Il motore dell’itanglese

Nel «Nuovo vocabolario di base» del 2017 si registrava una letterale
decuplicazione degli anglismi rispetto al 1980.

AUTORE: Moro


Molti collocano l’inizio dell’americanizzazione linguistica in Italia alla
Liberazione: forse immaginano i carri armati statunitensi che entrano nelle
città, in parata tra i cittadini festanti, e l’inizio di un proficuo scambio
culturale tra alleati contro il nazifascismo. In realtà il 25 aprile 1945 è
ricordato per l’insurrezione generale proclamata dal CLNAI, che occupò le
principali città italiane del Nord Italia, facilitando le operazioni alleate, ma
presto le forze dei vincitori si divisero sui due fronti della Guerra fredda: il
Patto Atlantico (1949) e il Patto di Varsavia (1955) , lasciando come territori
di scontro indiretto i paesi non allineati.

Gli aiuti economici forniti dal Piano Marshall (1948-1951) non avevano il solo
scopo di aiutare i paesi del Vecchio Mondo a riprendersi dalla crisi
postbellica, evitando di ripetere alcuni errori della Conferenza di Parigi, ma la
diffusione del modello economico statunitense attraverso l’invio di consiglieri
economici e la formazione di specialisti. Pur appartenendo al Patto Atlantico,
la politica italiana era influenzata da una forte componente comunista e
socialista, che limitò in parte l’influenza statunitense, almeno fino al termine
degli «anni di piombo», addentro agli anni Ottanta. Con il crollo del Muro di
Berlino (1989), la dissoluzione della Cortina di ferro e il collasso dell’Unione
Sovietica (1991) si concluse la fase «bipolare» della politica mondiale,
accompagnata da innovazioni tecnologiche che avrebbero inciso
pesantemente sulla facies linguistica mondiale.

L’introduzione storica è fondamentale per fornire le premesse della
trasformazione socio-culturale che abbiamo vissuto, e ancora stiamo
vivendo, in questo primo quarto di secolo; non è comune, soprattutto per lo
studente formatosi a partire dagli anni Novanta del Novecento, avere una
visione d’insieme sulle conseguenze del «Secolo breve» (1914-1991), una
conoscenza forse data per scontata dalle scuole, presupponendo sufficiente
l’esperienza diretta.

Nel 1999 il Gradit (Grande dizionario italiano dell’uso) di De Mauro registrava
l’1,6% di anglismi non adattati, salito al 2,3% nel 2007, su oltre 250.000
parole. Gli anglismi crudi aumentano al ritmo di centinaia di lemmi che non
riferiscono più ai linguaggi specialistici ma entrano nell’uso comune: nel
«Nuovo vocabolario di base» del 2017 si registrava una letterale
decuplicazione degli anglismi rispetto al 1980.
L’infiltrazione degli anglismi procede di pari passo con l’affermazione di un
modello socioeconomico, veicolando un retroterra culturale fertile.


Intellettuali del rango di Umberto Eco e Pier Paolo Pasolini già negli anni ’60 e
’70 evidenziavano il ruolo dei media nella riforma del linguaggio e dei
comportamenti degl’italiani: il primo aveva evidenziato nel ’63 un modello
negativo in «Fenomenologia di Mike Bongiorno«; l’altro criticava nel ’73 l’uso
di immagini religiose per fini commerciali in «Analisi linguistica di uno
slogan

Effetto dei profondi cambiamenti dell’epoca furono l’avvicinamento
dei partiti comunisti europei a posizioni riformiste, approdando in Italia al
«Compromesso storico», e il rinnovamento politico in direzione di un bipartitismo all’americana dopo il ’94. Erano gli anni in cui la Olivetti
produceva elaboratori domestici e personali per il mercato internazionale,
prima di subire la concorrenza dei prodotti statunitensi e l’affermazione dei
sistemi operativi Microsoft, più adatti alla rivoluzione del commercio
elettronico.

L’accesso agli anglismi e la loro adozione cruda avviene soprattutto
attraverso la Rete, nei suoi usi di mercato; i motori di ricerca, il commercio
elettronico e le piattaforme sociali non sono strumenti neutri ma servono,
consapevolmente o meno, l’ideologia dominante. Come direbbe Antonio
Gramsci, questi media comunicativi sono strumenti di egemonia culturale e
non parlano l’inglese statunitense per caso. Rivolgersi alla scuola per cercare
di cambiare lo status quo è inutile in questo momento storico, perché il
servizio di formazione pubblico è bene avviato nel processo di omologazione;
i principî di aziendalizzazione della conoscenza e della formazione, trasmessi
sia dalla politica che dai centri di sapere tecnico-scientifico, sono già stati
recepiti. La trasformazione in atto non serve una logica di arricchimento
lessicale e di scambio culturale paritario, ma una vera e propria
colonizzazione e assimilazione; la tutela della lingua nazionale coincide con
la conservazione dell’indipendenza culturale e politica del popolo che ne fa
uso, la sua capacità di esprimere idee frutto di un percorso storico
irripetibile.


Questa è, in breve, la situazione ad oggi. Se nell’ultimo mezzo secolo siamo
stati portati ad accettare passivamente la colonizzazione della lingua
italiana, attraversando la nostra storia nazionale come spettatori di un
sogno, è perché abbiamo la capacità di fare scelte diverse, anzitutto facendo
pressione sugli organi politici. Prendere coscienza di ciò che stiamo subendo
come comunità di parlanti è un primo passo da compiere; è fondamentale
discuterne, studiare, argomentare, usando la lingua nazionale senza alcun
sentimento d’inferiorità. Un secondo passo è decidere come agire di fronte
alla situazione data, anche continuando a dare il proprio assenso a questo
modello, purché in piena consapevolezza. Molti cittadini, forse stanchi di
essere considerati semplicemente consumatori di prodotti e oggetto passivo
di attività promozionali, o forse sentendosi a disagio di fronte a un
cambiamento linguisitico poco fisiologico, iniziano a protestare e chiedere
tutele specifiche per questo patrimonio culturale
(https://attivisti.italofonia.info/proposte/legge-vivalitaliano-2021/#).

La consapevolezza e l’autosorveglianza del linguaggio sono strumenti di
resistenza alla colonizzazione linguistica; non si tratta di conoscere e
proporre alternative agli anglismi per semplice nostalgia di un passato
idealizzato ma per poter scegliere ed essere soggetti attivi nella storia. La
crescita culturale e la maturazione intellettuale non si possono trovare in una
lingua unica per tutto il mondo, incapace di descrivere la varietà delle
esperienze umane proprio perché purgata di particolarismi. In Italia esistono
comunità cinesi che parlano mandarino (oltre un miliardo di parlanti),
troviamo parecchi musulmani che usano l’arabo o indiani che usano l’hindi
(entrambe oltre 300 milioni di parlanti).

Perché queste lingue non lasciano alcun segno nella lingua italiana?
Non sono lingue privilegiate, appartengono
a persone poste ai margini della società, nonostante le loro civiltà non
manchino di storia e profondità; la lingua dell’amministrazione, la lingua
della tecnica, la lingua dell’esercizio effettivo del potere è un’altra e solo a
quella è permesso il passaggio nel vocabolario d’uso comune, è l’unica che
dev’essere recepita. Vogliamo continuare a essere passivi?