Il Decalogo dell’Angloinvasato*

Circola in questi giorni sulle reti sociali una raccolta di luoghi comuni, pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera a firma del linguista Giuseppe Antonelli. Si chiama «Decalogo dei pregiudizi / Decalogo alternativo» ed è la definizione perfetta dell’argomento fantoccio o fallacia dell’uomo di paglia. In altre parole, si prende l’argomento opposto, lo si esagera, lo si distorce, e se ne fa una caricatura grossolana con il fine di compensare la propria mancanza di argomenti. Io moderno, tu autarchico. Io cosmopolita, tu bigotto. Io flessibile, tu rigido. Io plurilingue, tu nostalgicopurista. È facilissimo. Non a caso, va molto di moda nei tempi «binari» in cui viviamo.

IMMAGINE: Decalogo pubblicato su La Lettura (Corriere della Sera), pagina 11, 06/02/2022.

Però se è per questo, una caricatura la possiamo fare anche noi. È semplice, è divertente, ed offre anche uno spaccato realistico del cervello itanglese dell’anno 2022 (che ora si dice Venti Ventidue, non che gli attenti ghenolinguisti de «l’italiano è intaccato solo a livello lessicale» lo abbiano notano). E dunque eccolo, il DECALOGO DELL’ANGLOINVASATO:


Una volta esplorata la forma mentis dell’angloinvasato italiano del secolo XXI, diamo dunque uno sguardo ai fantomatici dieci punti del linguista Giuseppe Antonelli.

1. «NON AVRAI ALTRA LINGUA AL DI FUORI DELLA TUA».
Una caricatura, ovviamente, di un infantilismo spaventoso, che non significa nulla e che viene convenientemente giustapposta a «più lingue sono meglio di una» per supporre che chi considera la lingua italiana un bene culturale sia un cavernicolo autarchico con deliri suprematisti. Chiaro che più lingue sono meglio di una. Parlarle apre la mente, apre finestre verso altre culture, offre altre prospettive, è divertente, è utile a livello professionale.
Peccato che questo non c’entri nulla con lo tsunami anglicus (cit. Tullio de Mauro) attuale, e che eluda brillantemente il tema del fenomeno tutto italiano della somma zero, ovvero l’incapacità degli italiani del secolo XXI di fomentare conoscenze di altre lingue senza autodistrurre la propria o indulgere in miscugli comici nello stile di Salvatore il Gobbo del «Nome della Rosa» di Umberto Eco.


FOTO: Salvatore il Gobbo nel film «Il Nome della Rosa», tratto dal libro omonimo di Umberto Eco.

2. «LA TUA LINGUA È MIGLIORE DELLE ALTRE».
E la mia macchina è più veloce della tua e io sono più alto di te.
Davvero deve essere questo il livello?

3. «LA LINGUA DI OGGI È PEGGIORE DI QUELLA DEL PASSATO».
Magari possiamo dire «worse«, usando anglocosmesi in puro stile itanglese per illuderci che non sia così?
Non è che la lingua sia peggiore. È che sta scomparendo. C’è sempre meno italiano nei concetti.
Come altro descrivere la crescente incapacità dell’italiano di descrivere fenomeni attuali senza ricorrere costantemente ad un’altra lingua o – in alcuni casi – a una pseudolingua? La difesa secondo cui «tutte le lingue sono alla deriva» ovviamente non scende nei dettagli, nonostante siano di una chiarezza disarmante.
Facciamo l’esempio dello spagnolo- una tra dozzine di lingue – che riesce ad aggiornarsi e, al contrario dell’italiano, descrive la pandemia con le proprie parole. Abbiamo confinamiento invece di lockdown, cuidador/a invece di car[e]giver, rastreo [de contactos] per contact tracing, Certificado Covid per Green Pass, autocovid invece di drive-in covid, centro invece di hub, foco invece di cluster, distancia de seguridad invece del farlocco droplet, teletrabajo invece del pseudoanglismo smart working, antivacunas invece del «pidginesco» no-vax, covid largo invece di long covid, refuerzo invece di booster, ecc. Come si può negare che la salute dell’italiano si stia deteriorando? Gli esempi sono centinaia di parole in declino, in Italia, senza alcun motivo. Motivo che invece esisterebbe se questo fenomeno avvenisse in modo più o meno uniforme tra tutte le grandi lingue europee. Perché gli spagnoli riescono a dire diapositiva anche per l’aggeggio digitale, mentre gli italiani hanno accantonato la propria parola per eccitarsi con slide? Perché tutti i fenomeni moderni, dalla teoria genderless al net zero, dai social ai reality e dall’upcycling all’ecommerce, gli italiani non riescono a esprimerli nella loro lingua come facevano quasi sempre prima?
Poi ci sono i fenomeni non moderni, che purtroppo esistono da tempo. Catcalling, stalking, revenge porn, bodyshaming, mobbing e tanti altri. Che sia inglese vero o presunto, l’italiano è sempre più assente.


IMMAGINE: Campagna promozionale del Ministero della Cultura d’Italia, 2022.

4. «OGNI INNOVAZIONE DELLA LINGUA È CORRUZIONE e IMMUTABILI SONO SOLO LE LINGUE MORTE».
Appunto. L’italiano ha smesso di innovarsi. Una lingua che si comporta sempre di più come nell’immagine qui sotto non si sta innovando, sta morendo.
Al netto di un numero fisiologico di prestiti, che esistono in tutte le lingue, una lingua si evolve quando è viva, adatta, crea, è dinamica, conia neologismi. Il 54% dei neologismi aggiunti all’italiano dal 2000 in poi sono (pseudo)anglicismi. Significa che per qualsiasi concetto nuovo, in qualsiasi ambito (non solo le innovazioni informatiche e tecnologiche) il riflesso compulsivo è ormai quello di scimmiottare, come scrive Claudio Marazzina, dall’inglese. Questa, per definizione, è una lingua immutabile e immutante. Il mondo va avanti e l’italiano è rimasto fermo al 1999.

5. «ONORA LA GRAMMATICA CHE TI HA INSEGNATO LA SCUOLA/ I MODELLI LINGUISTICI DEL PASSATO NON POSSONO DETTARE LA NORMA DEL PRESENTE»
Questa considerazione manicheistica non fa parte dell’ambito di questa Campagna. Però, di sfuggita, se è questa il criterio, non si fa prima ad abolirla, la grammatica? Anzi, dato che ci siamo, abogliamo la squola e purliamo tuttu the way ke wantiamo? Sicuramente il Professor Antonelli non voleva dire questo. Antipatiche le caricature, vero?

6. «DIFFIDA DI OGNI USO LINGUISTICO SPONTANEO»
Argomento uomo di paglia strafatto di steroidi anabolizzanti che neanche Ben Johnson alle Olimpiadi di Seul nel 1988.

7. «RICORDATI DI SANTIFICARE LE REGOLE»
Come 5 e 6 qui sopra.
Dato che ci siamo, avete notato – in perfetta linea con i tempi egomaniacali e del narcisismo nauseante in cui viviamo – che gli autori del caro decalogo non hanno neanche considerato per un secondo il rispetto per l’interlocutore? Tutto è basato sull’io. Il me. Io parlo e scrivo come voglio, e se l’interlocutore non capisce, per motivi anagrafici («boomer!«, però «abbasso lɜ discriminazionɜ!«), economici, accademici, o quello che sia, sono cazzi suoi.


IMMAGINE: Frascati, UK
Italia.

8. «NON PRATICARE NEOLOGISMI IMPURI/ CI SONO PAROLE CHE NASCONO E PAROLE CHE INVECCHIANO».
Certamente. Succede in tutte le lingue. In italiano però le parole che invecchiano, per la prima volta, vengono sistematicamente sostituite da termini (pseudo)inglesi. Gli esempi sono migliaia. Basta farsi un giro per i negozi, guardare la televisione, leggere giornali e riviste, andare alle Poste. Succede con le leggi (Jobs Act invece di riforma del lavoro o Legge [Nome del Proponente]), con le procedure parlamentari (question time invece di interrogazioni parlamentari), con i corsi universitari (Business School per Economia & Commercio), con le professioni (badante e caregiver, fattorino/garzone e rider, capotreno «killerato» – vedete che moderni che siamo- da train manager, ecc), con le Poste Italiane (spedizioni cannibalizzato da delivery, resi dall’inglese farlocco reverse paperless). Succede con i reparti ospedalieri (breast unit, stroke unit, day hospital, day surgery, skin cancer unit, ecc). Succede con la squadra olimpica che diventa il frankenstein sintattico di Italia Team. Succede con dichiararsi, sepolto da coming out. Succede che genere diventa sempre più gender. Succede con ambientalista, ecologico, verde, coperti da una lenzuolata di green che neanche le lucertole. Inizia ad avere effetti su morfologia e sintagmi, dall’incapacità di coniare un evento che non sia XYZ Day, XYZ Week, XYZ Award (in Italia) alla compulsione di attacare il suffisso -free ai sostantivi (plastic-free, covid-free, meat-free, ecc), al must-have in tutte le salse. Nelle proporzioni attuali, qualcosa del genere si è visto solamente nelle ex colonie britanniche.
Per farla breve, vediamo se l’angloinvasato capisce: il problema non sono i prestiti, non sono i neologismi, non sono gli adattamenti: il problema è non saper distinguere uno tsunami da una normale e salutare pioggerella.

9. «NON DESIDERARE PAROLE D’ALTRE LINGUE»
L’argomento fantoccio di nuovo. C’è desiderare parole d’altre lingue, e c’è questo:


10. «IL PURISMO FA MALE ALLA LINGUA»
Di quale «purismo» parliamo? Che significa «purismo»? Rabbrividire di fronte alle centinaia di anglicismi inutili presenti quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani? Aspettarsi che una legge del parlamento italiano sia espressa in lingua italiana è forse «purismo»?
Si potrebbe «ribaltare la tortilla«, come dicono gli spagnoli e parlare di una ossessione anglofila – quella sì – ai limiti del purismo, dato che in qualsiasi contesto, pubblico, privato, accademico, pubblicitario, mediatico, sportivo, medico, la scelta (pseudo)inglese prevale sistematicamente sull’italiano. Questo purismo anglofilo, questa ossessione con il voler apparire a tutti costi internescional, anche quando non ce n’è bisogno, fa male. Fa male alle lingue, plurale. Non offre alcun vantaggio. Lasciamo perdere la confusione e cattiva comprensione (sia per gli italiani che per i non italiani), la mancanza di trasparenza o il poco rispetto sia l’italiano che l’inglese, questa pseudolingua sta causando un crescente impoverimento lessicale e un avvizzimento dell’italiano. Un semplice sguardo alla pigrizia linguistica dei mezzi di comunicazione italiani odierni – da cui viene diffusa la stragrande maggioranza di questi (pseudo)anglicismi – dovrebbe essere sufficiente per aiutare un attento linguista a trarre conclusioni logiche, invece di giocare a fare il contemporaneo cool.
Ed infatti, muniti di cifre dure e pure basate sulla nostra analisi comparativa degli anglicismi sui maggiori quotidiani europei (guardate i risultati della settimana 7), concludiamo con la solita domanda:
Perché i direttori, redattori, giornalisti ed editori di El Mundo, El País, Le Monde, Le Figaro, Welt, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e The Times riescono a raccontare le notizie e gli avvenimenti del giorno ricorrendo molto di meno a forestierismi mentre quelli italiani usano (pseudo)anglicismi a manetta, e in quantità sempre maggiore?

Ci sarà mai un linguista che riuscirà a rispondere a questa domanda senza travisare?

IMMAGINE: «La lingua la fanno i parlanti»: il sito dell’INPS.

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, con studi all’Universita di Birmingham (Gran Bretagna), è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 15 anni.