Bagagli smarriti

Inclusione esclusiva o esclusione inclusiva? Autore: Peter Doubt

Qualcuno riesce a spiegare la logica per la quale sempre più aeroporti d’Italia stanno sostituendo la lingua italiana con l’inglese? La foto qui sopra è dell’Aereoporto di Bergamo, un chiaro esempio di sostituzione, non di bilinguismo.
Immaginatevi una delle milioni di persone italiane che non parlano l’inglese. Sono milioni. Magari anche tua madre, tuo padre, tua zia, o te stesso.
Se hanno perso una valigia o un oggetto non potranno affidarsi alla segnaletica dell’Aeroporto di Orio al Serio (Milano Bergamo BGY). Saranno svantaggiati perché non capiscono l’inglese nel proprio Paese.

Nella foto sotto c’è poi un esempio del ritiro bagagli nello stesso aeroporto.
Tutto completamente in inglese.
Chi vi scrive si aspettava che il tabellone alternasse qualche secondo in inglese con qualche secondo in italiano (come è di costume in molti aeroporti europei). E invece, no. Sostituzione totale.
Poi però lì fuori è tutto un fioccare di campagne con #inclusion, ovviamente.

Resta da capire perché. Si guadagnano turisti eliminando l’italiano?
Esiste un turista che eviterebbe l’aeroporto X o Y perché lì la segnaletica non è in inglese o esclusivamente in inglese? Cosa stanno facendo le autorità italiane alla lingua italiana?

La segnaletica all’Aeroporto di Orio al Serio (Milano BGY) esclude dalla comprensione milioni di italiani.

NON succede in tutte le lingue

Durante gli scorsi due mesi abbiamo effettuato un’analisi comparativa degli anglicismi puri presenti sulle prime pagine digitali di quattro quotidiani europei di simile tiratura e stile, più un quotidiano britannico per rilevarne eventuali forestierismi e italianismi puri.

La Parte 1 della nostra analisi ha fornito risultati allucinanti, onestamente molto peggiori delle nostre aspettative più pessimiste (vedi qui e anche qui per conoscere i dettagli). Il referente italiano si è rivelato così intriso di anglicismi da totalizzarne abbondantemento più del doppio dei suoi omologhi francesi, spagnoli e tedeschi messi insieme.

Per questa ragione, per la Parte 2 della nostra analisi, abbiamo cambiato i quotidiani sperando di registrare qualcosa di diverso. Questa volta ci siamo affidati a La Stampa (Italia), Le Figaro (Francia), El País (Spagna) e Süddeutsche Zeitung (Germania), affiancati da The Times (Regno Unito).

Di diverso abbiamo notato che: 1) al contrario dell’anglofilo El Mundo, El País (della cui grafica siamo innamorati) segue chiaramente una linea editoriale fedelissima alla lingua castellana e tende ad utilizzare davvero pochissimi anglicismi; 2) che le parti si invertono tra Le Monde, molto fedele al francese, e Le Figaro, non restio a pubblicare anglicismes; 3) che nonostante il Süddeutsche Zeitung rifletta comunque l’uso copioso di anglicismi nella Germania di oggi, non raggiunge i livelli di Welt; e 4) che l’attenzione speciale che The Times sembri dedicare ai temi irlandesi ha consentito la rilevazione di alcuni termini gaelici.

Per il resto, purtroppo, sul tema che più ci sta a cuore, vediamo che ancora una volta è il quotidiano italiano ad utilizzare infinitamente più anglicismi degli altri. La Stampa ne ha totalizzati 336 in una settimana contro i 276 di tutti gli altri messi insieme (includentdo The Times).

Anche se appena più moderati rispetto agli angloassatanati de la Repubblica, specialmente – per pura coincidenza – durante la giornata del 1 Gennaio, anche La Stampa ne usa a tonnellate, quasi sempre senza motivo, e spesso in maniera ridicola. Spiccano le rubriche – in italiano, sia chiaro – con i titoli da mercante di datteri quali «Quirinal Game«, «Vatican Insider» e «Italian Politics«, nonché la solita processione di empowerment, gender, no vax, revenge porn, fake news che sono diventati i pilastri del creolo linguistico degli ultimi anni. I dettagli si trovano qui.

L’analisi continuerà con cadenza bisettimanale fino a metà Febbraio.

Purtroppo, nel frattempo, i dati che abbiamo rilevato confermano la pochezza disarmante dei tanti, troppi, linguisti italiani di professione, secondo i quali «tutte-le-lingue-fanno-così«, «anche-gli-inglesi-dicono-pergola«, «vabbè-ma-solamente-l’area-lessicale«, «che-dobbiamo-dire-pellicola-invece-di-film«, «e-che-dobbiamo-fare-come-Mussolini«, e così via. E che, tra una scrollata di spalle e un tweet con la consistenza di una pozzanghera, continuano a liquidare questo fenomeno rapidissimo, gigantesco e di una mole senza precedenti, invece di riconoscerlo, guardarlo in faccia, studiarlo prioritariamente e dibattere cosa meglio si potrebbe fare a livello normativo.
Perché la morte dell’italiano sta avvenendo adesso, davanti a noi, e quando qualcuno si sveglierà – magari con una petizione nel 2050 nello stile di quello che si fa oggi con il gaelico, il basco, il bretone o i panda per salvarli dall’estinzione – sarà probabimente troppo tardi.

Una crescita esponenziale

Nel giro di vent’anni, in alcuni casi anche meno, la frequenza degli anglicismi in Italia è aumentata in maniera impressionante. E c’è gente che lo nega. AUTORE: Peter Doubt*

L’uso di pseudoanglicismi nella lingua italiana sta crescendo esponenzialmente. Questo fatto continua ad essere negato, inspiegabilmente, da un numero considerevole di «amanti della lingua» italiani. Alcuni sono arrivati a dire addirittura che si tratta di un fenomeno passeggero.

Siamo dunque andati ad analizzare alcune parole consultando gli archivi elettronici dei tre quotidiani più venduti del Paese. Eccovi un brevissimo resoconto della tendenza in atto.
Abbiamo iniziato con la parola match, il cui uso è sestuplicato nel giro di trent’anni.

Ancora più interessante è il confronto tra l’ormai onnipresente big match e l’italianissimo, ma sempre più desueto, «partitissima«. Nel periodo 1984-2000 erano quasi alla pari. Con l’arrivo del nuovo millennio la tendenza è diventata chiarissima, con un cambio esponenziale. Nel 2000-2010, big match è apparso oltre il doppio delle volte di «partitissima». Nel 2010-2020, circa sette volte in più. Partitissima ha iniziato una parabola discendente, mentre big match si usa ormai con una frequenza TRENTA volte superiore agli anni 80 e 90. Nel biennio 2020-21, la parola è apparsa su Repubblica quasi quattro volte in più che nei sedici anni tra il 1984 e il 2000.

Ovviamente la tendenza è visibile anche negli altri quotidiani nazionali:

Restando in ambito calcistico, guardate come scorer, spesso accoppiato con top e praticamente sconosciuto in Italia fino al 2000, sia ora il termine preferito per indicare cannoniere.

Non potevamo poi non esaminare smart, dato che in Italia si usa più che nei Paesi anglosassoni. Dal 1984 al 2000, la parola è apparsa 338 volte su la Repubblica, molte dei quali per riferirsi a cognomi, come l’attrice Rebekah Smart, o all’automobile Smart. Dal 2000 al 2010 la frequenza è quasi decuplicata (3074 volte) per poi di nuovo quadruplicarsi (13675 risultati) tra il 2010 e il 2020. Solamente nell’ultimo biennio (2020-22) è già apparsa 7635 volte. Ormai c’è di tutto: smart city, smart building, smart living, smart washing, location smart, smart retail, sportello smart, smart factory, smart speaker, i cassonetti smart (!), le case smart e molti altri, addirittura la Genova Smart Week. C’è da scommettere che di questo passo tra poco persino la carta igienica smart sarà disponibile.

Passiamo all’ambito parlamentare, dove appare uno degli esempi più chiari di distruzione linguistica decretata dall’alto. L’utilizzo di Interrogazioni parlamentari è letteralmente crollato dal 2010 in poi, spinto fuori a gomitate dall’anglicismo dal contesto sbilenco conosciuto come question time.

Poi ci sono fattorino e garzone, entrambi ormai disintegrati da rider. Tra il 1984 e il 2010 i risultati degli archivi di Repubblica per rider si riferiscono quasi esclusivamente ad altri ambiti, specialmente il vecchio navigatore Tom Tom Rider, il film Easy Rider e il nome – scritto male – del videogioco Tomb Raider (appunto, non Tomb Rider come scriveva la Repubblica negli anni 90 e 2000). Il vero paragone inizia a partire dall’anno 2010. Da quella data in poi, rider emerge e fa piazza pulita. È ormai utilizzato il triplo di fattorino e garzone (quest’ultimo particolarmente moribondo) messi insieme.


Trasferiamoci in un altro ambito. Le compere, che ormai si chiamano shopping. Guardate questo:

Si noti come l’espressione «fare shopping» abbia completamente annichilito, negli ultimi 20 anni, gli equivalenti italiani «fare le compere» e «fare le spese» che infatti, a partire dal 2010 hanno iniziato un lieve declino. E dove lo fanno questo shopping, gli italiani? Nei negozi, certo, e nei centri commerciali, ma mentre botteghe, esercizi e grandi magazzini sono in stasi o in caduta libera, trionfano sempre di più store, outlet e mall, moltiplicatisi di quattro o cinque volte solamente rispetto al periodo 2000-2010.

E mentre vanno a fare shopping nei mall, magari utilizzando i gift voucher e facendosi aiutare dagli shop assistant, gli italiani comprano sempre più le brand. Osservate come, sebbene in buona salute, al contrario dei suoi sinonimi griffa o firma, la parola marca sia stata addirittura sorpassata da brand durante il decennio 2010-2020. In Italia, brand si usa ormai oltre 140 volte di più che nel periodo 1984-2000.

Tra il 1984 e il 2000 fine settimana e weekend si usavano praticamente alla pari. Dal nuovo millennio in poi, l’espressione anglo ha preso il volo e ora si usa il doppio che il vecchio fine settimana.

Ancora più deprimenti sono le centinaia di esempi in ambito accademico. Quello che vi mostriamo è il moribondo Economia e Commercio. Si usa ormai la metà che nel decennio 2000-2010 e il suo declino appare inesorabile, ovviamente a favore del sempre più trendy e cool Business School, e scusate la rima.

La direzione è identica se guardiamo ovazione, che rallenta sempre di più a vantaggio del nuovo arrivato standing oveiscion, che aumenta esponenzialmente e che si utilizza ormai il doppio dell’equivalente italiano.

Altra parola di cui gli italiani sembrano essersi innamorati è location, che in Italia si pronuncia locheiscion e che in inglese ha un significato molto circoscritto. In Italia, invece, tutto è una locheiscion. Guardate le cifre. Usato ormai 150 volte in più rispetto agli anni 80 e 90 e ormai tre volte in più rispetto al suo equivalente nella lingua sfigata.


E concludiamo con botteghino, che fino al 2000 si usava ancora il triplo dell’anglismo box office, mentre oggi appare in netta ritirata.

Insomma, per citare il conduttore di RaiNews Lorenzo Di Las Plassas, uno dei pochissimi giornalisti ad aver colto la magnitudine del problema, «non si è sviluppata la sensibilità per la quale se un anglicismo entra dalla porta, è una parola italiana a uscire dalla finestra. Non sono parole che si aggiungono, sono parole che si sostituiscono«.

Nel nostro prossimo articolo analizzeremo più approfonditamente la lista sempre più lunga di parole italiane in fila sul viale del tramonto.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete e vive in Spagna da quasi 15 anni.

La Repubblica dell’itanglese

Solamente un povero di spirito potrebbe dire che quello in atto sia «uno scambio linguistico»: ecco i risultati del primo mese completo della nostra analisi comparativa.


Siamo giunti alla fine delle prime quattro settimane della nostra analisi comparativa tra anglicismi e pseudoanglicismi sulle prime pagine delle edizioni digitali di quattro quotidiani europei (La Repubblica, Le Monde, El Mundo e Welt) e forestierismi sul Guardian britannico (vedi qui). I risultati sono stati molto peggiori delle aspettative più pessimiste. Il totale cumulativo, durante quattro settimane, e senza contare determinate ripetizioni e anglicismi completamente acquisiti quali bar, podcast e sport, è il seguente:

La Repubblica = 2528
Welt = 1122
El Mundo = 393
Le Monde = 191
The Guardian = 25 (di cui 7 italianismi)


Se non avessimo notato il numero sorprendente di linguisti, sociolinguisti, terminologi e filologi italiani colpiti da diniego cronico e dissonanza cognitiva grave, diremmo che non ci sarebbe bisogno di ulteriori commenti. Del resto basta farsi una passeggiata in Italia. Basta guardare la televisione, le pubblicità, o le news. O visitare un’ agenzia interinale. O magari, andare all’università, al mall, o al waterfront della tua città; spedire qualcosa con il delivery express di Poste italiane; farsi dare il buongiorno dal train manager su Trenitalia; guardare gli highlights di un match di calcio; leggere un articolo sul body shaming delle influencer che fa tanto cringe; prenotare l’hairstylist; partecipare a un talk sulle prospettive del recovery dopo il lockdown; parlare degli abs con il personal trainer, ecc.

E invece non basta. Per cui, ricordiamo che gli anglicismi e pseudoanglicismi di Repubblica riguardano tutti gli ambiti, nessuno escluso. Notiamo che sempre di più si intravedono unità linguistiche che vanno oltre le singole parole in inglese (vedi il paragrafo successivo). Osserviamo che molti termini in italiano, che si tratti di parole singole o di interi concetti, appaiono sempre più in disuso, per esempio verde, modulo, garzone, tecnologia, approfondimento, montaggio, ovazione o applausi a scena aperta, commerciante, il Premio tale, la Settimana di [evento], o la Giornata di [evento]. Rileviamo che i quotidiani italiani non sono gli unici in Europa, ma che sguazzano in (pseudo)anglicismi in maniera esponenzialmente superiore agli altri Paesi. Se consideriamo il computo globale durante le quattro settimane, la Repubblica ne totalizza quasi il doppio di tutti gli altri messi insieme, più del doppio dei loro colleghi tedeschi di Welt (che stanno comunque messi male, ne parleremo in dettaglio tra qualche giorno), 6.5 volte in più degli spagnoli de El Mundo, e oltre 13 volte in più di Le Monde in Francia.

Per la quarta settimana consecutiva, La Repubblica vince e lo fa alla grande, totalizzando 597 tra parole, frasi e termini che farebbero invidia a qualsiasi colonia o ex-colonia di Elisabetta Windsor (i quali, in verità, nel caso dei numerosi pseudoanglicismi, si farebbero delle grosse risate). E dunque vai con l’onanismo delle valanghe di no-vax, super green pass, cluster, hub, boom, pressing, body positivity, Italian Tech, longform, Italian Teacher Award, beauty, boom, millennial, contest, plug-in hybrid, delivery, newsletter, smart working, green&blue, make-up artist, hairstyle, coffee table book, retailer, form, rating, recovery, green dreams, startupper, Merry Christmas, family office, covid watch, hi tech, Europe talks, form, 15 minute city, legally blog, last second, low cost e chi più ne ha più ne metta. In tutti i settori, per buona pace della precisissima terminologa Corbolante.


C’è poi da parlare del confronto con i forestierimi e italianismi presenti su The Guardian. Quando certi linguisti dormiglioni liquidano il fenomeno della crescita esponenziale di termini inglesi e pseudoinglesi con frasi precotte nello stile di «e allora gli inglesi che devono dire con tutte le parole italiane che hanno«, viene da domandarsi cosa passa per la mente di certe persone. Magari la settimana di vacanza a Londra fissandosi selettivamente sulle parole in italiano nei ristoranti e bar di Soho, o memorie di qualche CD di musica classica o lirica con parole come adagio, orchestra, piano concerto, lento e l’istesso tempo. Dunque, il cervello provinciale ne evince che il mondo anglosassone in generale è permeato di lingua italiana.
Poi ci sono quelli che, sebbene assolutamente non colpevoli di ignoranza, si consolano con il fatto che gli italianismi del vocabolario inglese sono «Non solo maccheroni, mafia e mamma mia!«, che 500, 600 o 700 anni fa l’Inghilterra importava italianismi e che, ergo, la valanga di pseudoanglismi odierni fa parte di una bilancia culturalmente e linguisticamente positiva e salutare. Che sarebbe come se la popolazione irachena, devastata in tutti i sensi dai recenti anni di guerra e bombardamenti, si consolasse oggi dandosi pacche sulla spalla perché «sai, una volta la Mesopotamia era il cuore pulsante del pianeta».

È impossibile negare che un quotidiano di grande tiratura rispecchia – e dunque anche linguisticamente – le dinamiche sociali, economiche, politiche, e culturali di un Paese, le mode e le tendenze, i costumi e le preoccupazioni, le ossessioni e le antipatie. Magari, dipendendo dagli orientamenti editoriali, questi fattori possono essere aggravati o ridotti. Eppure se – in un mese – la prima pagina del Guardian ha totalizzato 7 italianismi (mafia, camorra, ricotta, radicchio, diva più la parola sanità utilizzata due volte) contro i 2528 anglicismi de la Repubblica (cioè lo 0,27%), allora è sufficientemente chiaro quanto sia nulla oggi l’influenza della lingua italiana in Gran Bretagna, mentre in Italia l’inglese ha ormai raggiunto livelli di penetrazione totale del tessuto culturale. Poi, d’accordo che uno si vergogni ad ammetterlo, però solamente un povero di spirito potrebbe dire che quello in atto sia un salutare «scambio linguistico», «che la globalizzazione» e «che anche gli inglesi dicono tiramisù e pepperoni con la doppia ‘p‘».

E se a qualcuno venisse in mente di dire che «non è vero che le persone parlano come i giornali», quel qualcuno dovrebbe però spiegare perché quelli italiani debbano farlo con 2528 anglicismi in un mese, mentre quelli spagnoli riescono a funzionare con una frazione degli stessi. E comunque sarebbe davvero di un’assurdità inaudita pensare che la correlazione tra linguaggio usato fuori dalle redazioni e linguaggio dei giornali sia inesistente e, in particolare, che lo sia esclusivamente nel caso dell’Italia.

E se invece qualcun’altro dicesse che la nostra analisi rifletta il fatto che gli anglicismi siano un fenomeno inevitabile dovuto alle nuove tecnologie e invenzioni di provenienza a stelle e strisce, di nuovo, perché non lo è nella stessa misura nei quotidiani tedeschi, francesi e spagnoli?

E se magari, finiti gli alibi, ci si voglia illudere che la colpa sia solo degli angloinvasati de la Repubblica e che, per pura coincidenza, Le Monde, Welt, El Mundo, e The Guardian siano testate poco (o molto meno) inclini a usare forestierismi, non c’è di che preoccuparsi: la fase due del nostro studio, durante le prossime settimane, sarà centrata su La Stampa, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung, El País e The Times.

L’ultima considerazione è la seguente: se cifre del genere fossero state osservate in qualsiasi altro campo, dalla produzione delle mozzarelle al prosecco, dai risultati della nazionale di calcio ai numeri di turisti in Italia, o lo stato dei beni culturali, ne sentiremmo parlare ogni giorno. Invece la lingua italiana, in Italia, resta una nota marginale.

«Ma non hai capito che la globalizzazione…?»

Analisi comparativa di Campagna per salvare l’italiano. Settimana 3 (04-10 Dicembre 2021)

Quello della «globalizzazione» è uno dei pretesti più inefficaci per spiegare il fenomeno dell’aumento esponenziale di (pseudo)anglicismi nella lingua italiana. Per la terza settimana consecutiva, la nostra analisi comparativa dimostra che non esiste paragone tra gli anglicismi disseminati dai mezzi di comunicazione italiani e quelli di Francia, Spagna e Germania. La Repubblica, da sola, ne ha vomitati molti di più (594) che Le Monde, El Mundo e Welt messi insieme (403) nello stesso periodo. Per non parlare poi della disarmante pochezza di chi si illude, letteralmente, che il fenomeno stia avvenendo reciprocamente e che l’italiano sia ugualmente onnipresente nei Paesi di lingua inglese. Recentemente, il distinto linguista Prof. Edoardo Scarpanti ha per esempio liquidato la questione con un sarcastico:

Schermata, si può dire in italiano, di un commento su «La Lingua Batte», Facebook, 15/12/2021

Un commento che, purtroppo, per una persona così metodica e per bene come lui, non si avvicina neanche lontanamente all’interpretazione semantica più generosa possibile della parola «superficialità». E questo perché una simile reductio ad absurdum la si potrebbe usare per qualsiasi cosa e dire che «🇩🇪 IL DIKTAT KITSCH DI OLAF SCHÖLZ NEI LÄNDER DELL’EX DDR (DEUTSCHE DEMOKRATISCHE REPUBLIK) DOVE SI PRODUCONO STRÜDEL E MUESLI È UN VERO E PROPRIO BLITZ», magari con qualche risatina da reti sociali tipo: «allora che dobbiamo dire che il tedesco ci sta invadendo? 🤣🤣🤣».
Semplicemente, basta metter giù i manuali di nozionismo contenenti le tabelle con le ore trascorse in bagno da Ferdinand de Saussure nel biennio 1909-1911, osservare quanti italianismi include il Guardian online nella sua prima pagina (zero, questa settimana, contro i 594 pseudoanglicismi de la Repubblica), e concludere che, a noi, i linguisti belli svegli, tonici e analitici – nei confronti delle cose odierne – piacciono da morire.
Leggi qui i dettagli della ricerca condotta da Campagna per salvare l’italiano.

Intervista a Tobias Jones

Cosa c’e dietro gli (pseudo)anglicismi in Italia? Si tratta di vanità, di limitazione lessicale, oppure di semplice voglia di «freschezza linguistica»? Ne parla con noi l’autore e giornalista del Guardian.

Tobias Jones (Somerset, Inghilterra), premio letterario, giornalista del quotidiano britannico The Guardian, e autore dei libri Sangue sull’altare (pubblicato in Italia da Saggiattore), Ultra (Compton Newton) e Il cuore oscuro dell’Italia (Rizzoli), giunse in Italia vent’anni fa. Già al suo arrivo notò qualcosa di strano, ovvero termini in inglese o pseudoinglese infilati da tutte le parti.
Siamo arrivati al 2021, con il fenomeno dell’itanglese esponenzialmente più diffuso e la lingua italiana ancora più intorpidita. Abbiamo deciso di interpellare Tobias sul tema. Ascoltandolo, non siamo d’accordo con tutte le sue opinioni personali sul fenomeno dell’itanglese, come è normale che sia, ma è comunque interessante vedere il punto di vista di un giornalista britannico in Italia.

1) Nel tuo libro del 2003, «The Dark Heart of Italy» (Il cuore oscuro dell’Italia), ci sono un paio di pagine in cui descrivi le tue prime impressioni con l’ossessione italiana per gli anglicismi e gli pseudoanglicismi.
Cosa ricordi in particolare che ti colpì all’inizio? Ti aspettavi una cosa del genere al tuo arrivo in Italia?

Mi ricordo che in quegli anni le compagnie di telefonini e di banda larga stavano crescendo alla grande e le parole inglesi invariabilmente finivano nelle pubblicità: le parole straniere erano sfoggiate come una specie di connessione cosmopolita, un simbolo di come queste aziende telefoniche e di internet ti potevano mettere in contatto con il mondo intero. Ci fu una fase (che probabilmente continua ancora) in cui non trovavi una sola pubblicità senza una parola in inglese. Cioè mi fece immediatamente sospettare del fenomeno – era tutto parte di quelle tecniche di vendita persuasive, il vendi-vendi capitalista.

2) Suppongo che qualche volta avrai chiesto ai tuoi interlocutori italiani il «perché» di questo. Che risposte hai ricevuto?

È considerate figo. Ti fa apparire più di classe e più internazionale. Tieni in conto che la maniera in cui l’italiano si parla e, specialmente, si scrive, è molto diversa dall’inglese britannico. Qui in Italia è normale per un giornalista inserire una frase in latino, greco o francese, per cui chissà l’inglese fa parte di quella strana miscela che vuol far apparire chi scrive spettacolarmente intelligente. È scrittura per ostentare e rivela una nozione di parole che è diversa: sono usate per comunicare la bravura di chi scrive, non per comunicare quello che chi scrive vuole dire. Un mio amico dice che la lingua italiana si parla per il suono, non per il significato.

3) Dal 2003 la valanga di anglicismi nella lingua italiana è aumentata esponenzialmente. Ti mostro un campione della prima pagina del sito di «la Repubblica» di oggi, 9 Novembre, dove abbiamo contato 106 anglicismi (vedi immagine su). Alcuni italiani liquidano la questione dicendo che «anche in Inghilterra» si usano parole in italiano. Cosa ne pensi?

L’esterofilia esiste ovunque e ci sono anche alcune parole che sono penetrate nella lingua inglese dall’italiano (catenaccio, panino – usato incorrettamente come “panini” per il singolare! – ecc.). Ma il livello è molto, molto differente. Credo che ci sia un fenomeno molto più interessante qui. Per tutti gli elogi alla lingua italiana (si veda l’eccellente libro di Stefano Jossa sul tema) è una lingua molto rigida e statica. Esiste uno standard di riferimento antico a cui le parole sono sempre incatenate. Non ci sono due dozzine di altri Paesi che contribuiscono alla creazione di gergo, idiomi, nozioni, idee e sottigliezze. L’inglese è enormemente arricchito dall’inglese indiano, giamaicano, neozelandese, ecc.  Invece l’italiano ha un vocabulario minuto rispetto all’inglese e non riesce ad evolvere. Il numero di neologismi registrati è una frazione in confronto a quelli che appaiono ogni mese in inglese. Per cui è forse inevitabile che la lingua italiana sia obbligata a prendere in prestito all’estero. Eppure il problema principale, secondo me, consiste nel fatto che i giornalisti vogliono ostentare ed esibire (spesso incorrettamente) quello che hanno imparato. È un problema di vanità più che di linguistica.


4) Nel 2019 hai pubblicato «The Underworld of Italian Football» («Ultrà. Il volto nascosto delle tifoserie di calcio in Italia«), un viaggio coraggioso e dettagliatissimo nel mondo degli ultras italiani. Anche in quel mondo hai notato una presenza importante di anglicismi, per esempio nei cori da stadio e negli striscioni. Ci racconti di più? Che impressione ti ha fatto?

È un paradosso che in un mondo tutto basato su radici e appartenenza al borgo e al quartiere, questi gruppi cantino frequentemente canzoni tradizionali degli Stati Uniti («le bandiere sventoleranno» viene da Red River Valley!) or addirittuta God Save the Queen (con parole differenti). Ho cantato vari cori da stadio con i miei amici di Cosenza in inglese («Comes on Wolves [due sillabe su Wolves!] Come on«). Sventolano bandiere dell’Union Jack, o bandiere confederate e così via. Fa tutto parte della contraddizione tra il voler avere radici molto solide e volere, allo stesso tempo, apparire internazionali. L’esterofilia tra gli ultras è molto evidente: elogiano gli hooligans britannici, e i tifosi birtannici, anche loro, elogiano gli ultras italiani. In questo senso, chissà vale la pena dire qualcosa di positivo sul fenomeno: se gli ultras italiani (o i politici, o i giornalisti, ecc) usano parole straniere, non è sempre solamente per far farsi belli o per la scarsezza di vocabolario italiano. È perché esiste una certa apertura, una generosità e una curiosità che a molti di loro invoglia a voler gustare, nella propria bocca, il sapore di parole differenti. È facile criticare questa abitudine, eppure riflette, allo stesso tempo, qualcosa che io trovo anche affascinante, cioè l’apertura di molti italiani verso influenze esterne.

5) Gli anglicismi sparsi ovunque anche nei cartelli pubblicitari vengono visti come qualcosa di negativo da persone madrelingua inglesi?

Sì. È deprimente ed imbarazzante – prova del livello straordinariamente basso di immaginazione da parte del settore pubblicitario. È tamarro, falso e melenso.

6) Tu conosci l’Italia perfettamente. Ci vivi e ci lavori intermittentemente da quasi vent’anni e sei perfettamente integrato.
Secondo te questo avvento dell’itanglese é dovuto a mancanza di orgoglio nazionale? Come si coniuga con il fatto che gli italiani sono eccezionalmente nazionalisti quando l’argomento è la loro gastronomia, le mozzarelle, il calcio o la Ferrari?

Che domanda difficile! Credo rifletta tantissime cose: c’è forse, come tu suggerisci, una certa mancanza di orgoglio nazionale – ma personalmente la trovo una cosa attraente.
Suppongo (e chissà per quale motivo usiamo le parole che usiamo, figuriamoci perché le usa un’intera nazione) che a volte gli italiani condiscano la loro lingua con anglismi per cercare una certa originalità che magari l’italiano non offre. E questa mancanza di orginalità chissà può essere dovuta all’istruzione, la televisione, le prossimità etimologiche, chi lo sa…
Eppure una lingua che si rigenera più lentamente (lo stesso avviene con questioni demografiche, e qui torniamo al controverso territorio dell’immigrazione) richiede un certo influsso per poter adattare nuove espressioni a nuove realtá. I parlanti italiani sono attratti da un certo desiderio per una freschezza linguistica e credono di trovarla parlando inglese. Il fatto che poi questo stesso itanglese finisca per deformare e cambiare parole inglesi non è (come io un tempo credevo, temo un po’ arrogantemente) un segno di cattivo uso ignorante. Lo è invece di una creatività bramata da parte di chi lo usa. Un mio amico libraio con un ottimo livello d’istruzione spesso usa parole inglesi che sono state “parmigianate”, trasformate alla parmense, e alla fine abbiamo creato tra di noi un nostro gergo eloquente.

Domande a cura di Peter Doubt e Lorenzo Di Las Plassas
(Traduzione: Peter Doubt)

La «febbre anglo», un fenomeno molto italiano: il nostro studio comparativo lo conferma

Una delle giustificazioni più pigre e superficiali circa il crescente abuso di (pseudo) anglicismi nella lingua italiana consiste nel dire che «tutte le lingue fanno così» (Vera Gheno). Addirittura, facendo un po’ di confusione tra etimologia e prestiti integrali di uso attuale, il Professor Edoardo Scarpanti, autore di Elementi di linguistica generale e applicata, arriva a scrivere che la lingua inglese conterrebbe addirittura «oltre l’80% di lessico straniero«, per cui «quindi l’italiano è minacciato da uno zombi?».
Ci sono poi coloro che minimizzano dicendo che «il contatto si limita a strati del lessico superficiali» e, coloro i quali, mostrando una disarmante mancanza di senso di proporzione, volume e tempi, liquidano il tutto scrivendo che «anche gli inglesi e gli americani dicono pasta e pizza, baldacchino***, maestro e chiaroscuro» (vedi qui).

Campagna per salvare l’italiano – Analisi comparativa di anglicismi su portate di giornali europei (6-12 Nov 2021).


Pare dunque che né il buon senso, né la semplice osservazione di quello che sta accadendo da 15 o 20 anni a questa parte, siano sufficienti. Ci sono persino linguisti di professione che sminuiscono la portata del preziosissimo lavoro di Antonio Zoppetti (autore di Diciamolo in italiano), che ha registrato la crescita esponenziale di anglicismi nei dizionari italiani durante gli ultimi decenni. Di solito spaccano il capello in quattro sul fatto che i neologismi in inglese puro assorbiti dall’italiano costituiscano il 50%, il 42% o il 25%, come se la tendenza non fosse comunque chiara anche a un infante.

E dunque, nel tentativo di svegliare i linguisti d’Italia da questo stupefacente binomio (o dovremmo dire mix) di torpore e dissonanza cognitiva, Campagna per salvare l’italiano ha deciso di optare per la prova più diretta, la più verificabile quotidianamente, giornalmente, adesso, dal vivo, anzi live, come ormai si dice nell’Italia dell’itanglese.
Abbiamo preso quattro quotidiani di simile stile, contenuti e tiratura delle quattro grandi nazioni dell’ Europa dell’Ovest: la Repubblica (Italia), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna) e Welt (Germania). Abbiamo contato il numero di anglicismi presenti ogni giorno sulla loro portata (o Home Page, nell’Italia dell’itanglese). A questi abbiamo affiancato una quinta testata, The Guardian (Regno Unito) per poter registrare la presenza di italianismi presenti.

La tabella qui sopra mostra il risultato della prima settimana d’analisi.
In una settimana, ci sono stati 644 anglicismi puri su la Repubblica contro 3 italianismi puri (e 1 solo francesismo) sul Guardian. È davvero surreale vedere linguisti di professione illudersi che le due cose possano esser messe sullo stesso piano. Gli italianismi nella lingua inglese esistono, e sono molti, ma sono a) quasi sempre confinati ad ambiti estremamente specifici (per esempio, musica classica o lirica, gastronomia italiana) b) sono arrivati e si sono insediati nella lingua inglese molto gradualmente, nel corso di secoli e secoli.

Alcune considerazioni sulla metodologia in uso:

1. La nostra rilevazione mantiene un approccio molto generoso verso la Repubblica. Non abbiamo contato anglicismi che consideriamo completamente radicati nella lingua italiana, ad esempio, sport, internet e tennis, parole che invece – per esempio – hanno un loro corrispettivo in spagnolo (ed infatti El Mundo si riferisce a deporte, la red e tenis).

2. Non includiamo anglicismi il cui corrispettivo nelle quattro lingue d’origine (italiano, francese, spagnolo, tedesco) è inesistente o completamente artificiale. Parole come podcast, rugby, apartheid e blog, per esempio, non fanno parte della rilevazione.

3. Le testate francesi e spagnoli (quelle tedesche in misura minore) hanno ancora l’abitudine di mettere gli anglicismi tra virgolette. Gli abbiamo contati ugualmente e inclusi nelle analisi, anche se – con il virgolettato – si potrebbe sostenere che in questa maniera non si tratti di prestiti integrali ma di referenza a termini nella lingua d’origine.

4. In qualsiasi caso NON abbiamo incluso nomi propri (esempio, Rolling Stones, Fridays For Future, Alec Baldwin) e titoli originali di film (per esempio Cry Macho), programmi TV (per esempio Squid Game), canzoni, eventi (WTA Finals, Champions League) e marchi registrati (iPhone, Apple, Facebook), ecc.

5. Se una stessa parola appare due volte nello stesso pezzo o titolo, viene computata solo una volta. Se riappare in un altro articolo, titolo o posizione diverse della testata, viene contata di nuovo. Questo ha penalizzato particolarmente il quotidiano tedesco Welt, che sembra riciclare continuamente didascalie con inglesismi (Live TV, Newssticker, Brand Story, ecc.).

6. Unità semantiche contenenti due o più parole, per esempio Italian Tech in la Repubblica, Brand Story in Welt o fiscal dumping in El Mundo, vengono rilevate come un solo elemento. Abbiamo invece rilevato separatamente, due parole autonome però usate insieme, per esempio Green & Blue in la Repubblica (dove abbiamo contato sia Green che Blue).

7. Non abbiamo incluso i prestiti integrati, con la «t». Per esempio, ciberdelincuencia, in spagnolo, o le wokisme in francese sono adattamenti. Non lo sono invece «cybercrimine» o «cultura woke«, che quindi sono stati rilevati.

8. Riguardo al Guardian, abbiamo registrato sia i prestiti integrali in italiano che nelle altre lingue. Per la cronaca, durante l’intera settimana, sono stati pochissimi: gli italianismi diva, sanità e camorra, e gli altri forestierismi biryani dall’hindi, junta e latino (nel senso etnico), dallo spagnolo, e banlieu dal francese.

***Provate a chiedere a un inglese o americano se conoscono baldacchino. Poi diteci come è andata.

Sull’autore:
PETER DOUBT, Traduttore, interprete
BA MA University of Birmingham (GB); DELTA The British Council, Berlino, Germania.