11 supercazzole itanglesi

La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita

Recentemente un membro della Campagna per Salvare l’italiano faceva notare che «La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita». Eccovene alcune:

1) Sí, ma la parola italiana è cacofonica, in inglese suona meglio.
Questo l’ha detto un angloinvasato giustificando l’uso sempre più smodato (nonché escludente e discriminatorio) di cartelli per denominare certi reparti ospedalieri come STROKE UNIT o BREAST UNIT.
Cioé, avete capito. Cacofonico sarebbe utilizzare parole come «senologia» o «reparto» e non stroke, breast o unit, che tra l’altro milioni di italiani non saprebbero pronunciare o riconoscere per bene.
Senza contare la pochezza mentale, narcisismo ed egocentrismo di chi, dall’alto [presunto] del suo giocare a fare l’internescional fornisce patenti di cacofonia a parole italiane perfettamente usate ed utilizzabili.

2) Sí, ma standing ovation non è proprio lo stesso di ovazione
Perfetto esempio del non-è-proprismo tipicamente italiota, per citare Antonio Zoppetti.
Quando vogliono loro gli angloinvasati alla precisione scientifica ci tengono. Poi però magari parlano di «droplet», a cazzo.

3) Sí, ma è chiaro che ci sono tante parole inglesi, le invenzioni, il digitale e la tecnologia, no?
Ebbè, chiaro. E allora non facciamo prima ad abolirle le traduzioni?
Del resto, se così fosse, invece di dire lampadina gli italiani direbbero lightbulb. Invece di automobile, motorwagen (dal tedesco Carl Benz). E così via con antibiotics, le réfrigérateur, fregasuelos, telephone, wagonways e microwave.
Eppure no, perché quando quelle invenzioni ebbero luogo, la lingua italiana era ancora viva, elastica, capace di adattare, riadattare ed evolversi. Al contrario di oggi, rattrappita, che non adatta e non si evolve, ma scopiazza, sostituisce e prende in prestito, anche se male.

4) Sí, ma fanno tutti così, anche negli altri Paesi
No, non è vero. Dirlo è, se va bene, da ignoranti con scarsa capacità d’osservazione e, se va male, intellettualmente disonesto. A parte il semplice visitare e vivere fuori dall’Italia, ci sono TONNELLATE di esempi che indicano il contrario, e lo indicano alla grande. Guardate la nostra analisi comparativa dei quotidiani europei, ma anche questo, questo, e – più recentemente, il trattamento riservato alla lingua italiana, unica ad essere sostituita in copertina tra le edizioni europee del libro di Harry Windsor. L’abuso di [pseudo]inglese nell’Italia di oggi è solamente secondo alle ex-colonie britanniche. Se dovete farlo, almeno non fate finta che non sia vero, altrimenti sono solo supercazzole.

5) Sì, ma in Spagna traducono perché è un retaggio di Franco
Questa è del poveraccio che crede di fare il colto con il riferimento politico/storico, senza sapere di essere ignorante come una scarpa. La dittatura di Franco mise in piedi politiche discriminatorie linguistiche verso le altre lingue del territorio spagnolo (basco e catalano, per esempio). Non c’era alcuna restrizione verso i forestierismi e lingue esterne ai confini spagnoli. Il fatto che gli spagnoli non facciano figure da tamarri credendo d’essere fighi con smart working e recovery vari non c’entra assolutamente un belin con il franchismo. Leggete, informatevi, non fate gli emancipati da reti sociali (social), che se no sono solo supercazzole.

6) Sì, ma le lingue non si possono controllare artificialmente
Chi lo dice è spesso un sostenitore convinto dell’abolizione forzata, magari per decreto, dei generi grammaticali, che si tratti di asterischi, scevà (/ə/) o altri artifici. O si strappa i capelli sull’uso volontario della parola Presidente o Presidentessa.

7) Sì, ma questo è fascismo. E infatti è quello che fece Mussolini durante il Ventennio fascista
No. Politiche linguistiche con spettro diverso di salvaguardia esistono oggi in quasi tutti i Paesi europei.
In genere si tende a citare la Francia e la famosa Legge Toubon, ma ci sono politiche linguistiche vigenti in Paesi perfettamente democratici come Irlanda, Croazia, Finlandia, Spagna, Portogallo, Galles, Austria, Belgio, e molti altri. Tra trasparenza, protezionismo, e garanzie per usuari e consumatori, leggi sulle lingue nazionali esistono ovunque.
Non le ha inventate Mussolini, così come non inventò lui acquedotti e bonificazioni di paludi.
Il buon senso, l’inclusione e la trasparenza non vanno tirate nel cesso con la scusa di interpretazioni sbilenche di leggi sbilenche (dunque doppio sbilenco) di 100 anni fa.
Oh, e dato che ci siamo, qualcuno ha mai conosciuto un vegetariano che ha smesso di esserlo perché lo era anche Adolf Hitler?
Per la cronaca, in Portogallo si susseguono da anni governi socialcomunisti. Ci sono leggi molto specifiche non solamente sulla promozione della lingua portoghese, ma anche sull’obbligatorietà di utilizzare il portoghese da parte di istituzioni educative e media (con persino quote di programmi in lingua nazionale), nonché di tradurre etichette commerciali e pubblicità.
Anche la Spagna ha un governo socialcomunista. Dal 2013 esiste la «Ley de Transparencia» che obbliga tutti gli enti pubblici o a partecipazione pubblica, dalla Famiglia Reale al più piccolo dei municipi, a comunicare in spagnolo (o catalano, basco e gallego).

8) Sì, dov’è il problema, ormai l’inglese lo capiscono tutti.
Allerta: davanti a te c’è un narcisista professionista con pochissimo tatto verso gli altri.
Siccome lui o lei parla o capisce l’inglese, allora automaticamente non ci si deve ponere il problema.
Ci sono dei poveracci che dicono che il titolo Spare, del libro del Principe Harry (anzi Prince Harry, nell’edizione italiana) sia comprensibile a tutti. Ma bisogna essere davvero dei caproni egocentrici per credere che 60 milioni di italiani colgano il significato di Spare e che lo sappiano pronunciare.
Senza contare, attenzione (!), che l’itanglese con cui vengono presi a schiaffi milioni di italiani affinché alcuni politici, giornalisti, *menager*, pubblicitari e inserzionisti di LinkedIn possano soddisfare i loro bisogni onanistico-narcisisti, ha ben poco a che vedere con la conoscenza dell’inglese. E infatti molto spesso d’inglese non capiscono un autentico cazzo.

9) Sì, ma sono solo i vecchi che non conoscono l’inglese. È una minoranza. Non è che bisogna a tutti i costi accomodare gli anziani.

A parte il darwinismo spietato ed aberrante di gente che poi però magari strilla «DISCRIMINAZIONE!» appena c’è un filo di vento (immaginatevi la stessa mentalità discriminatoria con le persone su sedie a rotelle, o con la minoranza LGBT+. Sbagliato, vero?), questa è anche una visione elitista, classista e privilegiata da far vomitare.
Non sono solo gli anziani ad avere generalmente scarsa conoscenza dell’inglese, ci sono milioni di italiani che per ragioni socio economiche non hanno potuto studiarlo o lo hanno fatto in maniera limitata.
Non è che siccome mamma e papà si posson permetterti di farti fare la vacanza studio a Brighton o il corso privato o le ripetizioni d’inglese il pomeriggio, allora se lo possono permettere tutti. Moltissimi – moltissimi – non hanno i mezzi.

10) Sì, vabbè, ma che ci vuole. Ormai l’inglese lo impari andando su YouTube.
Sì, come no. Di nuovo, l’ignoranza. La bellezza di una lingua e di una cultura relegata a una cosa usa-e-getta da rigurgutare a pezzettini sulle reti sociali (i «social«). E questo è il cuore del problema dell’anglomania itanglese: l’abisso che esiste tra il far finta di sapere una lingua giocando a fare i fintomoderni per nascondere insicurezze e narcisismo, e il conoscerla veramente, con gusto, con coscienza, e parlandola quando ce n’è bisogno e con l’interlocutore adeguato.

11) Sì, ma comunque non è una priorità.
Questo è l’ultimo rifugio di chi a) sa di non avere argomenti o b) sa di avere torto. Quali sono le priorità? Chi le stabilisce? Non è che se uno è a favore di trasparenza, inclusione linguistica, e rispetto per utenti e interlocutori non possa occuparsi anche di altri temi più o meno pressanti, no? Del resto la filastrocca del non-è-una-priorità la si sente su tutto: dalla legalizzazione dei matrimoni dello stesso sesso alla proibizione degli stessi, dal nucleare sì al nucleare no, dal salario minimo al salario massimo, dai ai giochi della gioventù no ai giochi della gioventù sì, dalle nazionalizzazioni alle privatizzazioni. Tutto non è una priorità quando non si è d’accordo.

Se l’inglese fosse ungherese

Frammento di un articolo del Corriere della Sera /Corriere del Veneto: «Mio fratello Niccoló Ghedini, scapestrato in gioventù e insonne di talento», 19/08/2022.

Ci sono milioni e milioni di italiani che non hanno studiato l’inglese, oppure che lo hanno studiato poco, male e/o molto tempo fa. Per queste persone, la stragrande maggioranza di termini inglesi sono comprensibili quanto lo è la lingua ungherese.

Nell’immagine, abbiamo sostituito i termini inglesi usati dal Corriere della Sera, e comprensibili a un numero molto ristretto di lettori, con gli equivalenti in ungherese (lingua che, ci azzardiamo a dire, è sconosciuta virtualmente alla totalità degli italiani) per darvi un’idea di come si sente il lettore medio italiano dinnanzi ai continui schiaffi linguistici che si deve sorbire ogni volta che legge siti internet, giornali o riviste magazine, oppure ogni volta che guarda le notizie news, ascolta pubblicità, va a fare le spese shopping, o utilizza servizi pubblici.

L’incapacità di provare empatia verso milioni di potenziali lettori e utenti da parte di un numero notevole di giornalisti, pubblicitari e politici italiani non è solo stupefacente, ma è elitista da fare schifo.

Quando la preoccupazione di chi parla o scrive non è la comprensibilità per l’interlocutore, ma è invece il voler giocare a fare il figo internescional, sorge un problema grave di esclusione.

In altre parole, l’itanglese (o l’abuso sistematico di anglicismi in italiano) crea problemi di inclusione. Esclude, taglia fuori, discrimina, emargina, mette in difficoltà.

L’itanglese esclude

Milioni di italiani che non parlano l’inglese sono discriminati quotidianamente

Agosto 2022, l’Italia si trova nel pieno di una importantissima campagna elettorale. Ci sono decine di milioni di cittadini e residenti che non parlano l’inglese, oppure che lo conoscono poco e male.
Se una di queste persone volesse leggere i titoli dei giornali italiani per documentarsi, capire, decidere, si troverebbe molto in difficoltà.

Guardate l’immagine. Contiene ritagli di quotidiani italiani di tutti i colori: il Corriere, la Repubblica, la Stampa, il Giornale, Libero, Domani, il Manifesto, il Fatto. Si tratta di una brevissima raccoltà. Di esempi ne esistono a centinaia.

Osservate quanti titoli si appoggiano su anglicismi puri e, ne consegue, quanti concetti vengono espressi mandando la lingua italiana in soffitta. Abbiamo coperto le parole (pseudo)inglesi per dare a tutti un’idea di quanto sia difficile, per chi non conosce l’inglese, interpretare ciò che si legge.

In altre parole, per mostrarvi quanto sia esclusivo ed escludente il bombardamento continuo dell’itanglese da parte dei media italiani. Un comportamento discriminatorio particolarmente ipocrita, specialmente nell’era del termine inclusività sventolato a vanvera ogni 5 minuti.

Autore: Peter Doubt

Con parole precise

«Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso». AUTORE: Giovanni Bruni

Per una serie di circostanze fortuite, mi sono imbattuto in due manifestazioni del pensiero sul linguaggio: una inconsapevole, l’altra ben meditata; perfettamente contrapposte e quindi l’una causa dell’altra.

Gli annunci di lavoro sono un interessante laboratorio linguistico. Un individuo, che spesso par non sapere nulla della posizione organizzativa di lavoro al fine di coprir la quale cerca candidati, ambisce a fornire un quadro suggestivo e attraente del ruolo cercato. Deve farlo in poche righe di testo e, a giudicare dal risultato, la chiarezza e la precisione non sembrano requisiti essenziali: si oscilla tra il comico e il grottesco. La vittima principale di questo sovrumano sforzo creativo è proprio il linguaggio.
Ecco un esempio freschissimo, uno tra i tantissimi possibili:

Chi non vorrebbe essere ‘adibito all’hunting di clienti energivori’? Armato della propria insalata verbale schizofrenica, l’autore non fa prigionieri: inglesismi assurdi, tautologie topologiche, ostentazione di abbreviazioni e acronimi, aggettivi e verbi inesistenti o di derivazione informatica, punteggiatura lacunosa e perfino un sublime ‘e,’.

Potrebbe bastare, ma c’è una chicca finale: tra i motivi che inducono il solerte selezionatore (magari anche autore dell’annuncio) a cestinare immediatamente un curriculum vitae, qual è di gran lunga il principale?


Ovvero, per essere ancora più chiari:
Lo immaginiamo così: armato di penna rossa, subissato da quelli che si ostina a chiamare curricula perché non sa che in italiano il plurale dei termini stranieri si rende sempre e solo usando il numero dell’articolo che li precede, il Nostro si fa carico del gravoso compito di impedire che qualcuno vada a far danno in azienda con la propria ortografia zoppicante o, peggio, con la trascuratezza di colui che non rilegge quanto ha scritto.

Se ne deve dedurre che chi pubblica certi annunci di lavoro li ha perfino riletti?

La degenerazione del linguaggio è un indicatore preciso. Lo è come le parole di Gianrico Carofiglio, che, precedute da quelle perfette di Primo Levi, la precisione personificata, rispecchiano il mio pensiero:

Abbiamo una responsabilità, finché viviamo:
dobbiamo rispondere di quanto scriviamo,
parola per parola,
e far sì che ogni parola vada a segno.

(Primo Levi, Dello scrivere oscuro)

Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è un lusso da intellettuali o una questione accademica. È un dovere cruciale dell’etica civile. “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza”. Sono parole del filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali. Le società vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto cioè che dire qualcosa comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso. L’antidoto è la scrittura civile, cioè quella limpida e democratica, rispettosa delle parole e delle idee. Scrivere bene, in ogni campo, ha un’attinenza diretta con la qualità del ragionamento e del pensiero. Implica chiarezza di idee da parte di chi scrive e produce in chi legge una percezione di onestà. (…)
Ciascuno di noi dovrebbe prestare una cura disciplinata della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello (apparentemente) passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo. Anche perché solo parole che rispettino i concetti, le cose, i fatti possono rispettare la verità.