Educazione in inglese = più disuguaglianza

Uno studio accademico dalla Spagna denuncia un aumento drammatico del divario educativo nelle scuole con programmi bilingue.

Si parla sempre più spesso dell’imposizione di corsi di studio in inglese in Italia.
Ma se ciò debba prendere piede in Italia con zelo quasi religioso, sarebbe opportuno studiare gli effetti di programmi simili in altri Paesi.
In Spagna, dagli anni 2000, si sono sviluppati per legge «programmi bilingue» che iniziano dalla scuola elementare. Consistono nell’insegnamento integrale di alcune materie (generalmente scienze, geografia, biologia, e altre) in inglese.
Eppure, negli ultimi anni sono aumentate esponenzialmente le proteste sia da parte dei genitori che di maestri e professori. Le lamentele riguardano generalmente la mancanza di «utensili» didattici affinché tali materie vengano insegnate con efficacia. Il risultato è un vero e proprio fallimento. «Good-bye bilingüismo«, era il titolo di El Salto nel 2021, «cada vez más centros apuestan por el abandono de un modelo que consideran fallido«. «Arrivederci bilinguismo, sempre più scuole abbandonano un modello che considerano un fallimento».
Materie insegnate male, e apprese ancora peggio, demotivano intere classi, e allargano sempre di più il divario tra le famiglie con mezzi economici (che possono permettersi classi d’inglese private) e quelle meno privilegiate.
«Inglés sí pero no así«, «inglese sí, però non così», recitava uno striscione durante una manifestazione a Madrid contro il sistema scolastico bilingue.
In sintesi, molti professori non conoscono l’inglese o non lo conoscono abbastanza da poter insegnare interi corsi accademici. Molti alunni non colgono quello che viene insegnato in una lingua che non padroneggiano affatto, trovandosi in affanno sin dalla più tenera età riguardo anche alle nozioni più basilari da scuola dell’obbligo. Risultato? Non si impara né in spagnolo, né in inglese. Crollo del rendimento e aumento della segregazione scolastica.

Una nuova ricerca da parte di alcuni studiosi dell’Andalucía conferma tutto questo, denunciando in particolare il divario socioeconomico aggravato dal bilinguismo scolastico.
Quello che segue è la traduzione integrale di un articolo del quotidiano El País del 3 Ottobre 2023.

Il bilinguismo scolastico fallisce nel suo obiettivo di generalizzare l’apprendimento dell’inglese

Ignacio Zafra, El País, 03/10/2023


I programmi scolastici bilingue in inglese cominciarono a svilupparsi in Spagna all’inizio di questo secolo con l’obiettivo di migliorare la conoscenza di questa lingua nella popolazione. In buona parte delle regioni spagnole questo si fece con l’obiettivo dichiarato di incrementare l’uguaglianza, facilitando l’apprendimento dell’inglese per alunni di famiglie con meno mezzi economici, le cui famiglie avevano meno possibilità di pagare scuole di lingue o soggiorni all’estero. Un nuovo studio ha analizzato il caso mille scuole in 29 comuni dell’Andalucía con più di 50,000 abitanti. Le conclusioni sono che il risultato è molto differente dalle aspettative.

Le scuole bilingue si concentrano molto più in quartieri di clase media e alta. La loro presenza è molto minore nelle zone di clase operaia, e praticamente inesistente neio quartieri più poveri. Il programa bilingüe, che è volontario per le scuole, è presente il doppio (72%) nelle scuole “concertate” (semi-private, ndr), che nelle pubbliche (36%), tenendo in conto che sono queste ultime ad accogliere la maggioranza dei ragazzi di famiglie socioeconomicamente svantaggiate.

“I dati ci dicono che non solo non si sta realizzando questa pretesa livellatrice e di equità, ma che addirittura sta avvenendo il contrario”, afferma Alberto Álvarez-Sotomayor, professore di Sociologia dell’ Università di Córdoba e uno dei responsabili della ricerca, pubblicata la scorsa estate dalla rivista Language and education, in un articolo firmato anche da Ricardo Barbieri, dello stesso centro accademico, e da Juan Miguel Gómez-Espino, dell’Università Pablo de Olavide.

Álvarez-Sotomayor suggerisce una certa cautela con l’estrapolazione dei dati dato che ogni regione della Spagna ha il proprio programma che si sviluppa in maniera differente. Con dati comparativi per territorio un tanto obsoleti (sono del corso 2018-2019), Andalucía figura in una posizione intermedia riguardo allo sviluppo del bilinguismo, in una classifica che vede in testa la regione di Madrid e la Navarra. Simultaneamente però, i risultati della nuova ricerca sono coerenti con quelli ottenuti in altri studi. Tra questi, uno pubblicato nel 2019 e basato sui dati del dossier PISA per gli studenti della Comunidad de Madrid (regione di Madrid, ndr), ha concluso che “la probabilità di essere iscritto a una scuola bilingue è fortemente influenzata dal livello socioeconómico e socioculturale della famiglia, ed è maggiore per i bambini di classi sociali più agiate”. Un altro studio, effettuato anch’esso a Madrid e centrato su interviste con famiglie riflette il fatto che il programma funga da elemento di attrazione per determinate famiglie e da disincentivo per altre. Tra queste ultime, uno dei problema evidenziati dallo studio consiste nella convinzione, da parte dei genitori, che “per permettere ai figli di partecipare a una scuola bilingue bisognerebbe pagare lezioni extracurricolari d’inglese”, ovvero una barriera economica d’accesso e, per tanto, “un fattore di segregazione scolastica di tipo socioeconomico”.

La maggior parte delle ricerche realizzate fin’ora sul bilinguismo sono state fatte a Madrid e si sono concéntrate sull’impatto accademico dei programmi bilingue o sull’opinione della comunità docente al riguardo. Segnalano i ricercatori dell’Andalucía che si è fin’ora studiato poco l’effetto riguardo all’equità.

Il nuovo studio dimostra che le scuole bilingue sono ubicate soprattutto in zone scolastiche cittadine ― le zone tra le quali si divide un comune durante il processo d’iscrizione, dando priorità alla vicinanza al domicilio ― con i redditi più alti. È il caso in 26 dei 29 comuni analizzati dell’Andalucía. Nell’insieme, “il reddito medio delle stesse zone scolastiche, è negli istituti bilingue circa il 15% più alto delle scuole non bilingue”, concludono gli autori. La ricerca evidenzia anche che i bambini residenti in aree con disoccupazione più alta e età media più anziana hanno meno probabilità di formar parte di una scuola bilingue. Non si stanno avverando, conclude, Álvarez-Sotomayor, gli obiettivi di giustizia sociale che buona parte della legislazione del bilinguismo si era data per giustificare la sua esistenza, Nel caso della legislazione dell’Andalucía, approvata nel 2005, si sperava che fomentasse “la coesione sociale, l’equità e la solidarietà”.

L’abisso tra la proporzione di collegi pubblici e di quelli “concertati” che si sono iscritti al programma bilingue d’Andalucía richiede ulteriori ricerche, ammette il sociologo. “per esempio comparando i centri pubblici situati in zone meno abbienti di clase medio/bassa, con le scuole concertate degli stessi quartieri, che tendono a offrire bilinguismo in maggior proporzione”. Dovremmo vedere dunque quali incentivi vengono offerto da parte di entrambi affinché ciò accada”. Lo studio appena pubblicato dimostra che l’esistenza di un determinato centro scolastico bilingüe aumenta le probabilità che anche le scuole vicine lo siano. “La nostra ipotesi è che le scuole concertate possano aver adottato il programma bilingue come una forma di distinguersi all’interno del mercato locale nel quale competono, sia per poter attrarre, sia per poter mantenere alunni, come per potersi dare un profilo socioeconómico determinato”, afferma.

I ricercatori stanno per effettuare un altro studio che, secondo ciò che anticipa il sociologo, dimostra un ulteriore livello di disegualglianza del programma: la presenza di scuole bilingue è molto meno frequente nelle zone rurali che nelle urbane. Tutto cio, aggiunge, sembra legato al fatto che nelle zone rurali le scuole concertate sono quasi inesistenti.



«Aping», quando gli inferiori SCIMMIOTTANO

Una delle poche certezze della realtà contemporanea è il crollo qualitativo del giornalismo.
I motivi sono molteplici e non formano parte dell’ambito di CAMPAGNA PER SALVARE L’ITALIANO.
Eppure su di uno in particolare abbiamo il dovere di soffermarci.
Si tratta della mole di «articoli» che scopiazzano e scimmiottano pseudoconcetti visti su riviste e pubblicazioni spazzatura trash del mondo angloamericano. In questo, la Repubblica vince a mani basse. Non è l’unica testata a farlo, ma lo fa a ritmi industriali.

Si tratta di temi quasi sempre sentimentali e lo schema è sempre così: il titolo include una parola o concetto in inglese, seguito da una breve spiegazione in italiano. Ovviamente si tratta di termini per i quali esiste perfettamente un corrispettivo in italiano, giacché i comportamenti associati alla vita sentimentale o amorosa non costituiscono invenzioni o termini tecnico/specialistici.
E quindi la Repubblica si premura di spiegarci che il nuovissimo fenomeno chiamato ghosting significa che il fidanzato non ti dà retta, ti ignora o ti caga a spruzzo. Oppure che lo sleep divorce è il termine tecnico quando si dorme separati.
Insomma, un arricchimento culturale e linguistico che in confronto Luigi Pirandello e Umberto Eco erano Pierino La Peste Alla Riscossa.

Il paradigma è sempre lo stesso, tipo: «Anglo-aping: come i quotidiani italiani scimmiottano qualsiasi idiocy dal sapore angloide«. Oppure: «Colonised, quando l’intera redazione di Repubblica vorrebbe disperatamente essere una colonia britannica«. O magari anche: «Inferiority complex: come il giornalismo italiano si nutre del trash angloide e ne rigurgita le parole«. Magari un giorno la Repubblica ci informerà che fa aping, «ovvero scimmiotta».
Nel frattempo, #cosìmuoreunalingua.

Annunci di lavoro: il cimitero dell’italiano

La rapida morte della lingua italiana nel mondo aziendale

di Peter Doubt*

«Tranquilli, l’italiano è in buona salute«, afferma il nuovo Presidente CEO dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille. E non è il solo. Sono anni che sentiamo parlare di «vitalità dell’italiano«, o che «l’italiano sta bene«, «sano e vitale«, che «la lingua italiana è vispa«, che «non bisogna fare allarmismi«, e tante altre frasi che, in quanto a diniego e deliri di ottimismo, darebbero del filo da torcere a Candido di Voltaire o, se preferite una referenza più contemporanea, a SpongeBob.

La questione non è che ci sarebbe bisogno di condannare o abiurare la rapida creolizzazione / ibridizzazione dell’italiano. Perché ad alcuni potrebbe persino, legittimamente, piacere. Quello che è davvero stupefacente è come si possa sonnecchiare e far finta che non stia succedendo nulla (al limite della negligenza professionale) di fronte a un fenomeno di dimensioni titaniche.

Per esempio, verrebbe voglia di chiedere alla classe linguistica italiana da quanto tempo è che non danno uno sguardo alle inserzioni di lavoro in Italia o al modo di comunicare di una qualsiasi azienda italiana. Perché sono in atto due fenomeni dalla portata gigantesca, e non saranno né la solita e superficialissima reductio ad absurdum con le mani nelle orecchie del tipo «e che dobbiamo fare, dire pellicola invece di film?», né gli iperbolici riferimenti al «ventennio» a far andar via la realtà.

Per primo, si noti la vera e propria abdicazione della lingua italiana dalle definizioni dei ruoli aziendali e mansioni. Parliamo di proporzioni assurde lungo una scala temporale rapidissima.
Nel giro di vent’anni sono sempre di meno (e sempre più una sparuta minoranza) lavori e professioni definiti in italiano – attenzione – in TUTTI i settori, non soltanto l’informatica IT.
E prima che si innesti il solito meccanismo di diniego, no, non ci riferiamo solo a multinazionali che operano in Italia. Succede a tutti i livelli, dall’ hairstylist (parrucchiere) al barman (barista, quest’ultimo paradossalmente in ascesa nel mondo anglosassone ), dal CEO (Direttore responsabile o Presidente) al accountant (ragioniere), e dal train manager (capotreno) all’editor (redattore), alla shop assistant (commessa), al rider (versione in inglese farlocco di fattorino/garzone), o al Press Office Manager (capo ufficio stampa), per non parlare dello pseudoinglese del Board (con tanto di «of Directors» sistematicamente troncato), ovvero il consiglio d’amministrazione, e dell’onnipresente HR invece di risorse umane. L’immagine qui sotto è presa da una agenzia italiana, per ruoli in Italia, in imprese italiane. Potete contare le parole in italiano su una mano.

Si deduce la presenza di un elemento paralinguistico. La lingua superiore, quella che agli italiani fa eccitare anche se non la capiscono, compie la funzione di nobilitare le professioni, di darle un tocco in più, perfettamente in linea con l’era del narcisismo con gli steroidi di cui facciamo parte. Resta la sensazione, vista da fuori (chi vi scrive non vive in Italia), che gli italiani si vergognino di chiamare le cose con il proprio nome, nella propria lingua, anche se stanno parlando tra loro stessi.

Tale anglocosmesi non si riferisce semplicemente al nome delle professioni. E qui veniamo al secondo punto: gli annunci o offerte di lavoro, sempre più saturate di (pseudo)anglicismi, in alcuni casi rasentando l’autoparodia.

Il lettore che abbia un po’ di dimestichezza con la rete sociale LinkedIn (o con qualsiasi sito o agenzia con offerte di lavoro), avrà visto come la lingua italiana stia fungendo sempre di più da «contenitore» per concetti chiave espressi inevitabilmente in (pseudo)inglese. E non si tratta affatto di tecnicismi. Termini perfettamente validi quali selezione, reclutamento, progettazione, quartier generale, rete, specialista, ingegnere, assistente, direttore, seguito, filiale, formazione, libropaga, dettaglio e centinaia d’altri, sono in fase di sostituzione, di rapidissima ritirata, lasciando il campo a un uragano di (con maiuscole spesso buttate lì a casaccio) talent acquisition, specialist, headquarters, engineer, retail, assistant, project manager, branch director, network, content creator, upskilling, engagement, payroll e così via.

Ora, come sempre non si può negare la portata globale del fenomeno. Negli stessi Paesi anglosassoni si nota sempre di più la correlazione interessantissima tra caduta libera delle condizioni di lavoro (con relativo aumento di precarietà) e simultaneo mutamento delle denominazioni di ruoli e settori professionali: un elemento, appunto, di «cosmesi» secondo il quale recruitment ora si dice Talent Acquisition, un semplice secretary diventa Assistant Director, un receptionist si converte in Office Manager, e vari schiavi o semitali assumono il ruolo altisonante di HRBP (Human Resources Business Partner), VP di qualcuno o qualcosa, per non parlare dei vari Visiting Professor, SDR, Sales Reps, Customer Service Assistant, e così via. Professioni da nomi pomposi accompagnati da una realtà molto più deludente (e sempre più precaria). In pratica, la normalizzazione di eufemismi professionali, spesso effettuata a colpi d’acronimo, e a cui tutti (imprese concorrenti e lavoratori) si adeguano rapidamente, terrorizzati dalla possibilità di apparire obsoleti, ovvero uncool – cosa che nel mondo anglosassone è considerata peggio del fuoco degli inferi, da veri e propri reietti umani.

Ciò che distingue l’Italia è che la corsa alla cosmesi e alla comunicazione ingannevole dentro il mondo aziendale sta avvenendo in un’altra lingua, in (pseudo)inglese, rendendo il distacco tra realtà e finzione ancora più sorprendente e surreale. Se il problema fosse solamente l’assenza di senso del ridicolo, non staremmo qui a perdere tempo. La sostanza è che quasi a nessuno gliene frega del fatto che ampie fasce della lingua italiana – e dunque della cultura italiana – si stanno beccando randellate così forti e continue da condannare centinaia di termini all’obsolescenza quasi immediata, escludendo nel contempo dalla comunicazione milioni di italiani.

L’immagine qui sotto mostra l’irruzione di intere locuzioni inglesi o pseudoinglesi nella comunicazione, un goffo minestrone non solamente dalle sfumature comiche o addirittura deliranti, ma spesso anche di difficile comprensione anche per persone con conoscenza dell’inglese madrelingua o bilingue. Alla faccia dell’inclusione.
#Cosìmuoreunalingua

*L’autore Peter Doubt è co-fondatore di Campagna per salvare l’italiano. Di doppia cittadinanza italiana e britannica, è traduttore e interprete inglese/spagnolo/italiano e vive in Spagna da quasi 17 anni.

Le crusche nuove della parola

Accademia della Crusca o Becchini della lingua italiana?

[articolo parodia]

«Alcuni lettori ci chiedono informazioni a proposito del forestierismo green.

Il sostantivo green, entrato ormai da tempo nel lessico italiano tanto da essere registrato nel Dizionario #Vogliadiesserecolonia già dall’anno 2006 è uno dei forestierismi più difficili da tradurre.

Proveniente dal germanico ecc…[segue filippica di 750 paragrafi dall’effetto ubriacante – NdR.]

Va infatti detto che, sebbene in italiano esistano parole simili, stanno tutte diventando obsolete [anche grazie alla nostra passività, – NdR].

Per cui dall’Accademia della Crusca, ora procederemo a spiegare e certificare perché alla fine green si stia utilizzando sempre di più [lungi dal promuovere qualsiasi azione che possa rafforzare l’italiano e promuoverne l’uso, come alternativa all’abuso imperante di [pseudo]anglicismi – NdR].

Alcuni lettori suggeriscono che il vecchissimo «verde», che qualcuno ricorderà ancora utilizzato verso la fine del XX sec, andrebbe bene. Purtroppo però, se usato in una traduzione, «verde» può confondere i lettori italiani, ormai abituati a green.

Si pensi a green chic per esempio, o prodotto green. Assolutamente intraducibili [ha ha- NdR].

Green ha una struttura molto più complessa [leggi = è superiore perché è inglese – NdR]. Si pensi agli altri significati, come per esempio [più o meno eh, perché l’italiano non rende tanto quanto il flessibilissimo e superiore inglese NdR] ecologico, ecologista e ambientale. Persino immaturo e fresco, dipendendo dai contesti.
Tali sfumature linguistiche possono portare a confusione e ambiguità, per cui chiaro che trionfa green, che è molto più elastico.

Tra l’altro le parole suddette sono ormai poco comprese dagli italiani [lo sentenziamo noi senza spiegare il perché – NdR], per cui volete mettere? Una parola sola con 12 significati contro le imprecisioni di definizione nei termini derivati?
E allora, un sol colpo e BAM!!! Abbattute a schiaffoni d’itanglese verde, ambientale, ambientalista, ecologista, ecologico, ecologia, ambiente, natura, e altri.
Come lokeiscion, sterminatore di luogo, posto, ambientazione, spazio, posizione, luogo [e finanche quasi carta igienica – NdR].
O smart, che ormai si usa anche per dire che ammazza che lucida che sta la nonna a 90 anni.
Tutti esempi di vero arricchimento linguistico.

Ed eccoci qui, pronti per certificarlo, ricordando ai lettori che la Crusca non boccia né promuove, si limita semplicemente a descrivere.

Firmato: I Becchini della Lingua Italiana

11 supercazzole itanglesi

La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita

Recentemente un membro della Campagna per Salvare l’italiano faceva notare che «La fantasia delle supercazzole degli itanglesi per giustificare quanto siano cazzari è infinita». Eccovene alcune:

1) Sí, ma la parola italiana è cacofonica, in inglese suona meglio.
Questo l’ha detto un angloinvasato giustificando l’uso sempre più smodato (nonché escludente e discriminatorio) di cartelli per denominare certi reparti ospedalieri come STROKE UNIT o BREAST UNIT.
Cioé, avete capito. Cacofonico sarebbe utilizzare parole come «senologia» o «reparto» e non stroke, breast o unit, che tra l’altro milioni di italiani non saprebbero pronunciare o riconoscere per bene.
Senza contare la pochezza mentale, narcisismo ed egocentrismo di chi, dall’alto [presunto] del suo giocare a fare l’internescional fornisce patenti di cacofonia a parole italiane perfettamente usate ed utilizzabili.

2) Sí, ma standing ovation non è proprio lo stesso di ovazione
Perfetto esempio del non-è-proprismo tipicamente italiota, per citare Antonio Zoppetti.
Quando vogliono loro gli angloinvasati alla precisione scientifica ci tengono. Poi però magari parlano di «droplet», a cazzo.

3) Sí, ma è chiaro che ci sono tante parole inglesi, le invenzioni, il digitale e la tecnologia, no?
Ebbè, chiaro. E allora non facciamo prima ad abolirle le traduzioni?
Del resto, se così fosse, invece di dire lampadina gli italiani direbbero lightbulb. Invece di automobile, motorwagen (dal tedesco Carl Benz). E così via con antibiotics, le réfrigérateur, fregasuelos, telephone, wagonways e microwave.
Eppure no, perché quando quelle invenzioni ebbero luogo, la lingua italiana era ancora viva, elastica, capace di adattare, riadattare ed evolversi. Al contrario di oggi, rattrappita, che non adatta e non si evolve, ma scopiazza, sostituisce e prende in prestito, anche se male.

4) Sí, ma fanno tutti così, anche negli altri Paesi
No, non è vero. Dirlo è, se va bene, da ignoranti con scarsa capacità d’osservazione e, se va male, intellettualmente disonesto. A parte il semplice visitare e vivere fuori dall’Italia, ci sono TONNELLATE di esempi che indicano il contrario, e lo indicano alla grande. Guardate la nostra analisi comparativa dei quotidiani europei, ma anche questo, questo, e – più recentemente, il trattamento riservato alla lingua italiana, unica ad essere sostituita in copertina tra le edizioni europee del libro di Harry Windsor. L’abuso di [pseudo]inglese nell’Italia di oggi è solamente secondo alle ex-colonie britanniche. Se dovete farlo, almeno non fate finta che non sia vero, altrimenti sono solo supercazzole.

5) Sì, ma in Spagna traducono perché è un retaggio di Franco
Questa è del poveraccio che crede di fare il colto con il riferimento politico/storico, senza sapere di essere ignorante come una scarpa. La dittatura di Franco mise in piedi politiche discriminatorie linguistiche verso le altre lingue del territorio spagnolo (basco e catalano, per esempio). Non c’era alcuna restrizione verso i forestierismi e lingue esterne ai confini spagnoli. Il fatto che gli spagnoli non facciano figure da tamarri credendo d’essere fighi con smart working e recovery vari non c’entra assolutamente un belin con il franchismo. Leggete, informatevi, non fate gli emancipati da reti sociali (social), che se no sono solo supercazzole.

6) Sì, ma le lingue non si possono controllare artificialmente
Chi lo dice è spesso un sostenitore convinto dell’abolizione forzata, magari per decreto, dei generi grammaticali, che si tratti di asterischi, scevà (/ə/) o altri artifici. O si strappa i capelli sull’uso volontario della parola Presidente o Presidentessa.

7) Sì, ma questo è fascismo. E infatti è quello che fece Mussolini durante il Ventennio fascista
No. Politiche linguistiche con spettro diverso di salvaguardia esistono oggi in quasi tutti i Paesi europei.
In genere si tende a citare la Francia e la famosa Legge Toubon, ma ci sono politiche linguistiche vigenti in Paesi perfettamente democratici come Irlanda, Croazia, Finlandia, Spagna, Portogallo, Galles, Austria, Belgio, e molti altri. Tra trasparenza, protezionismo, e garanzie per usuari e consumatori, leggi sulle lingue nazionali esistono ovunque.
Non le ha inventate Mussolini, così come non inventò lui acquedotti e bonificazioni di paludi.
Il buon senso, l’inclusione e la trasparenza non vanno tirate nel cesso con la scusa di interpretazioni sbilenche di leggi sbilenche (dunque doppio sbilenco) di 100 anni fa.
Oh, e dato che ci siamo, qualcuno ha mai conosciuto un vegetariano che ha smesso di esserlo perché lo era anche Adolf Hitler?
Per la cronaca, in Portogallo si susseguono da anni governi socialcomunisti. Ci sono leggi molto specifiche non solamente sulla promozione della lingua portoghese, ma anche sull’obbligatorietà di utilizzare il portoghese da parte di istituzioni educative e media (con persino quote di programmi in lingua nazionale), nonché di tradurre etichette commerciali e pubblicità.
Anche la Spagna ha un governo socialcomunista. Dal 2013 esiste la «Ley de Transparencia» che obbliga tutti gli enti pubblici o a partecipazione pubblica, dalla Famiglia Reale al più piccolo dei municipi, a comunicare in spagnolo (o catalano, basco e gallego).

8) Sì, dov’è il problema, ormai l’inglese lo capiscono tutti.
Allerta: davanti a te c’è un narcisista professionista con pochissimo tatto verso gli altri.
Siccome lui o lei parla o capisce l’inglese, allora automaticamente non ci si deve ponere il problema.
Ci sono dei poveracci che dicono che il titolo Spare, del libro del Principe Harry (anzi Prince Harry, nell’edizione italiana) sia comprensibile a tutti. Ma bisogna essere davvero dei caproni egocentrici per credere che 60 milioni di italiani colgano il significato di Spare e che lo sappiano pronunciare.
Senza contare, attenzione (!), che l’itanglese con cui vengono presi a schiaffi milioni di italiani affinché alcuni politici, giornalisti, *menager*, pubblicitari e inserzionisti di LinkedIn possano soddisfare i loro bisogni onanistico-narcisisti, ha ben poco a che vedere con la conoscenza dell’inglese. E infatti molto spesso d’inglese non capiscono un autentico cazzo.

9) Sì, ma sono solo i vecchi che non conoscono l’inglese. È una minoranza. Non è che bisogna a tutti i costi accomodare gli anziani.

A parte il darwinismo spietato ed aberrante di gente che poi però magari strilla «DISCRIMINAZIONE!» appena c’è un filo di vento (immaginatevi la stessa mentalità discriminatoria con le persone su sedie a rotelle, o con la minoranza LGBT+. Sbagliato, vero?), questa è anche una visione elitista, classista e privilegiata da far vomitare.
Non sono solo gli anziani ad avere generalmente scarsa conoscenza dell’inglese, ci sono milioni di italiani che per ragioni socio economiche non hanno potuto studiarlo o lo hanno fatto in maniera limitata.
Non è che siccome mamma e papà si posson permetterti di farti fare la vacanza studio a Brighton o il corso privato o le ripetizioni d’inglese il pomeriggio, allora se lo possono permettere tutti. Moltissimi – moltissimi – non hanno i mezzi.

10) Sì, vabbè, ma che ci vuole. Ormai l’inglese lo impari andando su YouTube.
Sì, come no. Di nuovo, l’ignoranza. La bellezza di una lingua e di una cultura relegata a una cosa usa-e-getta da rigurgutare a pezzettini sulle reti sociali (i «social«). E questo è il cuore del problema dell’anglomania itanglese: l’abisso che esiste tra il far finta di sapere una lingua giocando a fare i fintomoderni per nascondere insicurezze e narcisismo, e il conoscerla veramente, con gusto, con coscienza, e parlandola quando ce n’è bisogno e con l’interlocutore adeguato.

11) Sì, ma comunque non è una priorità.
Questo è l’ultimo rifugio di chi a) sa di non avere argomenti o b) sa di avere torto. Quali sono le priorità? Chi le stabilisce? Non è che se uno è a favore di trasparenza, inclusione linguistica, e rispetto per utenti e interlocutori non possa occuparsi anche di altri temi più o meno pressanti, no? Del resto la filastrocca del non-è-una-priorità la si sente su tutto: dalla legalizzazione dei matrimoni dello stesso sesso alla proibizione degli stessi, dal nucleare sì al nucleare no, dal salario minimo al salario massimo, dai ai giochi della gioventù no ai giochi della gioventù sì, dalle nazionalizzazioni alle privatizzazioni. Tutto non è una priorità quando non si è d’accordo.

Dialettizzazione dell’italiano, esempio 5629

Quando una lingua diventa incapace di esprimere concetti senza appoggiarsi a un’altra retrocede a dialetto.

Uno dei nostri amici e lettori ha indicato un altro esempio di dialettizzazione dell’italiano.
Di questi tempi va di moda un concetto nato in Giappone, 森林浴, «Shinrin Yoku«.

In Italia ha fatto irruzione con il termine inglese, «Forest Bathing», riportato in maniera bulimica dai media nazionali.
Guardate come una delle supercazzole più frequenti degli anglomaniaci, quella secondo cui la valanga di [pseudo]anglismi sia dovuta alle creazioni o invenzioni del mondo angloparlante (cioè addio traduzioni), si rivela – appunto – una supercazzola.

Perché non esiste alcuna altra spiegazione, a parte #vogliadiesserecolonia, anglo-onanismo, e la conseguente retrocessione dell’italiano a dialetto (un vernacolo che tra qualche decennio servirà solo per chiedere alla nonna se il sugo è pronto), per giustificare l’importazione di un concetto giapponese, in Italia, in lingua inglese.

Ma ecco che si ode l’altra supercazzola, quella del così-fan-tutti, è-la-globalizzazione. Eppure «Forest Bathing» in Francia viene reso con Sylvothérapie, in Spagna con baño de bosque, in Portogallo con banho de floresta, in Germania Waldbaden.

In Italia no. La lingua italiana si sta indebolendo a tal punto che qualsiasi concetto nuovo o importato, persino da una lingua terza, non riesce ad essere assorbito, di riflesso viene reso solo e soltanto nella «Lingua Superiore», l’inglese.

Gli esempi più ovvi sono quelli della pandemia, dove concetti non assolutamente di origine anglosassone – e che infatti tutti i Paesi hanno espresso istintivamente nella loro lingua – in Italia sono stati resi in inglese, vero o farlocco: lockdown, green pass, droplet, hub, drive-in covid, covid manager, cluster, recovery fund e tanti altri.

Lo ripeteremo fino alla nausea: è stupefacente come questa rapida atrofizzazione dell’italiano, questa incapacità di creare e di aggiornarsi, questa dipendenza sempre più patologica dalla lingua [pseudo]inglese stia avvenendo tra il disinteresse più totale.

(Auto)colonia linguistica e Principe Harry

Un giochino per i nostri amici e lettori

L’attuale profonda incertezza economica, tra guerre, inflazioni e imprese che cadono come birilli, non è nulla in confronto – secondo i nostri brillanti media – all’importanza dell’autobiografia del Principe Harry Windsor, appena pubblicata.

La nostra cinica lente linguistica ci suggerisce di fare un giochino chiamato #vogliadiesserecolonia.
È dedicato a tutti gli anglo-onanisti che si nascondono dietro le supercazzole quali «fanno-tutti-così» e «l’-abuso-dell’-inglese-è-inevitabile-è-dovuto-al-digitale-e-la-tecnologia«.

Guardate le edizioni in (ordine sparso): tedesco, portoghese, spagnolo, italiano, francese e rumeno. Quella britannica è la foto grande a destra.Vediamo se riuscite a indovinare qual è l’edizione italiana.



Voglia di essere colonia. Ma di chi e di cosa? (3)

La 3ª parte della nostra analisi sui complessi d’inferiorità degli italiani del secolo XXI verso qualsiasi cosa «British» (cibo a parte). Di Peter Doubt

[LEGGI LA PRIMA PARTE]
[LEGGI LA SECONDA PARTE]

6. Ma in Inghilterra c’è uno stato sociale ottimo.
Sì, come no.
E Bruno Conti è la nuova stella della Roma, e il Presidente del Consiglio in Italia si chiama Aldo Moro.
Bisogna anche aggiornarsi sulle cose, e lo stato sociale in Gran Bretagna è da molti anni ridotto ai minimi termini, spesso con condizioni punitive e storie d’inefficienza e crudeltà sufficienti per ispirare capolavori cinematografici di realismo contemporaneo.
Il Regno Unito è, in maniera crescente, uno dei Paesi più diseguali d’Europa, e dove la povertà sta diventando sempre più rapidamente un tema di emergenza nazionale. Già nel 2017, fece scalpore un rapporto dell’UNICEF che indicava il Regno Unito come uno dei Paesi peggiori del mondo per la povertà infantile (e altri indicatori, tra cui la violenza sessuale sulle minorenni). Le cose sono peggiorate moltissimi negli ultimi cinque anni.
Secondo un rapporto di Trussell Trust UK, l’utilizzo delle foodbanks (luoghi di carità in cui il cibo viene donato a chi ne ha bisogno – se esiste la traduzione in italiano, per favore indicarla nei commenti) è quasi raddoppiato negli ultimi 5 anni. Oltre 2 milioni di persone riescono a dare da mangiare ai propri figli solamente grazie a tali aiuti volontari. Sempre più spesso chi ne usufruisce è gente che lavora, persino infermieri e insegnanti, ma che per colpa di stipendi inadeguati, affiti o mutui proibitivi, nonché montagne di debiti, non ce la fa.
Con l’aumento esponenziale del costo della vita nel 2022, sono persino arrivate le warm banks, luoghi finanziati da diversi enti di beneficenza dove i tanti britannici che non possono permettersi il riscaldamento a casa vanno a trascorrere gratuitamente alcune ore al caldo. Sul serio.



7. Debiti?
Sì, certo. L’intera economia britannica si basa da decenni su denaro virtuale, che si tratti di mutui, prestiti o vari trucchi finanziari, quella che già nel 2007, prevedendo (correttamente) una prossima e gravissima crisi economica, l’autore ed economista Larry Elliott definiva «economia delle cazzate» («Bullshit economy«). I debiti sono parte integrale del tessuto sociale britannico. Appena compi 18 anni le banche insistono nel prendere appuntamento con te per darti una carta di credito e/o un prestito, anche se non lavori, o lavori a tempo parziale, oppure precario (cioè quasi sempre a quell’età). Specie tra i meno anziani, il Regno Unito continua ad essere uno dei Paesi europei con più debiti privati (household debts), e addirittura, fino alla crisi del 2008/9 – quando anche nel resto d’Europa le cose iniziarono a prendere una certa piega – conteneva 2/3 dei debiti privati di tutta l’UE, secondo uno studio di Money Charity con uSwitch. Un rapporto ufficiale del Parlamento britannico indicava che il debito in proporzione al reddito delle famiglie era passato dall’ 85% nel 1997 al 148% nel 2008! In media, un adulto britannico possedeva nel 2006 almeno 4 carte di credito.
Essere in debito in GB è normalissimo. Leggiti la seconda parte di questa serie (il Punto 4, sui debiti universitari). E se si considerano i mutui e affitti stratosferici, si capisce perché è considerato totalmente normale per la gente utilizzare credito per pagare nei pub, dal dentista, per fare la spesa. Poi però arriva il punto di non ritorno.



8. Vabbè, ma almeno hanno governi stabili
Purtroppo non vale neanche più questa affermazione. Era vero, anzi verissimo, fino a pochi anni fa, che i governi britannici fossero generalmente stabili e duraturi. Ed era almeno questo un tema in cui, innegabilmente, i britannici avevano buon gioco a burlarsi della fama mondiale dei continui cambi di governo e dell’instabilità in Italia. Oggi le cose sono cambiate alla grande. Se nei 27 anni tra il 1979 e il 2016 il Regno Unito ebbe 5 Primi Ministri (Thatcher, Major, Blair, Brown, Cameron), solamente negli ultimi 6 anni ce ne sono stati altrettanti (Cameron, May, Johnson, Truss e Sunak), di cui – e forse è un primato mondiale – addirittura tre negli ultimi tre mesi. Questo non per cause fortuite come decessi o infortuni, ma per continue e profonde crisi politiche che stanno dilaniando il Paese.
Solamente 10 o 15 anni fa sarebbe stata inimaginabile l’attuale rissosità di tutto il sistema politico britannico. Le faglie iniziarono con gli scalpiti indipendentisti scozzesi, ma sono poi esplose con il referendum sul Brexit (2016) portando l’intero sistema in fibrillazione con una crisi costituzionale dopo l’altra (tra cui segnaliamo la polemica sospensione del Parlamento nell’Agosto 2019, poi dichiarata illegale dalla Corte Suprema, il dilemma su un nuovo referendum in Scozia, e la crisi permanente in Irlanda del Nord), scandali politici continui, purghe interne ai due maggiori partiti e un clima d’incertezza mai visto prima.
Solamente un confronto tra le sessioni della Camera dei Comuni fino a qualche anno fa e quelle post-2016 rivelano un deterioramento spaventoso (e un aumento di aggressività e caos) nel dibattito politico britannico.
A parte gli anni tremendi del terrorismo irlandese (quando furono assassinati 4 deputati – tra il 1979 e il 1990), nessun deputato britannico aveva mai sofferto un omicidio dai tempi di Re Giorgio V (1922). Ecco, dal 2016 in poi sono stati uccisi i deputati Jo Cox, (deputata laburista, accoltellata da un fanatico di estrema destra), e nel 2021 David Ames (conservatore, pugnalato da un integralista islamico). Si teme che il clima attuale possa portare ad altri spiacevoli episodi.



9. Si ma vuoi mettere i costi della politica in Italia?
Di nuovo, la classe politica italiana non si copre di gloria, ma è stupefacente il continuare a credere che la Gran Bretagna sia un modello da seguire. L’ex PM Liz Truss, in sella solamente per 6 settimana, riceverà ora £115,000 all’anno a vita (a parte lo stipendio da parlamentare e quello accumulato quando era ministra). Un deputato della Camera dei Comuni guadagna attualmente £7000 al mese (l’equivalente di quasi 8000€) più spese. In Italia sono circa 5500€ al mese più spese. Che magari saranno un lusso, ma che non spiegano il vizio italiano di ripetersi tra di loro di essere sempre i peggiori.
Il Regno Unito è l’unico Paese occidentale ad avere una delle due camere legislative (la Camera dei Lord) interamente non eletta. Ci sono oltre 800 membri della Camera dei Lord (il numero varia a seconda dei momenti, non esistendo un limite legislativo), per il quale si tratta della seconda camera legislativa più grassa del pianeta (seconda solo all’Assemlea Popolare della Cina), con costi pazzeschi.
Ma c’è di più. I membri sono un misto di nominati da successivi Primi Ministri per restituire favori e premiare lealtà. Per capire l’andazzo, tra i 20 maggiori donatori al Partito Conservatore dal 2010, 11 sono stati nominati Lord. L’ex PM Boris Johnson ci ha inserito suo fratello Jo e il padre Stanley. Vi rendete conto? Immaginate Berlusconi o Grillo che nominano (non che li fanno eleggere, li nominano) a parlamentari un fratello e il padre.
E prima che qualcuno inizia gridare destra/sinistra, non è esclusiva dei conservatori. Le cose non andavano certo meglio durante i 13 anni di governi laburisti. Nel periodo 1997-2010, Blair e Brown nominarono 408 Lord. Tra questi figuravano amici di scuola di Blair, ex-compagni di casa dei tempi dell’università, nonché ovviamente i suoi lacchè più leali durante i suoi anni al governo e finanziatori vari del Partito Laburista. Se non bastasse, la Camera dei Lord si completa con 92 duchi, baroni e visconti seduti lí (quando ci vanno, l’assenteismo è endemico) per motivi ereditari, ovvero per privilegi di nascita, e una spruzzata di circa 25 vescovi nominati a vita della Chiesa anglicana. Regno Unito culla della democrazia? Ma fate il favore.


[VAI ALLA PRIMA PARTE]
[VAI ALLA SECONDA PARTE]
[CONTINUA CON LA QUARTA PARTE (ancora non pubblicata)]

*L’autore Peter Doubt è un traduttore/interprete (spagnolo-inglese-italiano) con doppia cittadinanza britannica e italiana. Ha vissuto in Inghilterra fino ai 29 anni.

Voglia di essere colonia. Ma di chi e di cosa? (2)

La 2ª parte della nostra analisi sui complessi d’inferiorità degli italiani del secolo XXI verso qualsiasi cosa «British» (cibo a parte). Di Peter Doubt*.

CLICCA QUI PER LEGGERE LA 1ª PARTE

L’adorazione italica verso qualsiasi cosa «British» non conosce limiti.
Continuiamo con la nostra converseiscion virtuale con l’anglomaniaco medio dell’Italia del sec.XXI.

3. D’accordo, il crimine e gli inglesi ubriaconi, però lí le persone hanno un’educazione molto migliore. Vuoi mettere con le scuole e le università italiane?
Di nuovo, i complessi d’inferiorità.
Quanti italiani conoscono lo stato fatiscente delle scuole d’oltremaniche? Sanno che per raccogliere i fondi per riparare tetti e finestre è di costume organizzare lotterie e sorteggi a premi («raffles«, le chiamano) tra le famiglie?
Per non parlare dei continui episodi di ultraviolenza scolastica riportati con sempre più frequenza, con aggressioni a professori ormai considerate ordinarie, con il risultato che il livello di stress degli insegnanti (e dunque di abbandono della professone) continua ad aumentare di anno in anno?
Nel 2016, un’analisi pubblicata dal sindacato Unison, rivelò che il 53% di assistenti educativi («Teaching Assistants«) in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord ha sofferto aggressioni fisiche da parte di studenti. Nell’Ottobre del 2022, l’associazione dei presidi scolastici ha fatto un appello per fermare l'»esodo» degli assistenti educativi. Un titolo del Guardian riportava: «Assistenti educativi lasciano le scuole per lavorare nei supermercati a causa di stipendi barzelletta«.
Nel 2019, uno studio di Education Support indicò che il 78% del personale educativo del Regno Unito soffre di problemi mentali o fisici dovuti al lavoro.
Nel 2021/22 la percentuale di abbandono del lavoro da parte di maestri e professori è aumentata del 12,4% rispetto al 2020/21.

4. Sí, ma le università sono ottime.
Sono rinomatissime, questo sì. Ma andiamo oltre giudizi superficiali, obsoleti, e distorti.
Fino all’anno 1998 le università britanniche erano gratis. Poi – a parte la Scozia – fu introdotta la retta di £1,000 all’anno, per tutti. Nel 2004 il governo di Tony Blair le triplicò (£3000 all’anno), e nel 2010 la coalizione Conservatori/LibDems (questi ultimi dopo aver fatto campagna elettorale promettendo di abolirle) le portò a livelli pazzeschi: £9000 all’anno. Oggi la tariffa annuale è di £9250, cioè circa 10700€ (ve lo immaginate anglomani italiani?).
Alla grande maggioranza degli studenti vengono concessi facili prestiti per potersi iscrivere, con quantità facilmente aggiunte per altre spese (per esempio discoteca, feste e compere).
Sono cifre senza eguali in nessun Paese europeo. E, con l’eccezione delle rinomate università di Oxford e Cambridge (e determinate facoltà specializzate in altre università), si tratta spesso di corsi di qualità spesso molto discutibile. Ripetere esami nelle università britanniche è praticamente impossibile. A parte l’eccezionale permissivismo, nessuna università – disperate come sono per accaparrarsi quanti più alunni paganti possibili – vuole farsi un cattivo nome con percentuali proibitive di promozioni.
In generale per i ragazzi britannici è una esperienza divertentissima. È tradizione andare all’università in un’altra città, con il risultato che, da un giorno all’altro, migliaia di diciottenni o diciannovenni cedono alla tentazione di feste, festini e ubriacate varie (ovviamente finanziate a suon di prestiti e carte di credito, ne parleremo tra qualche giorno), organizzate spesso con tecniche commerciali eccezionali. Uno dei riti consiste nelle ubriacature, risse e vomitate industriali durante la settimana del debutto all’università (Fresher’s Week). L’esperienza accademica del tipico studente britannico è più ClubMed che L’Attimo Fuggente, per quanto agli italiani piaccia pensare ai campus d’oltremanica nello stile un po’ magico e un po’ austero di Harry Potter.
Nel frattempo, il risultato consiste in livelli esorbitanti di debiti privati accumulati (che non verranno quasi mai interamente ripagati) che sarebbero inimmaginabili altrove già all’età di 18,19 anni. In Inghilterra, un tipico laureato di 21 anni si trova tranquillamente con £45,000 di debiti sulle spalle. Una prospettiva allettante, per una laurea che probabilmente gli servirà per lavorare al servizio clienti della Vodafone. Nel frattempo, dato che a causa degli esigui redditi dei laureati, 3/4 di questi prestiti non verranno mai ripagati (cifre ufficiali), il buco finanziaro a carico dei contribuenti cresce, alla faccia di chi diceva – quando furono introdotte le tasse universitarie – che non è giusto che sia il cittadino britannico medio a farsi carico dell’educazione universitaria di un giovane.



5. Vabbè, ma io mi riferivo ai servizi pubblici. Lì sono migliori che in Italia.
Durante la campagna elettorale del 1997, il Partito Laburista ambiva ad appuntamenti con il medico di famiglia entro 48 ore. Per darvi una idea di come le cose siano peggiorate, guardate la promessa di Liz Truss, durante le elezioni primarie dell’estate 2022, di poter vedere il proprio medico entro un massimo di due settimane. Avete capito bene. L’ambizione attuale è di ridurre l’attesa per un appuntamento con il medico di famiglia a due settimane.
Non parliamo poi delle liste d’attesa per specialisti e/o operazioni. Ci sono buone ragioni per le quali il pietoso stato attuale del NHS (il sistema sanitario britannico) da qualche anno formi parte di qualsiasi dibattito politico del Regno Unito.
E che dire dei malcapitati ai quali, dopo 6, o magari 9, o anche 12 mesi d’attesa, è toccato un appuntamento con uno specialista (o un’operazione non urgente) in data 19 settembre 2022, giorno del funerale di Elisabetta II? Quanti mezzi di stampa italiani
hanno riportato la notizia della cancellazione di tutte le operazioni e appuntamenti medici come segno di rispetto per la monarca?
Eppure gli italiani vogliono essere colonia di un Paese dove succedono queste cose.



6. Sì, ma io mi riferivo ai treni. Fatti un giro su un treno italiano.
L’ho fatto. In varie occasioni. E in generale non è stata una bella esperienza. Ma almeno non ho speso le cifre esorbitanti che è tipico sborsare per i treni di Sua Maestà per servizi orrendi. Sono ormai pochissimi a dubitare, a destra e a sinistra, che l’operazione svendita di British Rail a metà degli anni ’90 sia stata un fallimento totale. Tra continui ritardi, servizi ridotti, cancellazioni, treni affollati, somme che deve versare continuamente lo Stato per sostenere servizi privatizzati e, soprattutto, biglietti con cifre da capogiro, anche lí l’Italia può stare tranquilla. Non ha nulla da invidiare al Paese della «lingua superiore».

[VAI ALLA PRIMA PARTE]
[CONTINUA CON LA TERZA PARTE]

*L’autore Peter Doubt è un traduttore/interprete (spagnolo-inglese-italiano) con doppia cittadinanza britannica e italiana. Ha vissuto in Inghilterra fino ai 29 anni. Vive in Spagna da 15 anni

Voglia di essere colonia. Ma di chi e di cosa? (1)

L’adorazione italica verso qualsiasi cosa ‘British’ analizzata ai raggi X. 1ª Parte. Di Peter Doubt*.

È ovvio che la questione della crescente proliferazione di (pseudo) anglicismi in sostituzione dell’italiano nel secolo XXI abbia chiari risvolti paralinguistici. Basta guardare un qualsiasi giornale o rivista italiana per rendersi conto dell’assurda ossessione anglofila dei mezzi di comunicazione dell’Italia di oggi (e dunque, ne consegue, dell’italiano medio).

Questa serie di articoli si occuperà dei deliri onanistici indotti da qualsiasi cosa abbia origine nel Regno Unito (specialmente in Inghilterra), lasciando per il momento da parte l’ancora più ovvia devozione italica per gli Stati Uniti.

La recente scomparsa a reti unificate della monarca Elisabetta Windsor, al netto del cambio epocale marcato dalla dipartita di un capo di Stato dopo 70 anni, ci ha fatto toccare con mano l’autentica #vogliadiesserecolonia presente in Italia e l’abitudine fin troppo consolidata di elevare a livelli quasi mitici qualsiasi cosa dal vago sapore britannico.

Per qualche ragione, gli italiani hanno deciso – e sembrano farlo in maniera crescente – che persino le scorregge prodotte in Gran Bretagna siano più efficienti, più profumate, più «trendy», più «cool», e più degne di godere di un eco mediatico che erra tra il positivo, il curioso e l’invidioso. Voglia di essere colonia, appunto. Ne è prova il fatto che lo stesso non accada – salvo rare eccezioni – con notizie e avvenimenti da Paesi non anglofili, si tratti di cambi di governo, scandali vari, eventi, famiglie reali e altro. Un esempio scemo? Quando è morta Angela Lansbury, la «Signora in Giallo«, Rete 4 ha fatto il cartello «Grazie, Angela».
Non fecero lo stesso quando morì Horst Tappert (l’ispettore Derrick) o persino miti nazionali quali Raffaella Carrà o Paolo Rossi.

E allora. Perché gli italiani considerano il Regno Unito un Paese superiore? Da dove deriva questa attitudine zerbinesca, questa illusione distorta e spesso completamente obsoleta o sbagliata? Si badi bene che questo articolo non ha alcuna pretenzione nazionalista o di presunta superiorità italica. Non è nostro desiderio stilare classifiche tanto puerili come inutili (e tra l’altro soggettive), né negare che problemi di portata enorme siano presenti alla grande – ALLA GRANDE – anche in Italia. Semplicemente chi scrive trova ingiustificati i complessi d’inferiorità italiani verso qualsiasi cosa d’oltremanica.



1. «British» è sinonimo di calma e flemma.
Per qualche motivo, gli italiani hanno deciso di non assorbire cognitivamente i livelli industriali di aggressività, teppismo e inciviltà esportati dai britannici durante gli ultimi decenni. Dalla strage dell’Heysel e il fenomeno degli hooligans (inclusi, tra tantissimi episodi, la finale di Atene ’07, gli Europei 2020, o la finale dell’Europa League 2022) alle statistiche sempre peggiori sull’ultraviolenza in stile Arancia Meccanica (ultraviolence e A Clockwork Orange nella versione originale) nei centri urbani del Regno Unito, dal nesso tra abuso di alcol e violenza domestica (vera propria piaga nazionale) alle sempre più frequenti immagini indecorose di casino totale nella Camera dei Comuni, o ai comportamenti da belve selvagge sulle reti sociali, in realtà relazionare la parola «British» a un concetto di calma e comportamenti civili sarebbe come identificare la parola «siberiano» per definire temperature tropicali. Patetico, appunto.
Eppure gli italiani lo fanno. Non i tedeschi, non i francesi. Certamente non gli spagnoli, i quali conoscono fin troppo bene i comportamenti «British» dei turisti d’oltremanica (coniando le espressioni turismo da borrachera, turismo da ubriachi, e balconing, per descrivere la condotta idioticamente vandalica da parte di troppi turisti britannici in posti come Mallorca, Ibiza, Salou, Magaluff, Benidorm, ecc).
Per qualche motivo, l’italiano medio continua ad associare la gente «British», cioè i britannici, alla bombetta, i gentiluomini e la flemma, non importa quante violenze negli stadi, acidi buttati su vittime da scippo o stupri di poliziotti.

i

2. Ma non c’è paragone con il crimine in Italia. Le città britanniche sono tranquille. Io a Luglio sono stato in un villaggio sulla costa della Manica ed era così pacifico!
Questo è il problema. Una settimana, due, o tre, da turista in posti da cartolina non rappresenta nulla. Il villaggetto pittoresco, specie se vissuto sporadicamente, non rappresenterà mai la vita quotidiana di un Paese.
Né ci si può aspettare che siano giornalisti e corrispondenti vari a mostrarla in maniera esaustiva, dato che troppo spesso vivono (non per colpa loro) in una realtà asettica, privilegiata, al 95% focalizzata nelle zone nevralgiche di Londra, concentrati sulle notizie relativa alla famiglia reale, dibatitti politici, celebrità, attori, e poco altro.
Certo, solo un imbecille negherebbe che l’Italia abbia problemi serissimi con la criminalità e con il crimine organizzato, specialmente in certe zone e in certi centri urbani, ma è falso credere che la Gran Bretagna sia un’oasi di pace e tranquillità. Si provi a studiare la realtà in una qualsiasi città britannica, specialmente in determinati quartieri. In ordine sparso, Birmingham, Liverpool, Glasgow, Hull, parti importanti di Londra, Sheffield, Greater Manchester. Tra squallore urbano, violenza quotidiana e gruppi criminali organizzati, da 30 anni a questa parte c’è stato un deterioramento totale della sicurezza nazionale (e certamente della percezione di insicurezza).
Non aiuta neanche l’impianto urbanistico tipico delle città britanniche, dato che le numerosissime zone dormitorio (dove si susseguono chilometri e chilometri di file di case senza alcuna vita sociale) sono il canale perfetto per alienazione, isolamento ed episodi di teppismo brutale. Londra a parte (parzialmente), le grandi città britanniche sono caratterizzate da interi quartieri dove negozi, ristoranti, pub, edifici di interesse pubblico e zone di ritrovo sono tutti concentrati esclusivamente in un viale principale (la «high street«) da cui si diramano chilometri di strade, spesso illuminate pochissimo, con case e nient’altro.
Il libro «Yob Nation – The Truth About Britain’s Yob Culture» (Nazione teppista – La verità sulla cultura teppistica della Gran Bretagna) dell’autore Francis Gilbert (edizioni Portrait), già nel 2006 analizzava la crescente violenza e brutalità di cui è intrisa in cui la società britannica, a tutti i livelli. Il libro «Tescopoly» di Andrew Simms (2007, Constable) faceva riferimento ai centri commerciali e la grande distribuzione (per esempio la catena di ipermercati Tesco) come ormai i restanti punti focali di «socializzazione» e «calore umano», tra virgolette, in una società britannica sempre più atomizzata e basata sull’isolamento individuale.



[CONTINUA]

*L’autore Peter Doubt è un traduttore/interprete (spagnolo-inglese-italiano) con doppia cittadinanza britannica e italiana. Ha vissuto in Inghilterra fino ai 29 anni. Vive in Spagna da 15 anni