Itanglese: un fenomeno unico

«L’elitismo, la rapidità, la portata e la penetrazione degli (pseudo)anglicismi nella lingua italiana di oggi non conosce precedenti né storici né geografici». AUTORE: Peter Doubt*


Cos’è il «portuñol«? Quanti dei nostri lettori ne hanno sentito parlare?
Creolo formatosi spontaneamente, e osservato da ormai un paio di secoli nelle zone limitrofe tra Uruguay, Argentina (e altri Paesi sudamericani di lingua castellana) e il Brasile, nonché registrato da tempo in alcune zone lungo il confine tra Spagna e Portogallo, il «portuñol» è uno dei più classici esempi di pidgin (o creolo, o lingua mista, secondo i criteri usati) originatosi da contatti tra comunità adiacenti e necessità di mutuare vocabolario reciprocamente per ragioni di praticità.

Un viaggio attraverso la bella e verdissima frontiera tra Spagna e Portogallo offre una prospettiva linguisticamente unica, ascoltando dialetti e idiomi generatisi nei secoli dove, a spagnolo e portoghese – secondo la latitudine – si mischiano anche elementi di asturleones, a Nord, o di andaluz, nella parte piú meridionale del confine (il cosiddetto barranqueño ne è un esempio).

Senza voler annoiare il lettore, il punto di questo sermone linguistico su un frammento del mondo hispanolusitano consiste nel mettere in evidenza la definizione di quella che sarebbe realmente una «lingua fatta dai parlanti«.
Quando i linguisti d’Italia liquidano pigramente, irritati, distratti, il crescente fenomeno del misto fritto itanglese dicendo che «la lingua la fanno i parlanti«, o che «è sempre stato così«, o che «l’italiano è sempre stato una lingua bastarda» peccano, semplicemente di cecità, e – non dovrebbe sorprendere- provincialismo.



I fenomeni osservati nella storia, e registrati da linguisti con gli occhi aperti e non troppo occupati a recitare a memoria la bibliografia di De Saussure, sono molti. A parte l’adiacenza geografica che ha dato luogo all’alternanza di codici sviluppatisi con il portuñol, o il famoso Spanglish nato a Puerto Rico oppure tra il Messico e alcune zone degli Stati Uniti d’America (Arizona, New Mexico, California, Florida, parti del Texas, ecc.), ci sono poi i fenomeni di spontanea meticciazione linguistica occasionatasi in comunità di migranti. Si pensi al lagunen-deutsch della regione dei laghi del Cile, dove migranti di lingua tedesca dei sudeti (attuale Repubblica Ceca) e di Austria e Germania si insediarono a partire dal secolo XIX, un fenomeno interessantissimo dove spagnolo e tedesco entrarono spontaneamente in un calderone e ne uscirono producendo effetti strabilianti, sia dal punto di vista lessicale che dal punto di vista di alterazioni morfologiche (verbi spagnoli declinati alla tedesca, ecc). Senza andare così lontani, la penisola italiana visse fenomeni simili (anche se moltissimi secoli prima e con le sue peculiarità) con il griko in alcune parti del Salento o le isole linguistiche gallo-italiche della Sicilia.


Eppure, tornando ai giorni nostri, è dovere notare come, dai quasi 5 milioni di cittadini stranieri arrivati in Italia dal 2000 in poi (e che includono comunità numericamente consistenti di cittadini rumeni, marocchini, cinesi e albanesi), la lingua italiana non abbia assorbito un solo neologismo o non abbia mutuato assolutamente nulla. Al contrario, invece, del cockney londinese (e non solo, si parla proprio di un Multicultural English) dove da decenni non si contano sia le espressioni che gli elementi fonologici e morfologici di provenienza giamaicana (e non solo), che sono attivamente penetrati – dal basso, cioè dai parlanti. O si pensi al francese dove, specialmente in aree urbane, l’apporto linguistico da parte, per esempio, di comunità arabe è un dato di fatto, e dove ormai le nuove generazioni cosiderano molti nuovi vocaboli lingua francese al 100% (caoua, seum, kif, chouïa, souk e molte altre). Esatto, la lingua la fanno i parlanti.

Il problema è che nessuno dei fenomeni descritti sopra rappresenta qualcosa in comune con la valanga itanglese di oggi. Non ha nulla a che vedere con la normale e graduale evoluzione dal basso – di qualsiasi lingua – avvenuta durante secoli, se non millenni, tra prestiti, assimilazioni e adattamenti.



Invece, dentro un’ottica più elitista, le analogie con l’itanglese del secolo XXI iniziano a scorgersi se ci avviciniamo a fenomeni di lingue creole sviluppatesi sotto dominazioni coloniali, dove una lingua importata militarmente si è imposta o sovrapposta. Si pensi al pidgin dell’Africa Occidentale (con varianti differenti in Nigeria, Ghana, Camerun, ecc), al kriol del Belize (definito ufficialmente «lingua di contatto» e che iniziò a radicarsi con l’avvento della tratta degli schiavi nel secolo XVI), al patois della Giamaica e il chabacano (e in maniera minore il tagalog) delle Filippine. Gli esempi sarebbero centinaia e furono il risultato di uno sviluppo a due livelli. Da una parte, quello istituzionale e burocratico, con governatorati, tribunali, polizia ed eserciti che inevitabilmente esercitavano i propri poteri nelle lingue colonizzatrici costringendo i colonizzati ad adeguarsi. Dall’altro il fatto che tanto l’alfabetizzazione come l’educazione obbligatoria fu spesso istituita dalle forze colonizzatrici, impiantando le lingue colonizzatrici con robuste radici e trasformando le popolazioni locali in angloparlanti quasi nativi nel giro di un paio di generazioni. In altre parole, la lingua coloniale catapultata dall’alto e le lingue o, più spesso, dialetti locali (527 solamente nel caso della Nigeria) usati dalla popolazione comune portarono spesso a vere e proprie fusioni linguistiche, in alcuni casi completate da standardizzazione e ufficializzazione. Eppure l’Italia non è una colonia o una ex colonia, per cui neanche l’ultimo caso riesce ad offrire particolari esempi di precedenti simili all’ibdridazione linguistica degli ultimi 20 anni.



C’è poi l’altra «Leggenda Metropolitana del Linguista Pigro» secondo cui un fenomeno simile si sarebbe già visto con il francese a cavallo dei secoli XIX e XX. È vero che dalla Francia arrivarono molti prestiti (alcuni assimilati, come bigiotteria o gendarme, altri che rimasero integrali, come boutique), ma si trattava di parole individuali (e comunque molto minori in numero rispetto allo tsunami contemporaneo), al contrario della valanga di ibridazioni sintattiche dell’itanglese attuale che relegano sempre di più l’italiano a un guscio di preposizioni e congiunzioni, o che ne stravolgono le regole della sintassi (no green pass day, we are hiring, sugar-free, 4-weeks for inclusion, pet therapy, car sharing, employer branding, back to school, storytelling consultant, beauty influencer, call per start-up green, delivery pick up point, look total white, vaccination manager, boom dei ready to drink, drive-in covid, rider support, Not-a-museum, Italy4culture, Italia Team e centinaia di altri).


In altre parole, l’itanglese resta un fenomeno unico e sorprendentemente sottostimato perché sta avvenendo con una rapidità senza precedenti. Ricapitolando:
1) senza una colonizzazione fisica, una presenza militare o un dominio politico da parte di un Paese angloparlante (al contrario, per esempio, di Malta, dell’Irlanda o di altre colonie ed ex-colonie);
2) senza che l’Italia confini con un Paese angloparlante e che avvenga un intercambio o mutualizzazione linguistica per adiacenza geografica;
3) senza che questa enorme influenza linguistica avvenga attraverso l’apporto di comunità di immigrati, per esempio in aree metropolitane, nonostante il loro numero sia aumentato considerevolmente negli ultimi 25 anni;
4) senza che i prestiti linguistici si limitino alle sole sostituzioni lessicali.



Che l’itanglese non sia un fenomeno linguistico «fatto dai parlanti«, insomma, è ovvio anche a un bambino, ed è desolante vedere accademici e linguisti di professione liquidare pigramente questa improvvisa mutazione linguistica e culturale dicendo il contrario. Pensate all’apparire dal nulla di espressioni catapulate dall’alto, da ministeri, comuni, enti pubblici. Jobs Act, navigator, cashback, smart working, super green pass, lockdown, caregiver, rispettare il droplet, la Spending, il Board, la stepchild adoption, It’sArt, il mobility management e centinaia di altri da parte di governo e agenzie governative. Pensate ai mostri linguistici quali no gender, no green pass day, family day, no paura day, Run for mem da parte di partiti ed organizzazioni politiche. Pensate all’INPS quando pubblica comunicati come il «4-Weeks for Inclusion: change management e inclusione» e parla di workshop. Pensate alle Poste italiane quando sostituiscono ormai per sempre parole come spedizioni, posta celere, e resi con reverse paperless, my poste delivery business, e poste delivery express. O a quando Trenitalia onanizza con train manager, self check-in, crew, Trenitalia for business, «see you there!«, e riempie il suo magazine di anglicismi inutili quali lifestyle e investor relations. O quando i comuni e le regioni parlano di Ro.Me (sul serio), food policy, park & ride, Happy popping (sul serio), shared wood e organizzano un «talk» in un «Park Hub ai designer under 30«. O quando una signora di 80 anni malata di cancro riceve una lettera dall’ospedale della sua città invitandola a uno «screening nel Day Hospital Breast Unit«, senza contare i vari Skin Cancer Unit, hospice, week surgery, checkpoint temperatura e drive through covid. O quando vedi che sempre più corsi nelle università italiane sono offerti esclusivamente in inglese, tra un open career day, una masterclass in copywrite e una business school (ormai economia e commercio è cosa obsoleta, come le musicassette). O quando rabbrividisci notando la valanga di professioni ormai in inglese, trasudando narcisismo elitista, dal Warehouse Manager al Head of Talent Acquisition & Sales e dal Chief Sales Officer Key Account al Vice President HR and Organization (mentre si rivolgono a un pubblico italiano).
Peggio ancora, quando il sapore di autocolonizzazione si inizia a sentire vedendo interi quartieri battezzati in inglese e pubblicizzati in lingua completamente ibrida (si veda FeelUpTown o North Loreto a Milano), mercati (East Market), linee della metropolitana (Circle Line), o addirittura i bidoni della spazzatura (City Bin a Mantova).

E tutto questo senza contare:

– i deliri onanistici di giornali, riviste e mezzi di comunicazione contenenti ormai quasi più (pseudo) anglicismi che i loro colleghi della stampa giamaicana, nigeriana o filippina. Non si contano le sezioni, i report e i magazine con titoli e sottotitoli infarciti di news, green & blue, inside over (?), New York stories, longform, moda&beauty, Italian tech, green tech, newsletter, photography, entertainment, cover story, cold case, food & beverage, spycalcio, greenheroes, the best, Andrea’s version e centinaia di altri.
– il bombardamento da parte di pubblicitá e agenzie specializzate le quali sembrano incapaci di completare una sola frase senza infarcirla con deliri da anglomania pura (si pensi, per fare un esempio infinitesimale, al martellamento mediatico del Black Friday e i suoi cugini Cyber Monday, Black Week e Domenica Black Finish).
– l’effetto moltiplicatore, stile ventilatore industriale (o benzina sul fuoco, se preferite) delle reti sociali (i social), dei telefoni intelligenti (gli smartphone) e delle varie piattaforme e applicazioni, quelle sì presenti su scala mondiale, dove termini e neologismi vari si diramano con la velocità della luce (si pensi ai sempre più presenti ghosting, flaming, tagging, fino a tutti gli acronimi da LMFAO a IMO). Ma persino lì, dove il terreno è un po’ più livellato, dove il ruolo della globalizzazione è chiarissimo, dove le sostituzioni non sono così elitiste come negli esempi precedenti, l’enorme peso dei vari (o varie) influencer fa sì che la direzione del flusso linguistico segua comunque una tendenza dall’alto verso il basso.

Quello che sta accadendo oggi alla lingua italiana, non è – nella quasi totalità – un fenomeno spontaneo, nato e cresciuto tra parlanti. Solamente accettare questa semplice verità consentirebbe una maggiore presa di coscienza nei confronti del tipo di futuro, se uno ce n’è, per la lingua italiana e, specialmente, offrirebbe una maggiore inclusione verso i milioni e milioni di utenti del Bel Paese tagliati fuori dalla follia psicolinguistica attualmente in atto.

*Peter Doubt è un traduttore/interprete (spagnolo-inglese-italiano) con doppia cittadinanza britannica e italiana. Vive in Spagna da 14 anni.