Saggio di Giulio Mainardi*
1. PREMESSE
Per indicare la pronuncia, quest’articolo fa uso dell’alfabeto fonetico internazionale (AFI), con alcune peculiarità; la legenda è riportata in fondo.
Nel considerare e indicare la pronuncia dei forestierismi, la consideriamo e riportiamo sempre com’è nell’uso italiano, secondo i fonemi italiani (es. computer = /kompju̍ter/).
Quest’articolo trae parte dei suoi concetti, rielaborandoli autonomamente, da discussioni svoltesi nel fòro virtuale Cruscate. Ai tanti che hanno contribuito allo scambio d’idee, e in particolare a Paolo Matteucci («Infarinato») per la sua cultura e disponibilità, va il mio ringraziamento. Segnalo qualche filone particolarmente significativo nella Bibliografia in basso.
Un ringraziamento, naturalmente, va anche alle persone che in vari luoghi hanno discusso con me specificamente della questione di quest’articolo, dandomi informazioni sui diversi punti di vista e offrendomi spunti per le mie argomentazioni.
2. I TERMINI DEL DISCORSO
Nel considerare il numero oggi in grande aumento di parole «non tradizionali» nell’uso italiano, molte persone ritengono che, per la sopravvivenza e continuazione dei caratteri peculiari della lingua italiana com’è stata in questi secoli, il pericolo principale sia costituito dai termini che «non si scrivono come si dicono» (es. online che si pronuncia /onla̍in/), mentre i forestierismi che rispettano le regole tradizionali dell’ortografia italiana, anche se di struttura non italiana (es. sport, con terminazione -rt non italiana), costituirebbero un pericolo minore, o addirittura non costituirebbero un problema. Secondo tali persone questi ultimi termini, soddisfacendo il criterio ortografico, si potrebbero considerare di fatto parole italiane. Questa posizione è comune e si trova anche presso persone sensibili al tema della lingua, che non si possono tacciare di generica esterofilia linguistica.
Il presente articolo vuole discutere brevemente dell’«italianità» di questo secondo gruppo di termini, mettendo in luce alcune debolezze della posizione che li ritiene semplicemente «italiani» così come sono. Nel trattare questo tema, è inevitabile il ricorso a qualche tecnicismo, ma nel complesso lo stile dell’articolo sceglie di semplificare per essere accessibile anche a chi conosce poco questi temi. Per ragioni di brevità e per evitare troppe digressioni, non approfondiremo le molte questioni contigue, anche se sarebbe utile per una trattazione teorica più completa.
A qualche lettore potrà sembrare che i contenuti di questo testo siano delle “ovvietà”; ma l’esperienza insegna che persino le ovvietà possono non essere così ovvie per tutti.
Si osserva che nelle discussioni sul tema sono frequenti i fraintendimenti e le confusioni terminologiche, e nel complesso il discorso può essere chiarito e sintetizzato grandemente definendo i concetti in modo preciso per evitare ambiguità.
Definiamo «graficamente italiane» le parole che si pronunciano come si scrivono (e viceversa) secondo le regole generali dell’italiano. Per esempio: sono parole graficamente italiane carta /ka̍rta/, gioco /ʤɔ̍ko/, fiera /fjɛ̍ra/, e forestierismi come card /ka̍rd/, doping /dɔ̍pinɡ/, smart /zma̍rt/. È «graficamente italiano» blog /blɔ̍ɡ/, mentre non lo è blogger /blɔ̍ɡɡer/ (che lo sarebbe se, a parità di pronuncia, fosse scritto bloggher).
Per abbondare, ammettiamo “al limite” come parte di questo gruppo anche terminazioni con una consonante ripetuta, come stress, staff e app (/strɛ̍s/, /sta̍f/, /a̍p/); escludiamo invece le consonanti doppie all’interno in sequenze ortograficamente non italiane (es. bulldog /buldɔ̍ɡ/, pullman /pu̍lman/).
Per non divagare trascuriamo, ai fini di quest’articolo, il discorso sulle «lettere straniere». Ci limitiamo a fare questa scelta: escludiamo da questo gruppo i termini che si scrivono con k, w, y e j, mentre consideriamo “ortograficamente ammissibile” la x. Sono quindi escluse parole come quark, wok e derby, mentre sono inclusi pixel, excursus e boxer. S’intende che escludiamo la j dove ha valore non italiano: sono naturalmente inclusi termini come Jacopo, naja e juta (anche se, per coerenza col sistema ortografico odierno, oggi sarebbe preferibile scrivere Iacopo, naia e iuta).
Escludiamo le parole (in ogni caso poco numerose) con /ʦ(ʦ)/ rappresentata dal gruppo grafico ts anziché da z(z), come tsunami e tsigano (mentre zigano è ovviamente incluso).
Escludiamo i termini con delle h in posizioni in cui nell’adattamento l’ortografia italiana (altrove) le fa normalmente cadere, come hotel, horror, gihad, hinterland, handicappato.
Definiamo «fonotatticamente italiane» le parole i cui suoni (fonemi) sono disposti in un modo che soddisfa le norme tradizionali delle strutture italiane (parliamo della pronuncia, indipendentemente dalla sua rappresentazione grafica). Il discorso su questo punto è potenzialmente molto ampio e richiederebbe una trattazione dettagliata; nel breve spazio di questo articolo, ci occuperemo solo delle terminazioni (benché, naturalmente, anche le combinazioni di suoni all’inizio o all’interno della parola siano rilevanti). Quali sono le terminazioni fonotatticamente italiane? Parecchie persone ritengono che “in italiano le parole finiscono per vocale (qualsiasi vocale) e non per consonante”. Benché abbia un fondo di verità, così presentata questa è una semplificazione eccessiva, che appare formalmente sbagliata e richiede delle precisazioni. Vediamo la cosa nel dettaglio, prima per le vocali e poi per le consonanti.
Sono italiane tutte le terminazioni vocaliche, ad esclusione di /-u/ (u non accentata, -u) e (in modo più incerto) /-o̍/ (o chiusa accentata, -ó).
Per quanto riguarda la u, ciò è facilmente visibile nel fatto che in italiano non abbiamo parole che finiscano in -u non accentata (la u di tu, pur non portando l’accento grafico, è naturalmente accentata), a parte pochi forestierismi non (completamente) adattati, come guru, haiku, sudoku.
Più incerta ma simile la situazione della -ó. Benché /-o/ non accentata sia una terminazione frequentissima in italiano, non abbiamo invece parole che finiscano con /-o̍/ accentata. La congiunzione o («mare o montagna») e la o vocativa («o patria mia…»), entrambe chiuse, sembrerebbero violare tale regola. In realtà, a causa della loro costante posizione proclitica (che si appoggia cioè, per quanto riguarda l’accento, alla parola seguente) costituiscono una sorta di “blocco unico” con la parola che le segue, per cui non sono mai realmente terminali. Una frase normale, infatti, in italiano non finisce con nessuna di queste due o: troncamenti o sospensioni implicano un completamento, e spezzare una frase dopo di loro non è molto diverso dallo spezzare una parola a metà. Possono sorgere incertezze dall’osservazione di alcuni casi marginali, come certe apocopi popolaresche di alcune varietà regionali dell’italiano, dove si possono avere risultati del tipo signó, dottó. Non costituisce invece un’eccezione significativa l’esclamazione boh /bo̍/, dato che, per loro natura, onomatopee e interiezioni «si collocano sempre ai margini del sistema fonotattico di qualsiasi lingua» (Matteucci).
Naturalmente, anche /-u/ e /-o̍/ sono terminazioni lecite nel caso (intrinsecamente ai “limiti” della lingua) di una parola citata in senso metalinguistico.
Sono poi italiane alcune terminazioni consonantiche, in /-Vm/, /-Vn/, /-Vl/ e /-Vr/ (cioè in m, n, l e r precedute da vocale), a patto che siano rispettate alcune condizioni precise.
Tali uscite consonantiche sono lecite:
- in prosa, all’interno di enunciato (andiam bene, san Francesco, il fiume, gran giorno, un paese, nel campo, signor presidente, ecc.) e non alla fine (È un bel cane ma non *È un cane bel);
- in poesia anche alla fine di un enunciato (urla e biancheggia il mar; scorrea la vista a scernere / prode remote invan).
Esistono poi altre restrizioni (per esempio, si dice uno struzzo, non *un struzzo) ma non cambiano la sostanza di questo discorso: non rendono leciti dei casi in più.
Uscite in altre consonanti non sono consentite: si può dire un bel viso ma non si può dire *un vis bello (nemmeno in poesia) né *un bel vis; si può dire un buon amico ma non *un amic buono né *un buon amic.
Le forme eufoniche ad (ad esempio), ed (ed ecco), od, come gli antichi ched ‘che’, ned ‘né’ e sed ‘se’, non sono veramente eccezioni per la stessa ragione per cui non lo sono le due o viste sopra: anche questi, proclitici, formano praticamente un “blocco unico” colla parola seguente e quindi non sono mai vere terminazioni.
Per le terminazioni consonantiche di onomatopee e interiezioni, vale quanto detto poco sopra; e parimenti, di nuovo, chiaramente qualsiasi terminazione consonantica è “lecita” per termini citati metalinguisticamente.
Per fare qualche esempio, sono parole fonotatticamente italiane /torro̍ne/ torrone e /alambi̍kko/ alambicco, e anche forestierismi graficamente non adattati come /ɡaspa̍ʧo/ gazpacho e /ɔ̍bbi/ hobby. È fonotatticamente italiano /brɛ̍ndi/ brandy mentre non lo è /trɛ̍nd/ trend (finendo in /-nd/, terminazione non italiana).
Definiamo «dell’uso italiano» tutte le parole usate in un contesto (linguisticamente) italiano dagli italofoni, indipendentemente dalle loro strutture. Sono «dell’uso italiano», quindi, anche forestierismi crudi come first lady, équipe, slogan, software.
Definiamo «strutturalmente italiane» le parole conformi alle strutture linguistiche generali della lingua italiana, oltre eventuali corpi estranei non (totalmente) adattati: in pratica, quelle che siano contemporaneamente «graficamente italiane» e «fonotatticamente italiane», secondo le definizioni date sopra.
Possiamo riassumere i gruppi testé descritti tramite un diagramma di Eulero-Venn. Nel grafico qui sotto, come si vede, semplifichiamo considerando solo le parole «reali», esistenti; ma naturalmente si potrebbero immaginare parole ipotetiche che siano fonotatticamente o graficamente italiane senza essere «dell’uso»: parole possibili ma (al momento) inesistenti.
Chiaramente le dimensioni delle aree non sono in scala, non sono cioè rappresentative delle dimensioni degli insiemi: le parole «strutturalmente italiane» costituiscono ancora la maggioranza delle parole «dell’uso italiano».
Usando i formalismi dell’insiemistica, con sigle facilmente comprensibili, possiamo scrivere che Sit. = Fit. ∩ Git., ovvero che il gruppo di ciò che è Strutturalmente italiano è l’intersezione di quelli della Fonotassi e della Grafia. I termini che c’interessano primariamente in quest’articolo sono quelli della “falce di luna” gialla di destra. Per brevità, chiameremo questo gruppo P1 (/pi.u̍no/; con P per parole, genericamente). In simboli, P1 = Git. – Fit..
Definiamo inoltre P2 come il gruppo dei termini italiani fonotatticamente ma non graficamente (la “falce di luna” verde di sinistra; P2 = Fit. – Git.), e P3 come il gruppo dei termini non italiani né fonotatticamente né graficamente (lo spazio bianco fuori dai due cerchi e dentro il bordo rosso; P3 = Uit. – (Fit. ∪ Git.).

3. CENNI STORICI
Alla fine di questa sezione presentiamo un grafico per visualizzare l’epoca d’ingresso dei termini P1 nell’uso italiano. Ogni colonna rappresenta un cinquantennio, a partire dal 1200 fino ad oggi; l’altezza è proporzionale al numero di termini P1 il cui ingresso viene datato dai vocabolari a quel periodo. I termini usati per questa conta non pretendono di essere la totalità, ma sono più di 650 e dovrebbero rappresentare una quantità statisticamente sufficiente per visualizzare l’andamento di massima.
Il grafico presenta inevitabilmente delle approssimazioni. Datare puntualmente l’ingresso di una parola nell’uso non è cosa facile, né in teoria né in pratica. Nei casi in cui i vocabolari davano un intero secolo come data d’ingresso, si è diviso il peso della parola a metà fra i due cinquantennî, dando mezzo punto a ognuna delle due colonne anziché un punto intero a una colonna singola.
Si è dato uguale “peso” a ogni parola, ma è chiaro che alcune, per abbondanza e costanza d’uso, sono più rilevanti di altre: film e standard, per esempio, nel corpo dell’italiano pesano molto di più di termini d’uso raro o settoriale, come alef o diesis. Tuttavia, i termini relativamente meno usati non sono trascurabili, essendo anch’essi il nome attraverso cui identifichiamo e indichiamo certi concetti: l’assenza di termini italiani per designare concetti settoriali è spia di una potenziale debolezza e mancanza di completezza del vocabolario, per cui l’italiano risulta una lingua acconcia al parlare comune, ma si presenta più carente di altre per trattare àmbiti specialistici, e ha bisogno di colmare le proprie lacune con parole altrui.
Nella conta sono inclusi termini la cui pronuncia non si è (ancora?) stabilizzata, e che, nell’oscillazione, fra le varie pronunce usate oggi ne presentano almeno una coerente con la scrittura, secondo le regole dell’italiano. Per fare qualche esempio, sono inclusi: summit (/su̍mmit/, /sa̍mmit/), plus (/plu̍s/, /pla̍s/), gang (/ɡa̍nɡ/, /ɡɛ̍nɡ/), robot (/rɔ̍bot/, /robo̍*/), auditor (/a̍uditor/, /ɔ̍ditor/).
Anche con queste approssimazioni, il grafico ci permette d’individuare chiaramente la tendenza del fenomeno.
Nei primi sei secoli dell’italiano, dal XIII al XVIII secolo, l’ingresso di parole P1 si mantiene piuttosto limitato. L’italiano è una lingua «potente», nel senso usato da Machiavelli nel famoso Discorso intorno alla nostra lingua:
«Oltre di questo io voglio che tu consideri, come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste coll’altre lingue; ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro: perché quello ch’ella reca da altri lo tira a sé in modo che par suo».
Così, in questo lungo periodo gli apporti lessicali da altre lingue vengono italianizzati e assimilati totalmente, diventando indistinguibili, per chi non sia un linguista, dalle parole italiane ereditarie. (Per esempio, se dico «Il limone è un frutto giallo», sono necessarie nozioni di linguistica —o, comunque, nozioni di altre lingue oltre l’italiano— per riconoscere quale parola di questa frase è un arabismo). Le eccezioni sono una piccola minoranza, e non di rado sono affiancate da un’alternativa pienamente adattata.
Nei primi secoli, le fonti principali di termini P1 sono il latino, il greco e l’arabo, e, in una piccola misura, l’ebraico; con il latino che spesso fa da mediatore per le altre lingue. Arrivano, fra gli altri, caos, ibis, zenit, ramadan, elisir, pancreas, bazar.
Nel ’500 il numero sembra un po’ più alto rispetto ai secoli precedenti e successivi. Attraverso la mediazione dello spagnolo e del francese, s’insediano nord, sud, est e ovest, che, pur indirettamente, sono probabilmente gli anglicismi più antichi nel nostro studio.
Nel ’700 gli anglicismi diventano un po’ più frequenti, e iniziano a costituire una parte del gruppo ancora minoritaria ma rilevante: lord, standard, clan, rum… Tuttavia, nel complesso il numero di parole P1 appare ancora relativamente piccolo, in linea coi secoli precedenti. Compaiono deficit, opossum, muezzin.
È invece nell’800 (già nella prima metà) che assistiamo all’“esplosione” dei P1, il cui numero crescerà a ritmi sempre più veloci fino ai giorni nostri. Arrivano alcuni termini per indicare realtà esotiche (baobab, fennec, islam, totem); termini del latino scientifico, ancora lingua della cultura (lapsus, pus, virus, raptus); e soprattutto anglicismi, in numero sempre maggiore (tennis, snob, grog, sport, premier, test, film, record, gin, bar, stop, partner…).
Il ’900 vede un continuo e ulteriore rafforzamento dell’inglese, in coincidenza con l’imporsi dell’anglosfera come centro socioculturale dell’occidente, e realtà linguistica prestigiosa agli occhi degl’italiani. Dall’inglese entrano nell’uso italiano termini delle scienze (quasar, permafrost, parsec, imprinting), della tecnologia (laser, pixel, rendering), della politica e società (bipartisan, big, fan, slogan, testimonial, gossip), del mondo informatico (spam, emoticon, blog), del cinema (set, cast, sitcom, biopic, star), dello sporte (doping, badminton, assist, ping-pong), dell’economia e delle professioni (benefit, panel, promoter), del cibo e delle bevande (pop-corn, catering, decanter), di àmbito generico (step, pattern, trend, flop), di realtà quotidiane della nostra epoca (card, blister, terminal, smog, poster), eccetera: insomma, in tutti i campi della lingua. Gli stessi latinismi, a volte, arrivano ora attraverso la mediazione dell’inglese, che così definisce o specializza il significato con cui li usiamo (versus, campus, bonus). Non mancano, qua e là, termini d’origine diversa; ma gli anglicismi, diretti o indiretti, rappresentano ora ampiamente la maggioranza assoluta.
Per il periodo 2001–2050, che stiamo ancora attraversando, è troppo presto per stimare il numero di questi termini o anche solo per fare previsioni al riguardo.
Nel complesso, l’esistenza di termini P1 risulta essere un fenomeno che precede l’itanglese odierno, ma in cui l’itanglese si è innestato potenziandolo a livelli mai visti primi.
È importante ricordare, tuttavia, che questa nostra piccola ricerca individua numeri assoluti; sarebbe utile anche conoscere i numeri relativi, ossia qual è la frazione dei termini P1 sul totale delle parole Uit. entrate nel lessico italiano nelle varie epoche storiche (assieme, naturalmente, alle frazioni di termini Sit. e P2), per vedere qual è la variazione nel tempo. Si tratterebbe tuttavia di uno studio di grandi dimensioni —prendendo un comune vocabolario generalista odierno, parliamo già di più di 100.000 lemmi—, che non mi è possibile compiere in un tempo ragionevole senza strumenti tecnologici adeguati.
Un altro studio interessante —ancora più complesso— sarebbe calcolare queste percentuali non rispetto ai singoli lemmi di un vocabolario e alla loro data d’ingresso, ma rispetto alla frequenza d’uso nei vari periodi storici, di nuovo per vedere l’evoluzione; ovvero: «Del totale delle parole usate nei testi scritti in italiano (Uit.), quante sono Sit., quante P1, quante P2?»; dare una risposta a questa domanda suddividendo per epoca i corpi testuali da analizzare.
A parte quelli che potrebbero essere i risultati di uno studio sui numeri relativi, un fatto qualitativo che possiamo notare è che in passato questi termini P1 erano più spesso accompagnati da una variante Sit. totalmente adattata (nord ~ norde; elisir ~ elisire; zar ~ zaro; ananas ~ ananasso; ecc.), mentre questa capacità di adattamento si fa più debole negli ultimi secoli, per sparire quasi del tutto ai giorni nostri, in linea col generale “indebolimento” che l’italiano sta vivendo rispetto alla forza descritta da Machiavelli. Tuttavia, può anche essere che forme totalmente adattate sorgeranno col passare del tempo; si può ancora sperare di cambiare le cose, recuperare i meccanismi dell’adattamento e rimettere in pista l’italiano come lingua viva e “potente”.

4. IL PRIMATO DELLA SCRITTURA?
Alcuni sostengono che ciò che è veramente importante, nell’individuare il carattere di una lingua, sia la scrittura; e, nel caso dell’italiano, che il parametro ortografico sia di fatto l’unica cosa che conta davvero per poter considerare strutturalmente italiana o no una data parola: sicché il gruppo P1 viene praticamente annesso al gruppo Sit.. Si dichiara, così, una sorta di primato della scrittura rispetto alla pronuncia; per chi sostiene questo, il rispetto della fonotassi è un “di più”, qualcosa di accessorio ed eventualmente gradito, ma non veramente necessario.
Si tratta di un’idea diffusa, che però presenta delle debolezze. Vediamone qualcuna.
La prima è che una teoria del genere sembra presentare un carattere sostanzialmente arbitrario. Non pare fondata su una visione complessiva e condivisa che ne dia una motivazione logica con cui si possano convincere altre persone, d’idee diverse: al contrario, con un guizzo d’individualità, nell’osservare le diverse strutture che definiscono una lingua, si “decide” («secondo me è così») che solo una parte è importante, mentre il resto non proprio, o non più. Tale posizione ha una sua coerenza interna, eppure appare in un certo senso inconsistente, mancando di un fondamento esterno e oggettivo su cui appoggiarsi. Con la stessa coerenza e sensatezza interna, si potrebbe infatti sostenere parimenti una posizione esattamente contraria, ritenendo, per rubare le parole a un importante fonetista come Canepari (2014, p. 2; traduzione mia), che
«[…] la scrittura è solo un espediente secondario, assolutamente non necessario. È soltanto una sovrastruttura, indubbiamente utile per la comunicazione non orale, come dimostrano la stampa e la videoscrittura. Tuttavia, il fatto di chiamare qualcuno al telefono o ascoltare una registrazione (magnetica o elettronica) mostra chiaramente che le vere lingue (parlate) non dipendono affatto dalla loro possibile forma scritta. […] La scrittura è solo un espediente secondario —non necessario— […]».
Dunque, secondo una visione simmetrica di questo tipo, si potrebbero considerare meno alieni alle strutture italiane i termini P2, come /buffɛ̍*/, /fa̍ntazi/, /ʤɔ̍lli/, /lɔ̍bbi/, /ma̍ʧo/, /*ʃari̍a/ /jɛ̍nki/, /*ʣo̍mbi/, /pira̍ɲɲa/ (che oggi si scrivono prevalentemente buffet, fantasy, jolly, lobby, macho, sharia, yankee, zombie, piranha), eccetera, o termini ibridi come /ʧatta̍re/, /*ʃunta̍re/, /akera̍ʤʤo/, /baipassa̍re/, /skauti̍zmo/, (chattare, shuntare, hackeraggio, bypassare, scoutismo), che non soddisfano il criterio ortografico dell’italiano ma invece sono normalmente conformi alla sua fonotassi.
Da una parte si dice che la fonotassi può essere ignorata, ammettendo eccezioni, purché sia rispettata l’ortografia; dall’altra si può replicare ribaltando il punto di vista e dicendo che si possono ammettere eccezioni all’ortografia, purché sia rispettata la fonotassi.
Cercando di vedere quale delle due posizioni simmetriche (primato della scrittura; primato della pronuncia) possa vantare le maggiori credenziali, possiamo osservare che nel caso dei termini ibridi abbiamo una molto maggior integrazione nelle peculiarità strutturali dell’italiano, diventando essi, a tutti gli effetti, flessibili e coniugabili secondo le modalità proprie della nostra lingua (singolare e plurale, eventualmente maschile e femminile; per i verbi, tutte le varie possibilità, modi, tempi, persone, ecc.): io chatto, tu chatti, noi chattiamo, essi chattarono, egli chatterebbe… Una cosa simile, pur a un livello molto inferiore e —per forza— molto più raramente, si osserva per i termini P2 “puri”, non ibridi: non è raro imbattersi in piene flessioni secondo le regole dell’italiano nonostante la mancanza dell’adattamento grafico, e incontrare per esempio —principalmente nel parlato, ma talvolta anche nello scritto— plurali spontanei come /moi̍ti/ mojiti, /ʧirinɡi̍ti/ chiringuiti, /ma̍ʧi/ machi, /*ʃa̍mpi/ shampi, /kata̍ne/ katane, eccetera.
Al contrario, non c’è e non ci può essere alcuna flessione dei termini P1, che rimangono totalmente estranei a queste nostre strutture, o, nel caso d’una flessione, sono flessi secondo le regole della lingua d’origine: il fan e la fan, i fan e le fan o i fans e le fans, i supporter o i supporters, eccetera.
Sotto questo punto di vista, dunque, il gruppo P2 mostra nei riguardi delle strutture flessionali peculiari dell’italiano una vicinanza e un’integrazione —potenziale se non già in atto— molto maggiore di quella che ha o potrebbe mai avere il gruppo P1, che sotto quest’aspetto risulta invece pienamente estraneo all’italiano, senz’alcuna integrazione. Se dovessimo fare una “scala dell’italianità”, potrebbero esserci dunque valide ragioni per considerare più in alto (più vicini a Sit.) i P2 rispetto ai P1.
Un’altra debolezza del “primato della scrittura” può essere rilevata nel fatto che le sue conclusioni appaiono in un certo senso paradossali: si dà un’importanza prioritaria al modo in cui la grafia rappresenta la pronuncia, ma allo stesso tempo si considera di fatto trascurabile la pronuncia stessa che viene rappresentata. Ci si concentra su un singolo elemento e si perde di vista il quadro complessivo: un mezzo diventa più importante del fine, un meccanismo della macchina più importante della funzione della macchina. È giusto e sacrosanto ritenere importante la grafia, anch’io naturalmente la ritengo fondamentale; ma è sbagliato ritenere —o “dedurre” dalla sua importanza notevole— che il resto non abbia importanza, o abbia un’importanza minore, tutto sommato trascurabile.
Procedendo nella nostra disamina, possiamo individuare l’elemento di pensiero che forse è la fonte inconsapevole di questa posizione.
Se si possono considerare strutturalmente italiani termini come standard, record e podcast, puramente in base alla loro ortografia, non apparirebbe illogico adattare in modo puramente grafico i termini P3 più comuni, parole che conosciamo e usiamo tutti i giorni e sono pienamente «dell’uso italiano» (Uit.). Confrontiamo le due frasi seguenti:
- «Il mouse wireless non va online, bisogna fare un upgrade del software»;
- «Il maus uairles non va onlain, bisogna fare un apgreid del softuer».
La frase 2 è sicuramente «più italiana», rispondendo pienamente alle nostre regole ortografiche, ma chiaramente non è «italiana» in senso assoluto. In questo semplice concetto sta molto del succo del discorso. L’errore di tante persone che considerano questi termini come strutturalmente italiani, benché oggettivamente non lo siano (almeno fino a quando non si potrà dire normalmente «Ha un vis bello», «il port della città», «Lo sguard fascinoso del protagonista», eccetera), è un banale e classico errore di ragionamento, che consiste nel confondere dati relativi con dati assoluti (o viceversa). In questo caso, si fraintende il fatto di essere «più (strutturalmente) italiano» intendendolo come «(strutturalmente) italiano» in senso assoluto, benché siano due cose ben distinte e la prima non implichi necessariamente la seconda. Per esemplificare con una metafora numerica, si può dire che un affare sbagliato in cui si perde il 10% del denaro investito è «più vantaggioso» di un affare in cui se ne perde il 20%: ma certo questo non lo rende un affare «vantaggioso» in senso assoluto. Lo stesso vale per gli elementi linguistici tramite cui si riconosce l’«italianità» (strutturale) di una parola.
5. IL CRITERIO DELL’USO
Un’altra posizione è quella secondo cui queste parole P1 sono di fatto “approvate” semplicemente dalla loro larga diffusione e dall’uso normale e quotidiano che ne fanno —in qualche caso da più secoli— i parlanti della lingua.
Questa, evidentemente, è una confusione tra concetti differenti, di quelle che abbiamo cercato di chiarire con le distinzioni terminologiche preliminari. Si usa la stessa parola italiano per intendere sia «dell’uso italiano» (Uit.) sia «strutturalmente italiano» (Sit.), che sono cose sostanzialmente diverse; e da una premessa sbagliata discende poi ogni genere di conclusione errata. È chiaro invece che anche chi rileva la non-strutturalità dei termini P1 ovviamente non nega affatto che siano termini Uit., dell’uso italiano: se non lo fossero, la questione non si porrebbe nemmeno e non ci sarebbe bisogno di fare studi e ragionamenti al riguardo.
In una variazione di questo tipo di ragionamento, ci si potrebbe richiamare all’autorità e far notare che in questo o quell’autore si trovano occorrenze di parole che violano la nostra fonotassi, il che si potrebbe sfruttare per sostenerne la piena legittimità. Senza divagare sui tanti scrittori, ci prendiamo solo un capoverso per una nota nel merito per quanto riguarda Dante stesso, visto il suo “primato” per quanto riguarda certe faccende di lingua. È vero che in Dante ci sono diversi esemplari di termini P1; però, in realtà, sono praticamente sempre casi “estremi”, nomi propri marcatamente caratterizzati come esotici, o esplicite citazioni di lingue straniere («lo Vas d’elezïone», lat. vas electionis; Minòs, Cleopatràs, Semiramìs, Empedoclès, Nembròt, Iosafàt, ecc.), non termini “normali” della lingua. Anche se per la maggior parte di questi nomi di personaggi storici famosi usiamo normalmente ormai da secoli forme pienamente italianizzate (Minosse, Semiramide, Empedocle…), tuttavia in un registro normale oggi non italianizziamo i nomi propri dei personaggi famosi contemporanei, nemmeno nell’ortografia (come invece si fa a volte in altre lingue; per esempio in azero Klint İstvud per Clint Eastwood, in lettone Džo Baidens per Joe Biden, ecc.): anche se sono «parole dell’uso italiano», Washington, Michelle Hunziker, Özpetek eccetera restano elementi estranei, che non prendiamo in considerazione per determinare le strutture fonotattiche o ortografiche della lingua (se non, chiaramente, per quanto riguarda il modo di trattare —appunto— i forestierismi non adattati), e così analogamente sarebbe perlomeno “stiracchiato” farlo invece senza riserve per casi di termini similmente “estremi” usati dal padre della nostra lingua.
Ad ogni modo, chiusa la parentesi dantesca, ipotizzando di ammettere la confusione fra uso e strutture come “teoricamente accettabile” e osservandola nel merito, notiamo che presenta delle vistose debolezze contingenti. Infatti, se si accettano le violazioni alla fonotassi in base a una loro larga diffusione, e quindi si ricade sul mero criterio dell’uso, è inevitabile osservare che i termini P2 e P3 sono molto più frequenti rispetto al gruppo P1: per ogni blog e standard scritti come si pronunciano in italiano, ci sono decine di download, file, trailer e shopping che non rispettano la nostra ortografia. Notato questo, la coerenza imporrebbe di considerare ugualmente (anzi, di più) italiani anche questi.
Addirittura, basandoci unicamente sull’«uso», le regole stesse dell’ortografia italiana non potrebbero più essere ritenute valide senza variazioni rispetto alla loro codificazione “tradizionale”. Come ha osservato giustamente Zoppetti in un articolo recente (2022), un criterio puramente dell’uso che fosse veramente descrittivo e coerente dovrebbe ammettere che in italiano oggi per scrivere il suono /ʃ(ʃ)/ (lo sc- di scena) è normale e comune anche la grafia sh; rispetto alla quale certe particolarità etimologiche, come la i soltanto grafica in scienza e simili, sono pure eccezioni minoritarie, e insistere su queste minuzie trascurando invece la normale italianità di sh sarebbe un “ingiusto rilievo”, un doppiopesismo grammaticale.
Se si ha come criterio determinante l’«uso», insomma, le conseguenze sono paradossali; sembra più sensato analizzare la lingua nei termini che abbiamo definito in alto, distinguendo i caratteri dei vari casi.
6. PICCOLE CREPE?
Nonostante —come abbiamo visto— la presenza fin dai primi secoli di qualche termine P1, e la loro crescita enorme negli ultimi 200 anni, non c’è stato finora alcun sostanziale mutamento strutturale della fonotassi italiana, per quanto riguarda le terminazioni.
Con ciò intendo dire che nel lessico italiano non è diventato normale che sorgessero spontaneamente parole terminanti in -f, -ng, -p, -rt, eccetera. Infatti, la quasi totalità dei termini P1 è immediatamente riconducibile all’influenza diretta o indiretta di una lingua straniera (e sotto questo caso ricadono naturalmente anche gli pseudoforestierismi, ovvero conî nostri che imitano parole straniere —e, spesso, per noi appaiono di fatto indistinguibili da quelle “vere”—). Già questa considerazione dovrebbe bastare a rimarcare, una volta di più, l’estraneità dei P1 rispetto ai caratteri peculiari (e quindi distintivi, identificativi) propri della nostra lingua.
Per dirla terra terra, ancora oggi «Se sento le parole /blɔ̍ɡ/ e /sta̍ndard/ capisco sùbito che non sono italiane, anche se non so come si scrivono, perché in italiano le parole non finiscono per /-ɡ/ o /-rd/». Si noti che, facendo queste considerazioni, non stiamo parlando di un italiano “ideale” o passato, dei secoli scorsi, cristallizzato in qualche forma utopica preferibile, bensì a tutti gli effetti della lingua vera, usata e “sporca” dell’uso odierno reale.
Se questa differenza è così forte e marcata, intatta da secoli, allora che ragione c’è di preoccuparsi?
Il problema, chiaramente, è che la crescita smisurata dei termini P1 esercita una pressione sempre maggiore sul corpo della lingua, e questa pressione, se continua a crescere, rischierà a un certo punto di “strabordare” e trasformare veramente le strutture proprie dell’italiano.
Al momento, le crepe al riguardo sono minime (termini come colf, che possiamo facilmente classificare come pseudoanglicismi; mere ricomposizioni come accendigas, portalapis; don come parola a sé stante; la crescita di e non e o non in posizione finale —contro cui usa parole dure anche un linguista certo lontanissimo da qualsivoglia “purismo” come Canepari, 2006, p. 4—, rispetto ai più corretti e no e o no; eccetera) e statisticamente (ancora?) irrilevanti; tuttavia le tendenze sono chiare —abbiamo visto il grafico— e la direzione che indicano non è tranquillizzante. Non bisogna quindi fare lo stesso errore dei negazionisti dell’itanglese che, ignorando le tendenze e considerando le lingue come entità statiche anziché dinamiche, hanno minimizzato e tuttora spesso minimizzano il fenomeno in un modo che appare discutibile a dir poco.
Sotto questo aspetto, i termini P1 costituiscono un pericolo da temere proprio per il fatto di costituire in un certo senso una minaccia meno appariscente rispetto ai P2 o i P3 (vista appunto la grande apertura mostrata da molti nei loro confronti) e quindi di fatto facilitata nell’estendersi e radicarsi nel corpo dell’italiano. Se abbiamo a cuore la nostra lingua, dobbiamo adoperarci perché ciò non avvenga; perché, come scrisse Castellani (1987, p. 141), e come capiamo o dovremmo capire tutti, «Un italiano in cui le parole terminassero per -t, -ft, -sp, -ps, -nk, ecc., non sarebbe più italiano».
7. IL FATTO PRAGMATICO
Siamo quasi alla fine di questo lungo insieme di pensieri. Vorrei fare ora un’ultima considerazione, di carattere eminentemente pragmatico.
C’è un’altra motivazione che sconsiglia di considerare semplicemente «italiani» i P2, a prescindere dalla correttezza teorica o no di una simile posizione. Mi riferisco ora precisamente alle persone che non approvano l’itanglese, e che desiderano sensibilizzare l’opinione pubblica e portare altre persone dalla loro parte; anch’io faccio parte di questo gruppo.
Se un “italianista” (intendendo con questo termine non lo studioso, ma il difensore e promotore dell’italiano) non fa proprio il criterio fonotattico e si limita a sostenere solo quello ortografico, dando per così dire un carattere più “aperto e moderno” alle proprie posizioni, dichiarando obsoleta una parte dei vincoli linguistici della lingua, può darsi che guadagni qualche seguace in più; tuttavia, facendo ciò, mostra ai suoi avversari più smaliziati che la sua battaglia è già persa. Dopotutto la grafia dell’italiano, pur mantenendo una sostanziale corrispondenza grafia-pronuncia, è già mutata sotto vari aspetti lungo la sua storia (Mainardi, 2021, Proposta ecc., pp. 13–14), senza che questo cambiasse i caratteri strutturali della lingua; se oggi invece persino l’italofilo fa propria una tale rivoluzione nel concepire le strutture della lingua, non c’è ragione di credere che, spingendo ancora un po’ ora e ancora un po’ dopo, il difensore dell’italiano non finisca prima o poi per accettare, dopo le eccezioni alla fonotassi, anche le eccezioni all’ortografia; e —perché no?— anche alla semantica, alla sintassi e a qualsiasi altro carattere della lingua, profondo o superficiale che sia. Gli itanglofili sostenitori del mutamento, così, trovando che persino gli “italianisti” dichiarati oggigiorno arrivano a cedere su un punto tale —ricordiamo che la fonotassi non è un orpello trascurabile, ma un elemento fondamentale del carattere di una lingua— vedono di fatto dimostrata la loro posizione, che «le lingue mutano e non ci si può far nulla», e chi ora ha ceduto su un punto domani cederà anche su un altro, semplicemente sconfitto dal fiume della storia. Anziché convincerli della giustezza della propria posizione o accattivarseli, “aprendo” ai P1 paradossalmente si confermano le loro idee, dando loro semmai un motivo ulteriore per abbondare ancora di più coi forestierismi e “vincere” con la forza bruta e il loro classico armamentario d’argomentazioni (l’Appendix Probi, ecc. ecc.).
Quindi, anche se nonostante tutti i ragionamenti teorici si ritiene di considerare “molto italiani” i termini P1, sarebbe bene fare qualche valutazione su quale effetto si fa sul pubblico assumendo dichiaratamente tale posizione.
Se si cede solo perché per qualche motivo si considera la fonotassi una battaglia persa, mentre più facile da difendere l’ortografia, voglio dare un po’ di conforto invitando a non arrendersi e a perseverare: come scriveva Migliorini (1971, p. 50), «quando si tratta delle strutture profonde della lingua» bisogna «considerare una prospettiva non di anni ma di secoli», e nonostante la pressione secolare le crepe nella fonotassi sono ancora minime.
In fondo forse è questo il baluardo attorno a cui tutti dovremmo stringerci: come diceva Castellani (1991, p. 141),
«è normale che una lingua si trasformi, sia per isviluppi interni, sia rispondendo a sollecitazioni esterne. Basta che questo avvenga senza mettere in pericolo le sue strutture fondamentali».
8. CHE FARE?
In generale, i termini P1, nel loro carattere straniero, non sono sostanzialmente diversi dai termini P2 e P3. Per giungere a forme più italiane, le strategie da adottare, dal punto di vista sia puramente linguistico (adattamento, calco, neoformazione, risemantizzazione, ecc.) sia sociolinguistico, non sono di natura diversa fra questi gruppi di termini; anche se, chiaramente, possono essere diverse contingentemente, secondo i fatti di ogni singolo caso.
Per i termini che hanno prodotto derivati di largo uso e totalmente integrati (stressare, stressato, stressante; sportivo, sportività, sportivamente; filmare, filmico, filmografia) sembra preferibile l’adattamento, quindi per esempio stresse, filme, sporte (non diversamente da quanto avviene nelle nostre lingue sorelle, in particolare spagnolo, portoghese e catalano).
Come scrivevo nel mio Coccotelli, computieri e cani caldi (pp. 129–132), tuttavia, sembra eccessivo chiedere sùbito un’adozione completa del purismo strutturale in un paese tanto timido e restio per quanto riguarda le novità linguistiche italiane; benché tendere a forme più italiane sia lo scopo finale, pare più conveniente procedere per gradi, per non urtare troppo una sensibilità iperacuta, che respinge sistematicamente tutto ciò che esca —anche solo lievemente— dal modo in cui è percepita una certa normalità.
Come abbiamo accennato prima, per alcuni termini, soprattutto se introdottisi non da poco tempo, spesso i dizionari registrano una variante totalmente adattata, che è stata usata o tuttora si usa in modo minoritario; queste forme potrebbero essere riprese, senza bisogno di coniare adattamenti originali (alcool > àlcole; azimut > azzimutto; clan > clano; festival > festivale; muezzin > muezzino; slogan > slògano, ecc.), cosa che oggigiorno è sociolinguisticamente avversata dagl’italiani, benché sia naturale (persino banale) in ogni lingua sana; ovviamente, nel recuperare le italianizzazioni storiche, bisogna sempre valutare il contesto e il pubblico di destinazione, colla relativa “tolleranza” verso una maggiore italianità linguistica.
In ogni caso, come non mi stanco di ripetere, il primo passo è recuperare l’uso sistematico del corsivo (o delle virgolette, dove ne manchi la possibilità tipografica) per tutti i forestierismi non completamente adattati; una prassi internazionale, diffusa in molte lingue, che con la nostra perdita di consapevolezza linguistica abbiamo abbandonato quasi del tutto. Di séguito un esempio, in cui metto il corsivo in una frase tratta dal sito della Repubblica (29.4.2022):
«I marines ucraini del 306esimo battaglione hanno diffuso sui social un video che documenta il successo di un loro raid ai danni di due tank russi».
Si tratta di un accorgimento piccolo, che si può mettere in atto quasi sempre senza grandi difficoltà di scopo o accoglienza del pubblico, ma che darebbe risultati enormi, rendendoci consapevoli, come scrittori e lettori, della nostra lingua, con le sue forze, le sue debolezze odierne, e anche le sue potenzialità.
Se per un qualsiasi motivo vogliamo fare un uso consapevole dei forestierismi (P1 ma anche P2 e P3), io personalmente non pongo alcun divieto aprioristico (cfr. di nuovo i Coccotelli, pp. 132–133, § La consapevolezza): è sufficiente un po’ di buon senso, consapevolezza —appunto—, e il corsivo, tanto trascurato benché potenzialmente utilissimo.
9. BIBLIOGRAFIA
Testi cartacei
Castellani A., Morbus anglicus, in Studi Linguistici Italiani, vol. XIII, fascicolo I, Salerno Editrice, Roma 1987, pp. 137–153.
Castellani A., «Vendistica» e il concetto di bizzarro, in Studi Linguistici Italiani, vol. XVII, fascicolo I, Salerno Editrice, Roma 1991, pp. 139–141.
Mainardi G., Coccotelli, computieri e cani caldi. Perché dobbiamo tradurre i forestierismi, Edizioni del Faro, Trento 2021.
Mainardi G., Proposta di riforma gráfica dell’italjano, Pathos Edizioni, Torino 2021.
Migliorini B., Parole «più italiane» e «meno italiane», in Lingua Nostra, vol. XXXII, fasc. 2, giugno 1971, pp. 50–52.
In Rete
Ancora sul «terzo sistema fonologico italiano» di G. Devoto , filone in Cruscate, aperto il 25.10.2006; consultato il 7.5.2022.
Canepari L., Manuale di pronuncia italiana (Aggiunte e modifiche, rispetto alla versione 2004: 09.2006) su canIPA Natural Phonetics, settembre 2006; consultato il 7.5.2022.
Canepari L., Writing systems: the utmost monstrosity of alphabets and ‘orthographies’ su canIPA Natural Phonetics (cit.), novembre 2014; consultato il 5.5.2022.
Un «compendio» per la sezione, filone in Cruscate (cit.), aperto il 28.7.2020; consultato il 6.5.2022.
Zoppetti A., Scienza, conoscenza e shaker (il suono “sc” tra italiano e itanglese) , su Diciamolo in italiano, 14.2.2022; consultato il 6.5.2022.
10. LEGENDA
Senza scendere nei dettagli, facendo una semplificazione un po’ brutale ma sufficiente ai fini di quest’articolo, possiamo dire che l’AFI usa una corrispondenza biunivoca tra “simboli” e “suoni”, per cui a un solo simbolo corrisponde un solo suono e a un solo suono corrisponde un solo simbolo.
In quest’articolo trattiamo solo aspetti fonematici, non fonetici, e riportiamo le trascrizioni della pronuncia tra barre oblique («/ /»).
Anziché le scomode scritture con l’archetto («t͡s», «d͡z», «t͡ʃ», «d͡ʒ»), per le consonanti affricate, uso le legature: «ʦ», «ʣ», «ʧ», «ʤ».
Di seguito la legenda dei simboli:
e la e chiusa di sera;
ɛ la e aperta di certo;
o la o chiusa di ora;
ɔ la o aperta di forte;
u la u di cura;
w la u di quale, (semi)consonante;
i la i di pino;
j la i di chiaro, (semi)consonante;
ʃ lo sc di scimmia;
ʧ la c di cibo;
k la c di casa;
s la s di seta;
z la s di chiasmo;
ʦ la z di marzo;
ʣ la z di orzo;
ɲ lo gn di gnomo;
ʤ la g di giro;
ɡ la g di gatto;
ʎ lo gl di gli;
V una vocale qualsiasi;
* il raddoppiamento fonosintattico, l’autogeminazione;
° l’assenza del raddoppiamento fonosintattico.
Gli altri simboli per noi sono ovvi, corrispondendo alla pronuncia normale delle lettere in italiano (a, b, d, f, l, m, n, p, r, t, v).
Poiché la divisione sillabica in italiano non ha valore di distinzione fonematica, non segno l’accento prima della sillaba accentata (come si fa nell’uso oggi più comune), ma direttamente sulla vocale, tramite un trattino verticale («ˈ»; es. chiedere /kjɛ̍dere/). Indico tuttavia la divisione sillabica con un punto fermo («.») nelle sequenze /i.V̍/ e /u.V̍/, per rendere più visibile la differenza rispetto a /jV̍/ e /wV̍/ (es. diario /di.a̍rjo/ ~ diavolo /dja̍volo/; manuale /manu.a̍le/ ~ duomo /dwɔ̍mo/), similmente a quanto fa il DOP col trattino.
*Giulio Mainardi è un traduttore che s’interessa di questioni linguistiche, in particolare di glottotecnica, fonotassi e influenze interlinguistiche. Il suo ultimo libro è «LINGUA ITALIANA E QUESTIONI DI GENERE (Reverdito, 2021).