che gli anglicismi e pseudoanglicismi di Repubblica riguardano tutti gli ambiti, nessuno escluso. Notiamo che sempre di più si intravedono unità linguistiche che vanno oltre le singole parole in inglese (vedi il paragrafo successivo). Osserviamo che molti termini in italiano, che si tratti di parole singole o di interi concetti, appaiono sempre più in disuso, per esempio verde, modulo, garzone, tecnologia, approfondimento, montaggio, ovazione o applausi a scena aperta, commerciante, il Premio tale, la Settimana di [evento], o la Giornata di [evento]. Rileviamo che i quotidiani italiani non sono gli unici in Europa, ma che sguazzano in (pseudo)anglicismi in maniera esponenzialmente superiore agli altri Paesi. Se consideriamo il computo globale durante le quattro settimane, la Repubblica ne totalizza quasi il doppio di tutti gli altri messi insieme, più del doppio dei loro colleghi tedeschi di Welt (che stanno comunque messi male, ne parleremo in dettaglio tra qualche giorno), 6.5 volte in più degli spagnoli de El Mundo, e oltre 13 volte in più di Le Monde in Francia.

Per la quarta settimana consecutiva, La Repubblica vince e lo fa alla grande, totalizzando 597 tra parole, frasi e termini che farebbero invidia a qualsiasi colonia o ex-colonia di Elisabetta Windsor (i quali, in verità, nel caso dei numerosi pseudoanglicismi, si farebbero delle grosse risate). E dunque vai con l’onanismo delle valanghe di no-vax, super green pass, cluster, hub, boom, pressing, body positivity, Italian Tech, longform, Italian Teacher Award, beauty, boom, millennial, contest, plug-in hybrid, delivery, newsletter, smart working, green&blue, make-up artist, hairstyle, coffee table book, retailer, form, rating, recovery, green dreams, startupper, Merry Christmas, family office, covid watch, hi tech, Europe talks, form, 15 minute city, legally blog, last second, low cost e chi più ne ha più ne metta. In tutti i settori, per buona pace della precisissima terminologa Corbolante.


C’è poi da parlare del confronto con i forestierimi e italianismi presenti su The Guardian. Quando certi linguisti dormiglioni liquidano il fenomeno della crescita esponenziale di termini inglesi e pseudoinglesi con frasi precotte nello stile di «e allora gli inglesi che devono dire con tutte le parole italiane che hanno«, viene da domandarsi cosa passa per la mente di certe persone. Magari la settimana di vacanza a Londra fissandosi selettivamente sulle parole in italiano nei ristoranti e bar di Soho, o memorie di qualche CD di musica classica o lirica con parole come adagio, orchestra, piano concerto, lento e l’istesso tempo. Dunque, il cervello provinciale ne evince che il mondo anglosassone in generale è permeato di lingua italiana.
Poi ci sono quelli che, sebbene assolutamente non colpevoli di ignoranza, si consolano con il fatto che gli italianismi del vocabolario inglese sono «Non solo maccheroni, mafia e mamma mia!«, che 500, 600 o 700 anni fa l’Inghilterra importava italianismi e che, ergo, la valanga di pseudoanglismi odierni fa parte di una bilancia culturalmente e linguisticamente positiva e salutare. Che sarebbe come se la popolazione irachena, devastata in tutti i sensi dai recenti anni di guerra e bombardamenti, si consolasse oggi dandosi pacche sulla spalla perché «sai, una volta la Mesopotamia era il cuore pulsante del pianeta».

È impossibile negare che un quotidiano di grande tiratura rispecchia – e dunque anche linguisticamente – le dinamiche sociali, economiche, politiche, e culturali di un Paese, le mode e le tendenze, i costumi e le preoccupazioni, le ossessioni e le antipatie. Magari, dipendendo dagli orientamenti editoriali, questi fattori possono essere aggravati o ridotti. Eppure se – in un mese – la prima pagina del Guardian ha totalizzato 7 italianismi (mafia, camorra, ricotta, radicchio, diva più la parola sanità utilizzata due volte) contro i 2528 anglicismi de la Repubblica (cioè lo 0,27%), allora è sufficientemente chiaro quanto sia nulla oggi l’influenza della lingua italiana in Gran Bretagna, mentre in Italia l’inglese ha ormai raggiunto livelli di penetrazione totale del tessuto culturale. Poi, d’accordo che uno si vergogni ad ammetterlo, però solamente un povero di spirito potrebbe dire che quello in atto sia un salutare «scambio linguistico», «che la globalizzazione» e «che anche gli inglesi dicono tiramisù e pepperoni con la doppia ‘p‘».

E se a qualcuno venisse in mente di dire che «non è vero che le persone parlano come i giornali», quel qualcuno dovrebbe però spiegare perché quelli italiani debbano farlo con 2528 anglicismi in un mese, mentre quelli spagnoli riescono a funzionare con una frazione degli stessi. E comunque sarebbe davvero di un’assurdità inaudita pensare che la correlazione tra linguaggio usato fuori dalle redazioni e linguaggio dei giornali sia inesistente e, in particolare, che lo sia esclusivamente nel caso dell’Italia.

E se invece qualcun’altro dicesse che la nostra analisi rifletta il fatto che gli anglicismi siano un fenomeno inevitabile dovuto alle nuove tecnologie e invenzioni di provenienza a stelle e strisce, di nuovo, perché non lo è nella stessa misura nei quotidiani tedeschi, francesi e spagnoli?

E se magari, finiti gli alibi, ci si voglia illudere che la colpa sia solo degli angloinvasati de la Repubblica e che, per pura coincidenza, Le Monde, Welt, El Mundo, e The Guardian siano testate poco (o molto meno) inclini a usare forestierismi, non c’è di che preoccuparsi: la fase due del nostro studio, durante le prossime settimane, sarà centrata su La Stampa, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung, El País e The Times.

L’ultima considerazione è la seguente: se cifre del genere fossero state osservate in qualsiasi altro campo, dalla produzione delle mozzarelle al prosecco, dai risultati della nazionale di calcio ai numeri di turisti in Italia, o lo stato dei beni culturali, ne sentiremmo parlare ogni giorno. Invece la lingua italiana, in Italia, resta una nota marginale.